Teatro Goldoni- Stagione Lirica 2015/2016
“ZANETTO”
Atto unico di G. Targioni-Tozzetti e G. Menasci dalla commedia Le passant di François Coppée
Musica di Pietro Mascagni
Silvia CRISTINA MARTUFI
Zanetto ALESSANDRA MASINI
Ripresa dell’edizione 2007 della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno
“CAVALLERIA RUSTICANA”
Melodramma in un atto di G. Targioni-Tozzetti e P. Menasci dall’omonima novella di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza YVONNE MANFREDA
Lola MARIA SALVINI
Turiddu VITALIY KOVALCHUK
Compare Alfio MAMUKA LOMIDZE
Mamma Lucia CARLOTTA VICHI
Associazione Schola Cantorum Labronica
Coro di Voci Bianche della Fondazione Teatro Goldoni
Orchestra Giovanile dell’Istituto “P. Mascagni” di Livorno
Direttore Valerio Galli
Maestro del coro Maurizio Preziosi
Maestro del coro voci bianche Marisol Caraballo
Regia Alessio Pizzech
Scene Michele Ricciarini
Costumi Cristina Aceti
Luci Valerio Alfieri
Ripresa dell’edizione 2011 della Fondazione Teatro Goldoni di Livorno
Livorno, 13 dicembre 2015
Dicembre, mese di nascita di Pietro Mascagni (il 7 dicembre 1863 per l’esattezza) prevede quasi inevitabilmente nella natia Livorno la messinscena di una delle sue opere; quest’anno, in cui cade anche il settantesimo anniversario della scomparsa, il Teatro Goldoni ha proposto ancora una volta Cavalleria rusticana, abbinandola a Zanetto, altro atto unico che Mascagni stesso amava eseguire insieme al suo più celebre capolavoro, nella speranza di rompere il maldigerito ma inossidabile accoppiamento con Pagliacci. Con Zanetto, composto nel 1896 per il Liceo Rossini di Pesaro di cui era direttore, Mascagni effettua una virata a 360 gradi rispetto all’opera immediatamente precedente, quel Silvano andato in scena per la prima volta l’anno prima al Teatro alla Scala e che, sebbene non manchi affatto di pagine di valore, rivela immediatamente anche allo spettatore più causale lo spasmodico tentativo di ricreare a tavolino un’opera “verista” per riguadagnare i fasti popolari di Cavalleria. Al contrario, con Zanetto Mascagni volge lo sguardo al Parnassianesimo, movimento culturale francese tardottocentesco caratterizzato da una decisa reazione al Romanticismo che aveva imperato per la maggior parte del secolo, e lo fa scegliendo un soggetto tratto da Le passant di François Coppée, in pratica un (relativamente) pacato dialogo fra due personaggi quasi privo di tensione narrativa e basato su un concatenarsi di lievi reazioni psicologiche, tanto che rimane difficile comprendere la ragione per cui Sarah Bernhardt, solitamente attratta da drammi ben più sanguigni, amasse farne un cavallo di battaglia. Nonostante sia adesso pressoché caduto in un semi-oblio, ancora in vita il compositore Zanetto godeva di un certo favore del pubblico, ed era parte del repertorio di grandi primedonne quali, nel ruolo del titolo, Gianna Pederzini e Giulietta Simionato, e in quello di Silvia (protagonista a tutti gli effetti) Maria Farneti, Rosanna Carteri, Iris Adami Corradetti e la “Madama Verismo” in persona, ossia Gemma Bellincioni. Persino la critica, raramente benevola nei confronti di Mascagni, lo accolse con entusiasmo, e valga per tutti il commento di Ugo Ojetti, allora all’apice della fama per aver appena dato alle stampe Alla scoperta dei letterati: “ Io credo che il Mascagni abbia fatto in queste scene deliziose la sua opera più organica, più originale e più continua. Una sola nota tolta aggiunta o mutata danneggerebbe quei discorsi sotto la luna, a cospetto di Firenze pallida e addormentata”. Che nelle mani di Alessio Pizzech non avremmo visto una rinascimentale Firenze pallida e addormentata era pressoché scontato, eppure nulla lasciava presagire il sorprendente gioco di scambi di identità sessuali in cui il regista livornese ha trasformato una trama che sulla carta si presenta piuttosto lineare e anche un po’ trita (cortigiana che crede di avere il cuore indurito scopre invece di esser vulnerabile grazie a un ragazzo ingenuo e per lui si sacrifica: l’abbiamo già letta da qualche parte…). Certo, Pizzech trasforma una storiella commovente e melanconica in un drammatico confronto/scontro con tanto di suicidio finale, ma l’effetto teatrale è trascinante e coinvolgente, grazie anche alle due interpreti, Alessandra Masini, uno Zanetto vocalmente aggraziato e composto, perfetto contraltare di Cristina Martufi, una Silvia dal timbro molto potente soprattutto nel registro acuto decisamente debordante. Cavalleria rusticana era una ripresa dell’allestimento che Pizzech aveva creato, accoppiandolo a Pagliacci, per Livorno e che aveva poi viaggiato a Lucca Modena e Pisa, quattro stagioni or sono; nella messinscena originale le due opere venivano accomunate dalla presenza di un personaggio di un’ anziana donna che entrava in scena ad assistere ad alcuni momenti chiave, e che alla fine di Cavalleria tornava in scena a gelidamente sussurrare “Hanno ammazzato Compare Turiddu”, spiazzando tutti coloro che si aspettavano il solito urlo agghiacciante. Questa figura materna era all’epoca accompagnata anche da altre due versioni della protagonista, un’adolescente e una bambina, di cui solo quest’ultima continua ad apparire in questo revival, durante l’Intermezzo. L’epoca (ricreata dalle scene di Michele Ricciarini e dai bei costumi di Cristina Aceti) è quella dell’Italia post bellica, in un’atmosfera di desolazione, con la casa di Santuzza ridotta ad alcune pareti in rovina circondata solo dalla taverna di Mamma Lucia e dalla chiesa, anch’esse severamente danneggiate; l’unico oggetto di mobilio presente nella casa è un materasso, su cui e intorno al quale la protagonista è confinata per tutto il preludio, la Siciliana di Turiddu e l’entrata del coro. Indubbiamente mostrare una Santuzza in sottoveste che gravita intorno al suo letto, simbolo dello stato sociale cui una donna meridionale era destinata (o santa o puttana con niente in mezzo) è un’idea potente e vincente, se solo non si fosse fatta durare un’eternità: quante volte può un povero (mezzo) soprano gettarsi sul letto, far finta di piangere, asciugarsi le lacrime, prostrarsi davanti al Crocifisso e poi ricominciare tutto daccapo? A parte questa piccola osservazione, è tuttora una regia molto valida, spesso un vero e proprio pugno allo stomaco nella sua appropriata brutalità. Certo, bisogna poter contare su una Santuzza particolarmente brava anche come attrice per poter reggere tutta quella pantomima, e bisogna ammettere che Yvonne Manfreda è riuscita a non cedere troppo alla tentazione, sempre dietro l’angolo in simili circostanze, di prodursi in esagerate gesticolazioni da diva del cinema muto. Il giovane mezzosoprano austriaco ha un bel timbro squillante, di una fermezza e compattezza straordinari, con un registro acuto molto sicuro e puntuto, che ricorda a sprazzi quello di una giovane Cossotto. Risulta quindi poco comprensibile come mai, con una simile apparente facilità in alto (ha perfettamente agganciato il si bemolle di “Turiddu mi tolse l’onore”, nota in cui ho sentito molti illustri soprani rimanere impiccati), abbia deciso di omettere il do acuto finale e di non tentare l’ascesa verso il si naturale (solo opzionale, bisogna precisare) al termine di “Inneggiam!”. Dopo una Siciliana in cui l’intonazione degli intervalli ascendenti di terza e quarta era alquanto incerta , il tenore Vitaliy Kovalchuk è andato migliorando nel corso dell’opera, anche se la parte di Turiddu mi pare ancora un po’ troppo azzardata per la sua vocalità lirica. Il ruolo di Alfio, tutto sommato tagliato con l’accetta, si è rivelato più adatto alle caratteristiche vocali di Mamuka Lomidze (timbro scuro, potente, voluminoso ancorché rigido e non dotato di molte sfumature) assai più dell’altro iconico personaggio siciliano, il Barone Scarpia, che il baritono georgiano ha portato su questo stesso palcoscenico livornese l’anno passato. Carlotta Vichi ha fatto intravedere una vocalità di vero mezzosoprano ben emessa e piacevole, e sarebbe interessante ascoltarla in ruoli più impegnativi. Maria Salvini ha offerto un timbro sopranile molto fresco e giovanile, in linea con la concezione che Pizzech ha del suo personaggio, una Lola particolarmente vivace, civetta più per incoscienza legata all’età e alla convinzione di farla franca che non vera e propria femme fatale. Tutti o quasi questi cantanti erano stati selezionati nel corso di masterclass tenuta dal soprano Fiorenza Cedolins. Ottimi come al solito il Coro Schola Cantorum Labronica diretto da Maurizio Preziosi e Coro delle Voci Bianche della Fondazione Teatro Goldoni sotto la guida di Marison Caraballo. Rifacendosi allo spirito di Zanetto, composto per una compagine orchestrale di studenti del conservatorio pesarese, per la prima volta il Teatro Goldoni si è avvalso della collaborazione dell’Orchestra Giovanile dell’Istituto “Pietro Mascagni” di Livorno, cui han dato manforte alcuni strumentisti provenienti dal Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze, tutti giovani musicisti che hanno da mesi preparato le rispettive parte giungendo a risultati encomiabili, tanto che se non fosse stato riportato nel programma, non avrei mai pensato che in buca non ci fossero degli esperti professori d’orchestra. Il merito è indubbiamente attribuibile anche e soprattutto a Valerio Galli, che a poche settimane dal trionfo lucchese in Madama Butterfly, si conferma ancora una volta uno dei più talentuosi direttori dell’ultima generazione. Se in Zanetto è riuscito a diluire il quoziente saccarinoso aderendo alla visione caravaggesca di squarci di luce su fondali di tenebre di Pizzech, è in Cavalleria che Galli, voltando le spalle alla moda attuale imperante di avvicinarsi a quest’opera con tempi comodi, offre una lettura dal profilo ritmico preciso, scattante, incisivo, in cui l’agogica tendente a una teatralissima e avvincente esasperazione dei contrasti (da lasciar senza fiato la fulminante scala ascendente che conclude il duetto Alfio/Santuzza) non impedisce lo scorrimento di un coerente e logico flusso narrativo. Il culmine dell’entusiasmo viene raggiunto con l’intermezzo, eseguito con una bacchetta appartenuta a Mascagni stesso e gentilmente messa a disposizione dalla Dott.ssa Ughetta Bertini, uno dei contralti del coro, e bissato dopo molti minuti di entusiastiche richieste. Foto Augusto Bizzi, Livorno