Francesco Cavalli: “Veremonda, l’amazzone di Aragona”

Lo scopo di questo articolo è quello di portare all’attenzione dei lettori un’opera di Francesco Cavalli, Veremonda l’amazzone di Aragona, rimasta sepolta nell’oblio per trecentocinquanta anni nonostante appartenga al periodo forse più fruttuoso di uno dei massimi compositori del Barocco italiano, ed anzi di ogni epoca, soprattutto alla luce della sua recente riesumazione in allestimento dello Spoleto Festival USA  trionfalmente accolto.  Sono ormai vari decenni che a Francesco Cavalli viene pienamente riconosciuto il posto che gli spetta, ossia quello di geniale innovatore la cui influenza non fu minore di quella di Monteverdi.  In comune con il Cremonese aveva le origini lombarde: nacque infatti a Crema nel 1602 con il nome di Pietro Francesco Caletti Bruni, che cambiò in età adulta in quello di Cavalli assumendo il cognome dell’aristocratico veneziano suo primo patrono, grazie al quale poté quattordicenne trasferirsi a Venezia per far parte del coro della Basilica di San Marco, prima tappa di una carriera musicale prolifica, gloriosa e lunga, se si considera che morì nel 1676, cessando di comporre opere solo tre anni prima della morte.  Il 1639 fu un anno spartiacque per la sua carriera in quanto, oltre ad esser nominato secondo organista nella Basilica di San Marco, mise in scena la sua prima opera, Le nozze di Teti e Peleo, al Teatro di San Cassiano in Venezia, il primo teatro pubblico del mondo.  Scrisse circa quarantatré opere di cui sedici, incluse le ultime due per il momento solo al lui attribuite, sono andate perdute.  Durante la sua vita godette di immensa popolarità, codificando, per lo più insieme al librettista Giovanni Faustini, l’opera veneziana, che portò in giro per l’Italia e persino a Parigi, dove fu chiamato nel 1662 per comporre Ercole amante, con la musica per i balletti fornita da Jean-Baptiste Lully.  Dopo la sua morte le sue opere svanirono piuttosto rapidamente dai palcoscenici, fato comune a moltissime generazioni di compositori, dato che il concetto di repertorio come lo conosciamo oggi è si è sviluppato solo nell’Ottocento, e il pubblico bramava in continuazione opere nuove.  Sebbene la prima riesumazione in epoca moderna di una sua opera si debba al Maggio Musicale Fiorentino, che nel 1952, in occasione del trecentocinquantesimo anniversario della sua nascita, riportò sulle scene Didone, è comunque grazie all’interesse e dedizione di Raymond Leppard con le sue incisioni e direzioni a Glyndebourne che Cavalli è tornato prepotentemente alla ribalta internazionale.  Fra le numerose partiture ancora in attesa di riscoperta giaceva alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia anche quella di Veremonda, l’amazzone di Aragona, finché il direttore artistico dello Spoleto Festival, USA Nigel Redden, attratto dall’idea di proporre un’opera di Cavalli in prima moderna, non incoraggiò il direttore australiano Aaron Carpenè (il direttore di questa ripresa) a recarsi a Venezia per darle una spolverata e stabilire se fosse possibile redarre una versione esecutiva, andata in scena, dopo mille contrattempi di ogni genere, a Charleston nel maggio e giugno di quest’anno.  Il cast era così formato: Joseph Barrow (Roldano), Jason Budd (Giacutte), Steven Cole (Don Buscone), Brian Downen (Zeriffo/Il Crepuscolo), Vivica Genaux (Veremonda), Michael Maniaci (Zaida), Francesca Lombarda Mazzulli (Zelemina), Andrey Nemzer (Re Alfonso/Il Sole), Raffaele Pè (Delio), Céline Ricci (Vespina), Danielle Talamantes (Sergente Maggiore).  La parte visiva era affidata ad una squadra tutta italiana di primissima classe, capitanata dal regista Stefano Vizioli (ritornato al Festival Spoleto USA dopo l’enorme successo riscosso l’anno prima con l’insolito dittico Mese Mariano di Giordano e Le villi di Puccini), con i costumi di Luigino Piccolo e le scene “pop-art” del celebre pittore/scultore/cineasta Ugo Nespolo.  Le cronache unanimi riferiscono di un enorme successo di pubblico e di critica per ogni aspetto della produzione.  L’edizione critica della partitura è prevista per il 29 Aprile 2016 al Festival di Schwetzingen in una coproduzione con lo Staatstheater Meinz (Magonza) in Germania.  Veremonda, composta nel 1652 su un libretto di Giulio Strozzi, adattamento a sua volta di testi precedenti di Andrea Cicognini (Il Celio e Don Gastone Moncada), fu l’unica opera di Cavalli ad esser eseguita in prima assoluta a Napoli, nel dicembre di quello stesso anno, al Nuovo Teatro del Palazzo Reale.  Alcune fonti comunque citano Venezia come sede della prima rappresentazione, probabilmente confondendo la prima esecuzione nella città lacunare del 1653 con la première vera e propria. Come ogni opera barocca che si rispetti, anche Veremonda presenta una trama arzigogolata, ricca di personaggi cui toccano in dote, a seconda delle convenienze, un certo numero di arie.  Ambientata a Gibilterra durante una non meglio storicamente identificata riconquista spagnola dell’ultima fortezza ancora in mano ai saraceni, Veremonda è in realtà un’opera politicamente opportunista in quanto celebratrice della definitiva sconfitta dell’indipendentismo catalano ad opera di Madrid.  Dopo il canonico prologo, che non può certo aver ben disposto le dame dell’epoca se si considera che, dopo l’apparizione del Crepuscolo che invita il pubblico a godersi lo spettacolo, il Sole al tramonto replica avvertendo le signore che anche il loro splendore prima o poi svanirà. Hanno quindi avvio le complicate vicende guerresco-amorose della regina Veremonda, che, frustrata dall’apparente indifferenza del regale consorte Alfonso nei confronti delle imprese militari, decide di vestirsi da soldato per guidare personalmente un esercito di donne verso la vittoria definitiva; non mancano naturalmente gli intrighi amorosi, qui rappresentati principalmente dalla passione del comandante spagnolo Delio verso la regina moresca Zelemina (assecondata dall’immancabile serva ruffiana) la quale però si invaghisce anche del bel soldato in compagnia di Delio, che altri non è che Veremonda travestita, che a un certo punto anche Delio stesso cerca di sedurre.  Dopo altri fraintendimenti e peripezie e si arriva al lieto fine: Veremonda riesce ad aprire le porte della città e Delio può unirsi a Zelemina, che naturalmente si è convertita al Cattolicesimo.  Tratto saliente dell’opera è la commistione tipica dell’epoca fra il serio e il buffo, per non parlare della corrente sensuale che la percorre. Numerosi e e audaci sono i doppi sensi, come ad esempio nel seguente dialogo fra Zeriffo e Don Buscone:
ZERIFFO
A ritrovar l’Amazzoni men vo, Per visitar alcune
Delle lor mezzalune.
DON BUSCONE
Umor hai di soldato e sei nocchiero.
ZERIFFO
Su certe piatteforme a dirti il vero, Volentieri combatto e do di punta.
DON BUSCONE
Et io la fò di piatto, Con la spada ben unta.

Non mancano scene liriche, patetiche, per nulla inferiori a quelle ormai ben note della Calisto, che riguardano soprattutto il personaggio di Delio, cui Cavalli fornisce le arie più suggestive e quelle più vorticose; non è a caso che il titolo originale fosse Il Delio, scartato in favore di Veremonda in quanto ricordava  troppo da vicino l’opera di Cicognini da cui, come si è accennato prima, Strozzi aveva attinto a piene mani.  In evidenza, sin da un primo ascolto casuale, è l’insistito cromaticismo espresso sia armonicamente che melodicamente, unito a eccentriche esplosioni di passione ed a un senso di rassegnazione trasmesso da frasi con cadenze regolari e da linee discendenti usate per esprimere il dolore.  Un’opera quindi ricca di interesse e originalità, ed è un peccato che a nessuna casa discografica sia venuto in mente di immortalare in DVD, l’allestimento di Vizioli, o quanto meno pubblicarne una testimonianza sonora. Julia Lynn Photography.