Sassari, Teatro Comunale, Stagione lirica 2015
Orchestra e Coro dell’Ente Concerti “Marialisa de Carolis”
Direttore Gaetano D’Espinosa
Maestro del Coro Antonio Costa
Soprano Francesca Tiburzi
Mezzosoprano Silvia Beltrami
Tenore Max Jota
Basso Abramo Rosalen
Ludwig Van Beethoven: Sinfonia nr.9 in re minore op.125
Con voci e coro finale sull’ode di Friedrich Schiller “An die Freude”
Sassari, 5 dicembre 2015
La stagione lirica 2015 dell’Ente Concerti de Carolis è stata sicuramente molto ambiziosa: per allineare un’opera di grande virtuosismo vocale come la rossiniana Elisabetta regina d’Inghilterra, la più celebrata opera di Mozart, Il più popolare balletto del repertorio, l’amatissima Aida per terminare poi col capolavoro sinfonico per eccellenza, bisogna avere molta sicurezza nei propri mezzi artistici e produttivi. Tante persone appassionate donano sicuramente la loro professionalità, se non sempre il professionismo, per la realizzazione della stagione lirica sassarese, ma la programmazione artistica dovrebbe avere un senso, specialmente sulla base delle risorse, umane e non solo, che si hanno a disposizione. Nel recente passato l’Ente Concerti si è spesso segnalato per operazioni meritorie che hanno saputo coniugare innovazione e tradizione, con una certa visibilità anche nazionale dovuta soprattutto alla ripresa di titoli poco conosciuti o dimenticati. Affrontare notissimi capolavori ben collocati nell’immaginario collettivo non è impossibile, ma richiederebbe, visti i risultati, maggiore prudenza e una preparazione molto più accurata della norma sia, prima di tutto, per il rispetto dovuto agli stessi, sia per l’inevitabile confronto con i grandissimi interpreti che ne hanno costruito la storia esecutiva.
È il caso anche della Sinfonia in re minore op. 125 di Ludwig Van Beethoven che deve la sua notorietà presso il grosso pubblico per il finale corale dell’ultimo movimento, il cosiddetto Inno alla Gioia su testo di Schiller, ma la sua importanza nella storia del pensiero umano è sicuramente dovuta a ben altro. Proprio la parte vocale, tra l’altro, fu quella soggetta ai maggiori ripensamenti da parte del compositore che arrivò anche a progettare di sostituirla in seguito con un movimento integralmente strumentale di cui esistono vari abbozzi. L’autore, ossessionato nei suoi ultimi capolavori dall’unitarietà assoluta, probabilmente non era convinto dal cambio di registro e riteneva che il pur semplice elemento melodico del quarto tempo non fosse così coerente col resto dell’opera: le quinte vuote dell’Allegro non troppo iniziale, il salto di ottava dello Scherzo, l’arpeggio dell’Adagio, introducono i movimenti precedenti con dei frammenti elementari, più che temi tradizionalmente intesi, cui segue per contrasto un’elaborazione straordinaria, paragonabile forse solo a quella presente nelle ultime opere di Bach. Col filtro del tempo sono ovviamente meno percepibili le altre novità dell’opera che avevano sconcertato anche i sostenitori più accaniti del compositore: la dilatazione e le novità formali, le problematiche tecniche e anche il mutato rapporto delle sezioni strumentali all’interno dell’orchestra. Ancora fino agli anni 50 del ventesimo secolo ci furono direttori che si permettevano di correggere le “stranezze” orchestrali del Genio ormai sordo. Ora ovviamente sappiamo perfettamente quale consapevolezza animasse in realtà la scrittura beethoveniana, soprattutto per una coscienza culturale moderna che adesso è portata a salvaguardare e contestualizzare il passato; gli abusi esecutivi anche di grandi direttori ora non avrebbero alcun senso e fiumi di parole sono stati scritti su quest’opera straordinaria, tra le più note ma spesso equivocate del repertorio musicale in ogni tempo.
Questa premessa è necessaria per provare a far capire lo sconcertante approccio che ha caratterizzato il concerto conclusivo della stagione lirica sassarese: è inevitabile pensare che, avendo a disposizione organici stagionali e in parte amatoriali, mettere su un monumento così complesso e discusso con due giorni di prove più generale, poco dopo l’ultima recita di Aida di cui è stato parzialmente utilizzato il cast vocale, implichi perlomeno la sottovalutazione o una scarsa conoscenza dell’impegno esecutivo, stilistico e culturale necessario per un’impresa del genere.
Il direttore Gaetano D’Espinosa si è ovviamente preoccupato prima di tutto dell’insieme, ottenendo complessivamente un risultato discreto nonostante qualche vistoso incidente con solisti e coro: i tempi sono apparsi nella tradizione ottenendo anche una certa incisività ritmica, ma per il resto ben poco ha fatto, o ha potuto fare, per la complicata concertazione dell’opera. Si sono sentiti sicuramente i colori fondamentali e anche alcuni crescendo ben realizzati, ma era evidente la difficoltà nel costruire varietà dinamica e trasparenza, necessarie per la complessa trama della partitura. Non è stato sicuramente aiutato in ciò dall’infelice disposizione soprattutto dei corni che, con la campana contro la parete riflettente, avevano una predominanza innaturale che alterava notevolmente gli equilibri sonori nell’orchestra. Probabilmente per gli spazi e l’acustica del Teatro Comunale, la timbrica era influenzata inoltre da una certa leggerezza dei bassi, dovuta anche all’assenza del controfagotto che, previsto in partitura, avrebbe contribuito sicuramente al colore e alla fusione nel registro grave. I fraseggi apparivano piuttosto uniformi e dovuti più che altro a un certo naturale spontaneismo ma, soprattutto, mancava, o era difficilmente percepibile, un’idea interpretativa unitaria che fosse sovrapponibile al rigore costruttivo del brano. Ne ha sofferto soprattutto il difficile e bellissimo terzo tempo che, senza la caratterizzazione ritmica degli altri movimenti, appariva lungo e monotono, privo delle necessarie tensioni espressive che ne avrebbero illuminato i punti fondamentali. L’orchestra ha reagito con professionalità e ammirevole impegno per l’occasione: gli incastri funzionavano quasi dappertutto ed è sicuramente già un’impresa mettere su un’opera del genere in due giorni, specialmente non avendola in repertorio. Nel dettaglio sono stati veramente apprezzabili i legni cui bisogna dedicare una nota particolare; una delle tante particolarità della Nona è il dialogo praticamente paritario tra i cosiddetti strumentini e archi che, all’epoca, costituivano in netta predominanza l’ossatura dell’orchestrazione. Gli esempi nella partitura di passaggi esclusivamente affidati ai fiati sono numerosi, con gli archi spesso relegati insolitamente in funzione di accompagnamento o di ripieno. Sicuramente consci della difficoltà e importanza del loro ruolo, gli strumentini hanno preparato coscienziosamente la parte, dando una prestazione ragguardevole per precisione, qualità del suono e intonazione, con una menzione particolare per l’eccellente primo flauto. Più difficili da equilibrare, ma comunque su un buono standard esecutivo, gli ottoni, mentre gli archi sono la sezione che ha sofferto maggiormente; non per la capacità tecnica individuale, comunque buona, ma per tutte le qualità che sono normalmente richieste alle parti d’insieme a un certo livello. Controllo e qualità del vibrato, uguaglianza, sfumature, pulizia di tutti i passaggi ed equilibrio delle dinamiche in un brano del genere non sono un esercizio superfluo ma, ovviamente, avrebbero richiesto un lavoro di ben altro spessore.
Arriviamo alle note dolenti, purtroppo coincidenti con ciò che, a torto o a ragione, rendono questa sinfonia così popolare: l’inserimento della vocalità nel tessuto sinfonico orchestrale. Non è scelto a caso il termine “inserimento” perché, per quanto ciò possa adesso apparire strano, solisti e coro furono concepiti anche loro in un equilibrio non preponderante, come una sezione aggiunta dell’orchestra. Le soliste della prima assoluta erano due ragazzette di venti e diciassette anni, abili cantanti di lieder, e il coro, secondo certe testimonianze, sarebbe stato composto da neanche quaranta elementi, nonostante un’orchestra numerosa e rinforzata. Conoscendo quanto Beethoven fosse rigoroso nella presentazione delle sue opere e pur dando l’ovvio beneficio d’inventario sulla qualità di una prima così sperimentale e difficile, abbiamo da ciò tutta una serie d’importanti informazioni. La prima è che l’idea, chiamiamola “italiana”, della voce svettante su un accompagnamento strumentale è sicuramente lontana dalla volontà del compositore. La seconda conferma che la vocalità richiesta agli interpreti è lontana mille miglia per qualità, interpretazione e impostazione da quella del melodramma italiano che, oltretutto, Beethoven odiava profondamente. Rossini a Vienna aveva all’epoca un buon successo e il permalosissimo compositore, che pure aveva ricevuto con cortesia il collega italiano, valutò anche per ciò di trasferire la prima della sua grande sinfonia a Berlino: arrivò persino a togliere il saluto a cari amici colpevoli di giudizi positivi sulla musica italiana che, proprio a Vienna, era sempre stata di casa. E, si badi bene, stiamo parlando del periodo d’oro del belcantismo operistico! Grande tecnica, controllo dell’emissione ferrea, colorature e dinamiche virtuosistiche con acuti realizzati esclusivamente di testa: caratteristiche lontane dal suono spinto e dal belante vibrato continuo che spesso passa adesso per “impostazione lirica”. In parole povere ciò che si è sentito l’altra sera è frutto fondamentalmente di un grosso equivoco culturale che porta ancora oggi, in alcune parti del nostro paese, a filtrare sempre e comunque qualunque musica vocale attraverso le lenti del tardo melodramma italiano. Di ciò, si badi bene, è stato vittima in passato lo stesso Rossini, ma adesso a nessuno verrebbe in mente di far cantare la cavatina di Figaro a un ottimo interprete dell’Alfio di Cavalleria Rusticana: diverse le scritture, le logiche, le estensioni e ovviamente lo stile. In questo senso è facilmente spiegabile l’idiozia di un Beethoven “incapace di scrivere per le voci” che ha sempre circolato in ambito operistico: le tessiture dell’Inno alla Gioia sono proibitive se lette con le logiche di compare Alfio, difficili ma assai più praticabili se inserite nella storia della grande tradizione sinfonico corale tedesca cui Beethoven si riferiva. A questo proposito è il caso di ricordare che, il giorno della storica prima al Kärntnertortheater, 7 maggio 1824, coro, solisti e orchestra eseguirono anche Kyrie, Gloria e Credo dalla Missa Solemnis dello stesso autore, altro grande capolavoro dove sono evidenti i riferimenti a Bach e alla sua scrittura.
Solo il basso Abramo Rosalen ha mostrato una buona compatibilità con la propria parte, nonostante la notevole estensione: abbiamo già notato le sue doti vocali nel corso della stagione e, dopo averlo sentito nel Don Giovanni e in Aida, a questo punto dobbiamo anche ammirare la duttilità e l’intelligenza con cui è riuscito ad affrontare repertori e ruoli così differenti. Fondamentalmente estranea allo stile, ma almeno corretta dal punto di vista esecutivo, il mezzosoprano Silvia Beltrami, l’Amneris dell’Aida appena allestita, mentre il soprano Francesca Tiburzi era in evidente difficoltà anche nell’intonazione, nel tentativo di dominare la tessitura con mezzi vocali inadatti per l’occasione. Delude anche il tenore Max Jota che, oltre a essere evidentemente soverchiato dalla vocalità dei partner, sembrava non conoscere bene la parte: solo questo spiegherebbe i pasticci e le imprecisioni nell’esecuzione, nonostante un timbro che sarebbe stato anche adatto per l’opera. Al di là comunque delle prestazioni individuali mancava una concertazione del quartetto vocale che risultava squilibrato, senza insieme e trasparenza nel fraseggio, nell’emissione e ovviamente lontano da una coerente visione interpretativa. Gli stessi problemi erano evidenti anche nel coro dell’Ente, preparato da Antonio Costa. Notevole l’impegno dei cantori, ma cercare di risolvere sul piano della forza o di una presunta emissione operistica una parte del genere, oltre a una distorsione della volontà compositiva, ha portato inevitabilmente dei problemi esecutivi, soprattutto nella fusione e persino nell’intonazione: i soprani e i tenori in particolare non riuscivano a tenere a lungo e fermi acuti di quella durata emessi in maniera così forzata, con un vibrato troppo disuguale e incontrollato. Tra l’altro, complice anche l’assenza di una conchiglia acustica dietro il palcoscenico, tanto sforzo peggiorava notevolmente il timbro mentre il risultato sul piano dell’intensità sonora era poco apprezzabile. È possibile, come in Aida, ottenere buoni risultati assemblando un coro per interventi operistici con amatori anche di esperienze piuttosto variegate: ma il grande repertorio corale ha ben altre difficoltà e richiede preparazione e impostazione profondamente differenti per qualità e quantità. Chi vi scrive su queste pagine ha recensito l’anno scorso il meraviglioso concerto del venerdì santo alla Philarmonie di Berlino, con una Matthäus Passion tutt’altro che filologica, eseguita con strumenti moderni e un grande coro di ottanta elementi. Nonostante la potenza e il numero era incredibile la leggerezza, l’insieme, il controllo del vibrato, il dominio delle tessiture, la bellezza vocale e la perfetta intonazione di questa macchina da guerra, pur formata da non professionisti che, appena una settimana prima, aveva eseguito proprio il finale della Nona Sinfonia, ovviamente all’interno della stessa logica. Certe operazioni “vintage” degli anni ’50 con il coro della RAI che passava con disinvoltura dal Gloria di Vivaldi alle selezioni operistiche, da Bach alla Messa da Requiem di Verdi, al giorno d’oggi sono semplicemente impensabili e persino i cori stabili odierni provano a lungo con grandi direttori e ottimi preparatori prima di affrontare certe partiture con il giusto approccio vocale e stilistico. In parole povere è assolutamente necessaria una maggiore consapevolezza prima di programmare un repertorio così importante e al di fuori delle proprie abitudini esecutive. All’inizio del concerto, dedicato alle vittime dei recenti attacchi terroristici, l’attore Sante Maurizi ha interpretato con partecipazione la traduzione italiana del testo mentre il pubblico, nonostante una certa delusione per l’impatto sonoro, ha decretato un grande successo all’esecuzione: talmente grande che ha applaudito alla fine di ogni movimento e persino in varie pause cadenzali. Non è il caso di scandalizzarsi più di tanto, si faceva anche al tempo di Beethoven: ma sicuramente con una conoscenza ben diversa.