Pisa, Teatro Verdi: “Don Giovanni Tenorio o sia Il convitato di pietra”

Teatro Verdi – Stagione Lirica 2015/16 – Ciclo “Una Gigantesca Follia”- Dongiovanni Festival
“DON GIOVANNI TENORIO o sia IL CONVITATO DI PIETRA”
Dramma giocoso in un atto di Giovanni Bertati
Musica di Giuseppe Gazzaniga
Don Giovanni  MAX JOTA
Il Commendatore  DANIELE CUSARI
Donna Anna  MADINA KARBELI
Duca Ottavio  ROBERTO CRESCA
Donna Elvira  YUKIKO ARAGAKI
Donna Ximena  MOON JIN KIM
Pasquariello  CARLO TORRIANI
Biagio  FEDERICO CAVARZAN
Maturina  GIULIA DE BLASIS
Lanterna  ANTONIO PANNUNZIO
Orchestra Arché
Coro Laboratorio Lirico San Nicola
Direttore  Federico Bardazzi
Maestro del coro  Stefano Barandoni
Maestro al cembalo Dimitri Betti
Regia  Alessio Pizzech
Coordinamento scenografico Giacomo Callari e Enrico Spizzichino
Disegno luci  Michele Della Mea
Produzione del Teatro di Pisa
Pisa, 6 novembre 2015 
Eccezion fatta per il Don Giovanni di Mozart, fra le altre copiosissime versioni operistiche basate sul mito del libertino dissoluto e punito, quella di Gazzaniga è sicuramente quella cui si è prestata maggior attenzione, e quasi sempre in virtù della sua stretta parentela con il capolavoro mozartiano.  Musicalmente il confronto tra i due non si pone neanche, ma sarebbe ingiusto analizzare l’opera di Gazzaniga soltanto in funzione di quello che verrà.  Molto riuscita è ad esempio la morte del Commendatore, che fa uso di armonie di grande espressività quali la sesta napoletana nella tonalità remota di mi bemolle minore.  Se le apparizioni della statua del Commendatore e conseguenti disfatte del protagonistae abitano qualitativamente su due pianeti diversi, il finale, necessario in entrambe le opere per sottolineare la giusta punizione di una forza tanto seducente e distruttiva, ha in Gazzaniga ha una vitalità, un edonismo quasi pagano più coinvolgente della versione puramente morale di Mozart espressa con un fugato.  Gazzaniga al contrario anticipa addirittura l’organizzata follia del finale atto primo dell’Italiana in Algeri, con i suoi suoni onomatopeici imitanti gli strumenti che i personaggi dicono di voler suonare; verosimili sulle labbra di quelli plebei (“Flon, flon, flon”, “Pu, pu, pu”), arrivano a coinvolgere coinvolgono anche l’aristocratico Ottavio (“Tren, tren trinchete tre”), legando strettamente quindi i personaggi buffi a quelli seri, cosa impensabile solo una decina d’anni prima quando fra i due mondi faceva sempre da tramite quello intermedio dei mezzo-carattere. Il veronese Gazzaniga, allievo di Porpora e Piccinni, svezzato a Napoli prima di partire alla conquista delle corti europee, compose Don Giovanni Tenorio, o sia Il dissoluto punito per il Teatro Giustiniani di San Moisé a Venezia, dove fu eseguito per la prima volta il 5 febbraio 1787, una decina di mesi prima di quello mozartiano.  Giovanni Bertati era l’autore del libretto cui Da Ponte, nonostante il disprezzo manifestato per il collega (“Non era nato poeta e non sapeva l’italiano”) comunque attinse a piene mani, avvalendosene soprattutto per l’intelaiatura della prima parte del primo atto e la seconda parte del secondo atto.  L’opera di Bertati/Gazzaniga, di breve durata e in un solo atto in quanto seconda parte di una serata intitolata Capriccio drammatico, aveva come protagonista il tenore Antonio Baglioni che in seguito Mozart sceglierà come primo interprete di Don Ottavio, ruolo che appare anche nel Don Giovanni Tenorio, dove gli viene affidata una delle due arie più belle dell’opera, un’aria “amorosa” di cui Mozart si è sicuramente ricordato nella composizione del terzetto del secondo atto.  Colpisce l’alto numero dei personaggi, anche troppi in un’opera tanto breve.  In Gazzaniga quelli femminili sono quattro: Donna Anna che sparisce dopo l’uccisione del padre e la narrazione degli eventi al promesso sposo senza mai più tornare ; Donna Ximena, altra signora “nobile”, anch’ella privata di arie e tutto sommato superflua; Maturina, la “buffa” equivalente di Zerlina, e Donna Elvira, il personaggio più scolpito (qui come anche in anche in Mozart, a mio avviso) dell’opera, che si lascia poco signorilmente coinvolgere in un salace scambio di insulti con Maturina (e non a caso Bertati scrisse pochi anni dopo il libretto del Matrimonio segreto in cui si assiste a un simile scontro verbale fra le due sorelle).  Masetto qui si chiama Biagio ed è dotato di un’aria ben più lunga ed interessante di quella assegnata da Mozart al suo contadinotto, e i servi sono due, Pasquariello e Lanterna, quest’ultimo del tutto ridondante. Da Ponte, geniale librettista quanto affilata malalingua, ne aveva anche per Gazzaniga definendolo “compositore di qualche merito ma d’uno stile non più moderno”.  Sicuramente tale era percepito (se mai qualcuno ancora se ne ricordasse) il compositore all’epoca in cui Da Ponte pubblicava le sue Memorie (1823) ma al tempo del Don Giovanni, quarant’anni prima, Gazzaniga era uno degli operisti più ricercati.  Questa esecuzione pisana, assolutamente integrale, ci ha permesso di notare le preziosità orchestrali di cui è intrisa la partitura.  Federico Bardazzi, stavolta alla guida dell’eccellente Orchestra Arché anziché del suo Ensemble San Felice, ha confermato le impressioni più che positive destate un paio di settimane fa con la sua direzione del Trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti. L’opera è stata allestita questa volta nel teatro vero e proprio (con direttore ed orchestra davanti al pubblico e non in buca) e pertanto, beneficiando di una disposizione dell’orchestra assai più normale di quella sparsa qua e là nella piccola sala Titta Ruffo in cui è stato eseguito il lavoro scarlattiano, non vi sono state sbaveggiature strumentali di alcun tipo: Bardazzi ha diretto con lodevole precisione, ma anche con un calore che permetteva alla musica di vivere e palpitare, producendo un suono ricco, corposo e al contempo estremamente nitido.  Peccato che non avesse a sua disposizione una compagnia di canto tecnicamente più scaltra.  È sempre cosa amara e ingrata dover sottolineare i difetti, anche assai vistosi come in questo caso, di cantanti per lo più giovani, talora ai primi passi, soprattutto se tali limiti, almeno in questa circostanza, non sono controbilanciati da altrettante virtù.  Come accennato in precedenza, l’unico ruolo dotato di una vera e propria aria da opera seria che richiede una certa virtuosità è quello di Donna Elvira, qui affidato al soprano giapponese Yukiko Aragaki, la quale – pur in possesso di un timbro piuttosto gradevole -è uscita sconfitta dal confronto a causa di un registro acuto aleatorio e prossimo al grido, agilità scabrose e un’intonazione precaria, problema quest’ultimo comune a quasi tutto il cast, quasi come se un virus si fosse propagato e avesse contagiato tutti quanti (con un paio di eccezioni), in primis Roberto Cresca nel ruolo del Duca Ottavio, in cui ha altresì manifestato un’emissione gutturale, opaca, velata, scarsamente proiettata, con un registro acuto, se di acuti si può parlare in un ruolo tanto centrale, faticoso e affannato,e coloratura (la poca che c’è) aspirata. Il protagonista, Max Jota, ha al contrario un bel timbro da puro tenore lirico, già ammirato nel recente passato in tutt’altro repertorio, quello tardo ottocentesco e pucciniano, che sicuramente gli è più congeniale; in quest’occasione, oltre a dover fronteggiare una tessitura da baritenore e quindi piuttosto grave che ha cercato di compensare con alcune timide variazioni in acuto, è stato anch’egli vittima di sbandamenti d’intonazione troppo frequenti e cospicui in tutta l’estensione.  Il tenore brasiliano alla fin dei conti è comunque riuscito a dare una certa credibilità al personaggio in virtù di un’indubbio physique du rôle e disinvoltura scenica.  Carlo Torriani, alle prese con Pasquariello, il ruolo che quantitativamente parlando ha la maggior quantità di musica, ha iniziato maluccio, con il primo arioso “La gran bestia è il mio padrone” parlato e sbuffato, ma si è ben presto ripreso e alla fin fine è stato il trionfatore della serata, facendo sempre più affiorare un bel timbro sonoro e dando il meglio nel Brindisi durante la scena della cena, in cui ha reso omaggio a Pisa e alle sue donne, sulla scia e e nello spirito della smaccata captatio benevolentiae messa in atto da Bertati e Gazzaniga nei confronti di Venezia.  Ci ha convinti anche Giulia De Blasis, una Maturina dal timbro grazioso, squillante, di quelli che salendo si appuntiscono producendo sempre più armonici.  Sostanzialmente corretto il Biagio di Federico Caverzan;  fra i ruoli minori si sarebbe desiderata voce più autorevole da parte del Commendatore di Daniele Cusari, mentre Madina Karbeli ha affrontato i drammatici recitativi di Donna Anna con intensa incisività; al contrario Moon Jin Kim, pur facendo trapelare un timbro interessante da vero mezzosoprano, ha dato scarso rilievo agli interventi di Donna Ximena con una dizione arruffata e confusa. Il ruolo di Lanterna si risolve quasi esclusivamente sul piano scenico, e si può ben affermare che Antonio Pannunzio abbia fatto da divertentissima spalla all’altro servo, Pasquariello.  Molto limitato è in quest’opera l’intervento del coro, il Coro Laboratorio Lirico San Nicola, che sappiamo da molte esibizioni passate esser capace di ben altre prove.  Alessio Pizzech è uno dei pochissimi registi (forse l’unico?) ad aver messo in scena ben due diversi allestimenti di quest’opera.  Se la sua produzione bergamasca di una decina d’anni or sono, immortalata in DVD, era molto più complessa e prevedeva fra l’altro una ventina di minuti di prosa che fra incontri e scontri ambientati durante le prove di un’opera (si pensi all’Ariadne auf Naxos) riassumeva gli eventi accaduti nella prima parte di quel Capriccio drammatico di cui Don Giovanni era solo la seconda, qui Pizzech, dovendosi fra l’altro avvalere di scenografie che chiamare essenziali è un eufemismo, si è concentrato sul rapporto fra i personaggi, e, come scritto da lui stesso nelle note di regia, in particolare sul timido, ma innegabilmente presente serpeggiare della tinta drammatica all’interno di una telaio e un tessuto essenzialmente buffi.  Ed infatti era ben avvertibile il soffio della morte che lentamente si propaga fra situazioni comiche affrontate da Pizzech con la sua ben nota predilezione per i toni accesi, un po’ sopra le righe, decisamente circensi nel senso positivo del termine.  Come non ricondurre alla sua lunga esperienza con l’arte del circo il ricorrere agli accordi dei tromboni per accompagnare i tentativi di una delle contendenti di tirare verso di sé, quasi come in un gioco della corda, Don Giovanni che le sfugge? Oppure l’uso del pubblico in sala, coinvolto nei balli e nelle vicende dei personaggi? O lo spettacolare utilizzo delle luci di sala, fra l’altro a diverse gradazioni?  Altro suo timbro di marca era la presenza, fra il bianco e nero dei costumi, di alcuni oggetti dal colore elettrico, quasi camp, così come opportunamente caricata era la baruffa fra Maturina ed Elvira, con tanto di lanci di scarpe (e qui la mente è volata alle celebri foto di scena di Maria Callas con la scarpa in mano durante Il turco in Italia).  In conclusione, un altra vittoria per il regista livornese: uno spettacolo pieno di inventiva, divertentissimo, senza mai pause (altra sua prerogativa), ricco pur nella sua penuria di mezzi.  Un allestimento, che insieme alla direzione di Bardazzi, meriterebbe di viaggiare in altri teatri desiderosi di mettere in scena spettacoli di alta qualità senza dover dilapidare i loro presumibilmente scarsi capitali. Photo credit: Massimo D’Amato, Firenze