Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2015-2016, Opera inaugurale
“IDOMENEO”
dramma per musica in tre atti KV 366.Libretto di Giambattista Varesco dalla tragédie en musique Idoménée di Antoine Danchet.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Idomeneo BRENDEN GUNNELL
Idamante MONICA BACELLI
Ilia EKATERINA SADOVNIKOVA
Elettra MICHAELA KAUNE
Arbace ANICIO ZORZI GIUSTINIANI
Gran Sacerdote di Nettuno KRYSTIAN ADAM
La voce dell’Oracolo MICHAEL LEIBUNDGUT
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Jeffrey Tate
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Alessandro Talevi
Scene Justin Arienti
Costumi Manuel Pedretti
Disegno luci Giuseppe Calabrò
Movimenti coreografici Nikos Lagousakos
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 24 novembre 2015
Scritta da Mozart (venticinquenne) tra l’autunno del 1780 e i primi giorni del 1781, su commissione del principe elettore Carlo Teodoro di Baviera, l’Idomeneo – oltre ad attestare l’interesse dell’autore per il mito greco – si conferma, secondo molti, come una delle opere serie, forse addirittura l’opera seria più straordinaria del Settecento, essendo fortemente innovativa per il ruolo di primo piano che vi assume il coro e la caratterizzazione musicale, in particolare, del protagonista, che può essere considerato il primo tenore moderno. Eppure questo capolavoro è stato a lungo trascurato dai teatri italiani: solo dopo essere approdato alla Fenice di Venezia nel 1947, dove fu diretto da Vittorio Gui (prima rappresentazione in Italia), è entrato abbastanza stabilmente in repertorio. L’abate Gianbattista Varesco, cappellano di corte dell’Arcivescovo di Salisburgo, trasse il libretto dalla tragédie lyrique scritta, per il compositore André Campra, da Antoine Danchet (1712), a sua volta ispiratosi alla tragedia di Prosper Jolyot de Crébillon (1705). Del libretto esistono due versioni: una con il testo integrale, l’altra con alcuni tagli, apportati da Mozart per vari motivi, tra cui quello di alleggerire il testo a beneficio della credibilità drammaturgica. Di questa genesi travagliata offre testimonianza l’intenso epistolario di questo periodo tra Wolfgang e il padre Leopold, che dà altresì notizia dell’esito assolutamente positivo della prima rappresentazione (nella versione integrale), presso il Residenztheater di Monaco, avvenuta il 29 gennaio del 1781, in occasione del carnevale. Una ripresa in forma di concerto (con tagli) si ebbe a Vienna nel 1786, in una versione riveduta, dove la parte di Idamante era riscritta per tenore. Il libretto di Varesco – che ricalca i caratteri del melodramma metastasiano con l’aggiunta di elementi mutuati dalla tragédie lyrique, quali danze, scene coreografiche, marce e cori – offriva a Mozart la possibilità di cimentarsi nelle più diverse tipologie stilistiche, che in effetti arricchiscono la partitura, nella quale peraltro già si coglie quella che sarebbe divenuta la cifra distintiva del teatro musicale più compiuto del Salisburghese, vale a dire quel realismo psicologico, fino ad allora sconosciuto nell’ambito dell’opera metastasiana. Come si è detto, l’Idomeneo anticipa i capolavori futuri: è un’opera dall’impianto metastasiano, basato sull’alternanza di arie e recitativi, ma Mozart dà unità al discorso musicale usando come connettivo il recitativo accompagnato, quella forma di declamato drammatico sorretto dall’orchestra, che – elemento cardine della riforma gluckiana – aprirà la strada verso il genere operistico durchkomponiert di Weber e Wagner. E poi va ricordata la straordinaria importanza che assume l’orchestra, nella quale primeggiano gli strumenti a fiato: altro elemento che guarda verso il futuro dell’opera.
Questo nuovo allestimento feniceo, che ha aperto la nuova stagione lirica del teatro veneziano, ideato dal registra Alessandro Talevi – coadiuvato per le scene da Justin Arienti, per i costumi da Manuel Pedretti, per le luci da Giuseppe Calabrò e per i movimenti coreografici da Nikos Lagousakos – ha come scopo precipuo quello di conferire alla vicenda – in cui i conflitti, che affliggono e oppongono i protagonisti, avvengono in una situazione di incontro-scontro tra Greci e Troiani – una valenza universale, così da renderla emblematica a prescindere da un preciso contesto storico-geografico. A tale scopo gli aspetti visivi e gestuali dello spettacolo – i costumi in particolare – rimandano a periodi storici e tratti stilistici alquanto diversi, senza tralasciare ovviamente il presente con le sue laceranti contrapposizioni tra Oriente e Occidente, alimentate dalla reciproca incapacità di accettare “l’altro” o anche di rendersi disponibili al cambiamento: un’idea non proprio originale, ma che comunque si inquadra in una concezione dell’arte, in base alla quale quest’ultima, quando è grande – lungi dall’essere puro esercizio di perfezione formale –, contiene un messaggio valido per sempre e per tutti. E questi nobili intenti vanno senz’altro ascritti a merito del regista e degli altri responsabili dello spettacolo, il quale, per altri versi, rivela alcuni aspetti discutibili come l’ambientazione di buona parte del primo atto in una sorta di museo di storia naturale, dove campeggiano reperti di animali marini e la grande statua di un tentacolare Nettuno e al cui interno – chissà perché – una alcune coppie amoreggiano non senza qualche accennata oscenità; o il cenone a base di pesce, con cui si chiude lo stesso primo atto, tra enormi portate di spaghetti allo scoglio e improbabili piatti di aragosta in bellavista, evocando analoghe situazioni care al teatro di Eduardo Scarpetta, qui francamente fuori luogo. E si potrebbe continuare, ad esempio, con i panni “sudici di guerra” – per usare un’espressione ungarettiana – stesi ad asciugare … Comunque, nulla di particolarmente negativo rispetto a quanto ci hanno propinato altri registi pressoché universalmente osannati.
Di prim’ordine il cast, in cui certamente si è segnalato Brenden Gunnell, confermandosi uno dei migliori tenori in grado di affrontare questo ruolo, grazie ad una vocalità incline al repertorio lirico, ma anche potente e virile, che gli ha consentito di delineare un personaggio credibile, lacerato tra l’amore paterno e i doveri di re, trovando il giusto accento in “Vedrommi intorno/l’alma dolente”, tipica “aria d’ombra”, e nella tempestosa “Fuor del mar, ho un mare in seno”, per quanto sia risultato scenicamente un po’ statico. Anche Monica Bacelli ha saputo affrontare efficacemente il proprio ruolo con voce gradevolmente brunita, ferma ed omogenea, sfoggiando naturalezza nel fraseggio e nel gesto, a delineare un Idamante emotivamente fragile, che alterna sfoghi di aspro sconforto (quando si vede respinto dal padre e dall’amata Ilia) a momenti di abbandono a una tenue malinconia. Abbastanza aderente a quel realismo psicologico, cui dianzi abbiamo fatto cenno, anche la prestazione di Ekaterina Sadovnikova nei panni di Ilia, intenerita dall’amore, ma anche animata da una forza di carattere, che le deriva dall’aver lottato contro le avversità della vita. Nell’aria “Se il padre perdei” – che Mozart accompagna con quattro strumenti concertanti (flauto, oboe, fagotto e corno) e con qualche dissonanza a livello armonico a sottolineare i conflitti interiori della teucra fanciulla, creando un pathos già romantico – ha dimostrato una certa sensibilità nel fraseggio e nel canto con un buon controllo dei propri mezzi vocali. Perennemente infiammata dalla passione e rósa dalla gelosia l’Elettra di Michaela Kaune, che ha espresso tutta la violenza dei suoi sentimenti con qualche asprezza vocale, che tutto sommato era funzionale al personaggio. Autorevole l’Arbace di Anicio Zorzi Giustiniani, reduce dal successo da poco ottenuto, sempre a Venezia, come Tamino nella Zauberflöte, che ha confermato le sue ottime qualità vocali – dal fraseggio scolpito, al timbro non banale, alla sensibilità interpretativa – regalandoci un personaggio a tutto tondo, grazie anche al ripristino delle due arie non inserite nella seconda versione, “Se il tuo duol” e “Se colà ne’ fati è scritto”, interpretate con sicurezza. Nobile il Sacerdote di Nettuno per la voce di Krystian Adam, mentre l’oracolo di Michail Leibundgut ha evidenziato una voce non proprio ferma.I protagonisti – è il caso di sottolinearlo – hanno brillato anche nelle scene d’insieme, nel corso delle quali i tratti psicologici dei singoli personaggi sono risaltati in modo particolare come nel quartetto del terz’atto “Andrò ramingo e solo”, dove Idamante, in procinto di partire, svela la sua inquietudine, Ilia la ferma decisione di seguirlo, Idomeneo il proprio sdegno contro l’ingiustizia degli dei ed Elettra, ancora una volta, la sua inestinguibile gelosia. Di straordinaria potenza espressiva la prestazione del coro – complice, come sempre, il valido Maestro Claudio Marino Moretti – sia nei momenti drammatici (come nel caso dei naufragi in balìa del mare tempestoso evocato dall’orchestra, nel primo atto; o del popolo cretese alla notizia che Idomeneo sta per uccidere il figlio, nell’atto conclusivo), sia nei cori decorativi (“Godiam la pace” e “Nettuno si onori”, nel primo atto; “Scenda amor”, nel terzo). “Monumentale” è l’aggettivo più adatto a definire la concezione che, riguardo a quest’opera, si è potuta evincere dalla direzione di Jeffrey Tate. Il maestro di Salisbury ha sottolineato con estrema forza espressiva i momenti più drammatici della vicenda, traendo dall’orchestra – che ne ha assecondato, come soggiogata, l’autorevole gesto direttoriale – sonorità tese, brillanti, a volte poderose (ad esempio, quando l’invidia degli dei scatena le forze della Natura), grazie ad un insieme assolutamente coeso, in cui nello stesso tempo si coglieva il culto del particolare. Perfetta l’intesa tra la buca e il palcoscenico, sia nei recitativi accompagnati come nelle arie, dove spesso si sono segnalati gli strumenti concertanti, sia – mirabilmente – nelle scene d’insieme, in cui Tate ha veramente colto ogni sfumatura psicologica, facendo sentire tutte le voci, tutti i più piccoli dettagli. La sua interpretazione ha veramente convinto, in quanto ha saputo mettere in valore gli elementi più straordinari di questa partitura, che guarda al futuro: ad esempio, l’importanza che vi assume il parametro timbrico o la diffusa presenza di una certa inquietudine armonica. Il tutto anche in base anche ad una scelta di tempi assolutamente equilibrata senza mai eccedere in facili concitazioni. Successo strepitoso, il che dimostra la maturità del pubblico della Fenice, che non ha mostrato alcun segno di stanchezza, nonostante lo spettacolo duri quasi quattro ore. Foto Michele Crosera