Teatro La Fenice – Stagione d’Opera e Balletto 2014-2015
“DIE ZAUBERFLÖTE” (Il Flauto magico)
Opera tedesca in due atti KV 620. Libretto di Emanuel Schikaneder
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Sarastro GORAN JURIĆ
Tamino ANTONIO POLI
Oratore MICHAEL LEIBUNDGUT
Primo sacerdote/secondo armigero WILLIAM CORRÒ
Primo armigero/secondo sacerdote FEDERICO LEPRE
Pamina EKATERINA SADOVNIKOVA
Papageno ALEX ESPOSITO
Papagena CATERINA DI TONNO
Regina della notte OLGA PUDOVA
Prima dama CRISTINA BAGGIO
Seconda dama ROSA BOVE
Terza dama SILVIA REGAZZO
Monostatos MARCELLO NARDIS
Tre Geni SOLISTI DEL MÜNCHNER KNABENCHOR
Una vecchia DANIELA FOÀ
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Antonello Manacorda
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Regia Damiano Michieletto
Regista collaboratore Philipp M. Krenn
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
Video designer Carmen Zimmermann, Roland Horvath
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Venezia, 28 ottobre 2015
Un Flauto magico, per così dire, “di scuola” – nel senso particolare che le note incantatrici del portentoso strumento risuonano nell’aula, alquanto scalcinata (particolare, ahimè, tragicamente realistico!) di un istituto scolastico –, quello ideato dal vulcanico Damiano Michieletto, eletto “Veneziano dell’anno 2014”, per le scelte e la qualità dei suoi progetti, e ormai sempre più lanciato, a livello internazionale, nel campo della regia, non solo lirica. A curare il presente allestimento è stata la stessa collaudata équipe, che tra il 2010 e il 2012 realizzò la trilogia dapontiana (Don Giovanni, Le nozze di Figaro e Così fan tutte), con Michieletto validamente affiancato dal Maestro Antonello Manacorda, allievo di Claudio Abbado, e considerato una delle bacchette più valide del momento. Il regista veneziano – che nella Zauberflöte si avvale della collaborazione di Philipp M. Krenn – è ritornato nel teatro forse più significativo per la sua carriera, ambientando la fiaba mozartiana in un’aula di scuola, ai giorni nostri: così Tamino e Pamina sono due studenti, tra cui sboccia un amore adolescenziale; Sarastro è un saggio dirigente che lotta contro l’ignoranza e i dogmi del passato, la Regina della Notte (nemica di Sarastro) una madre nevrotica e bigotta, le sue Tre Damigelle altrettante suore (peraltro, non insensibili al fascino di Tamino), Monostatos un obeso bulletto respinto da Pamina, Papageno un umoristico bidello in cerca della sua compagna, i Tre Fanciulli (o Geni) dei minatori in tuta ed elmetto “illuminante” (evidenti allegorie della luce della ragione, che rischiara il cammino sotterraneo, che si compie dentro di noi, verso la verità, la consapevolezza, la completa maturità). Sulla parete di fondo campeggia una grande lavagna, che si riempie – durante l’ouverture – di frasi latine, disegni anatomici, formule chimiche e matematiche (a rappresentare la scienza, la razionalità); ma allorché un Tamino, ancora poco incline ad apprendere, tenta di cancellare tutto, quei segni si trasformano in un serpente (topos mitico-fiabesco per eccellenza, con significato negativo), che minaccia lo stesso svogliato studente. Ma la grande lavagna fa anche da interfaccia tra la realtà razionale ed uno spazio misterioso da cui si materializzano i vari oggetti fatati, tra cui il flauto di Tamino e il glockenspiel di Papageno, per sollevarsi, quando serve, in modo da scoprire la stanza di Pamina e in essa sua madre, la Regina; inoltre dietro la parete che sorregge la lavagna si estende il bosco, dove Tamino, insieme a Papageno, compie la sua iniziazione: non basta il sapere teorico, occorre cimentarsi individualmente per raggiungere la saggezza. “È del poeta il fin la meraviglia,/(parlo de l’eccellente, non del goffo):/chi non sa far stupir, vada alla striglia!”, tuonava il secentista Giovan Battista Marino. E il nostro Michieletto sembra aver fatto proprio – da tempo – l’invito del poeta barocco. Il giovane regista ci ha abituato a scelte registiche estranianti, se non provocatorie, che hanno diviso il pubblico, nell’intento di creare qualcosa di nuovo, di uscire dai soliti cliché, peraltro accomunate dalla non proprio assoluta novità di trasporre le vicende ai giorni nostri. Facciamo qualche esempio: Così fan tutte, allestita qualche anno fa alla Fenice, era ambientata in un albergo per scambisti, la Bohème di Salisburgo (2012) era immersa in un’atmosfera dark con una Mimì volutamente modellata sulla figura di Amy Winehouse (la cantante inglese deceduta per abuso di alcol), nel Guillaume Tell, andato recentemente in scena al Covent Garden, si è assistito, nel corso delle danze, ad una scena di stupro, che ha infiammato il pubblico in sala come il web. Che dire? Semplicemente questo: come già metteva in guardia l’arguto Marino, il discrimine tra l’eccellenza e la goffaggine è molto sottile e bisogna stare in guardia. Tutto qui, senza, peraltro, nulla togliere all’indiscusso valore di Damiano Michieletto. Tornando alla Zauberflöte, Michieletto la concepisce – parafrasando le parole dello stesso regista – come una vicenda, dove si manifestano simbolicamente le forze opposte – l’oscurantismo di una certa Tradizione e la luce della Ragione –, che da sempre si contendono il potere sull’umanità. Con la Rivoluzione francese si è affermata la laicità del sapere e della scienza, e quindi della scuola; per questo la storia favolosa e surreale dell’iniziazione dei due protagonisti si svolge all’interno del luogo tipico in cui si compie il processo di formazione individuale. Tamino e Pamina, accompagnati dall’analfabeta Papageno, che però conosce il linguaggio degli animali, vivono il conflitto tra la visione religiosa e quella laica (rappresentato dal contrasto tra la Regina della Notte e Sarastro), ma alla fine giungono alla scoperta degli affetti e della sessualità, alla maturità come indipendenza dai padri. Certamente si tratta di un’intuizione originale, tuttavia, a nostro avviso, il particolare impatto visivo (e gestuale) di questa messinscena finisce per appannare lo smalto favolistico, la ricchezza fantasiosa, la nobiltà concettuale – così mirabilmente espressi anche dalla musica – di questa Zauberoper, che Bernard Shaw ebbe a definire “l’unica sola opera esistente che si possa concepire come scritta da Dio in persona”. Si viene, infatti, non di rado a creare (come si metterà in evidenza qua e là) uno iato tra quanto avviene sulla scena e il messaggio universale lasciato ai posteri dai fratelli massoni Mozart e Schikaneder. Un po’ scialbi, seppur di pregevole fattura, i costumi primo-novecenteschi disegnati da Carla Teti. Suggestive le luci di Alessandro Carletti, che a tratti assumono l’intensità di un fascio abbagliante, prorompente nell’aula da una porta, con esplicita simbologia. Straordinarie le videoproiezioni, a cura di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, che ottengono, in certi momenti, esiti davvero suggestivi, facendo apparire sulla lavagna variopinti e festosi segni grafici.
Sul versante musicale, l’interpretazione del sempre autorevole Antonello Manacorda ci è sembrata convincente: equilibrata nella scelta dei tempi, scevra da ogni eccessiva concitazione agogica, brillante nelle sonorità, attenta alle esigenze del canto; il tutto con l’ausilio di un’orchestra ineccepibile.
Di prim’ordine il Cast. Nobile, mai sdolcinato il Tamino di Antonio Poli, un tenore dalla voce certamente non anonima, tenuemente timbrata e di pasta omogenea, che ha sfoggiato un fraseggio scolpito. Gli ha corrisposto, nei panni di Pamina, una Ekaterina Sadovnikova, dalla vocalità ferma e perlacea, che ha saputo conferire al suo ruolo un certo nerbo, grazie ad un’interpretazione intensa e nel contempo equilibrata. Travolgente il Papageno di Alex Esposito – efficace anche nel gesto scenico –, che ha fatto apprezzare una voce dal timbro gradevolmente brunito, modulandola sapientemente, a delineare, con gusto, un personaggio – almeno vocalmente – scevro da ogni enfasi caricaturale (il che, però, contrastava con il taglio registico, un po’ troppo sbilanciato verso la comicità). Superba Olga Pudova, quale Regina della Notte, soprattutto nelle due stupende arie, che le sono affidate: una voce acuta, come dev’essere, ma impreziosita da qualche inflessione appena più scura, perfetta nelle colorature, a rendere una donna che tenta nevroticamente di difendere il suo precario equilibrio, più che un’altezzosa regina. Ricca di armonici la voce di Goran Jurić – perfettamente a suo agio nel registro grave –, che ha offerto un Sarastro giustamente nobile e ieratico, contraddicendo, anche in questo caso, l’ambientazione prevalentemente “borghese”. Decisamente macchiettistico il Monostatos di Marcello Nardis, in veste di un Pierino alla maniera di Alvaro Vitali, in ogni caso efficace nel canto. Di sicura professionalità le Tre Damigelle (Cristina Baggio, Rosa Bove e Silvia Regazzo), seppure anche loro un po’ caricaturali nelle loro vesti monacali. Spigliati e ben istruiti i cantori del Münchner Knabenchor nel ruolo dei Tre Fanciulli. Divertenti l’attrice Daniela Foà e il soprano Caterina Di Tonno, nei panni rispettivi di Papagena uno e due, per quanto ricordassero vagamente i personaggi di uno sketch televisivo. Più che dignitosa la prestazione di Michael Leibundgut (Oratore), William Corrò (Primo sacerdote/secondo armigero) e Federico Lepre (Primo armigero/secondo sacerdote). Ottima la prova offerta dal coro, istruito a dovere da Ulisse Trabacchin. Reiterati, fragorosi applausi, alla fine, per tutti, in particolare per Poli ed Esposito, oltre che doverosamente, trattandosi della Zauberflöte per il Flauto solista, segnalato dal direttore. Foto Michele Crosera