Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2015/2016
“LE BRACI”
Opera in un atto
Musica e libretto di Marco Tutino dal romanzo omonimo di Sándor Márai
Kristina ANGELA NISI
Nini ROMINA TOMASONI
Giovane Konrad DAVIDE GIUSTI – GREGORY BONFATTI
Giovane Henrik KRISTIAN LINDROOS
Konrad ALFONSO ANTONIOZZI
Henrik ROBERTO SCANDIUZZI
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Francesco Cilluffo
Regia Leo Muscato
Scene Tiziano Santi
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Danzatori Fattoria Vittadini Cesare Benedetti, Mattia Agatiello, Chiara Ameglio
Firenze, 5 novembre 2015
Il nuovo lavoro di Marco Tutino ha più o meno un anno di vita teatrale: è nato a Budapest nell’ottobre del 2014, poi è stato ripreso quest’estate a Martinafranca e ora approda a Firenze. È un’opera in un solo atto, ma piuttosto estesa, circa novanta minuti di musica, tratta dal romanzo più famoso e più letto di Sándor Márai. La scelta di Tutino, autore anche del libretto, è caduta su un soggetto difficile, il libro di Márai infatti ha diversi aspetti che lo rendono poco adatto ad essere sceneggiato. Intanto non ha uno sviluppo drammatico: la storia è tutta incentrata sul ricordo, tutto è accaduto da molti anni, i personaggi hanno la loro vita ormai alle spalle e possono solo cercare di fare un po’ di luce su avvenimenti lontani, perché la morte non li colga prima di aver potuto chiudere una vecchia faccenda. Poi non ci sono dialoghi: al di là di un breve scambio di battute iniziale tra la nutrice Nini e Henrik, tutto il resto, che doveva essere un colloquio, si rivela un fluviale monologo di quest’ultimo, perché l’interlocutore Konrad, misura le parole con il contagocce, limitandosi perlopiù ad annuire. Infine “Le braci” è un romanzo fatto di sospensioni e reticenze, in cui il non detto assume un peso determinante e il cui fascino sta proprio nel fatto che nessuno pronuncia una frase decisiva, nessuna verità viene rivelata completamente; tutto accade dentro, nella mente e nel cuore dei personaggi, ma è invisibile, chiuso in un guscio di pudore e di civiltà. Quindi l’adattamento ha dovuto per forza di cose introdurre espedienti e alterazioni allo scopo di rendere teatrale e drammaturgicamente fluida una materia altrimenti poco rappresentabile. Molto felice mi pare l’idea di mettere in scena, a fianco di Konrad e Henrik vecchi, gli stessi protagonisti da giovani e Kristina da tempo defunta, che irrompono ripetutamente a rendere vivi e contemporanei i fatti avvenuti quarant’anni prima, in una sovrapposizione di piani temporali che è il tema centrale della vicenda. Forse meno felice, per quanto obbligata, è la scelta di espandere la parte dialogica di Konrad, che in questo modo perde gran parte del suo mistero di personaggio “diverso” ed enigmatico, tragicamente vittima e carnefice in quanto schiavo di una natura fuori dalla norma. Ancor più infedele alla fonte è il non molto originale e un po’ superfluo “colpo di scena finale”: solo il passato è reale, il resto è un convegno di spiriti, perché i personaggi che appaiono in scena sono morti, come rivela al temine di tutto Nini a Henrik, il quale ancora non ha capito o non vuole accettare il fatto che il suo amico gli ha sparato davvero per portargli via la moglie, durante quella fatale battuta di caccia; poi Konrad è morto di malaria ai Tropici, Kristina di un brutto male e la nutrice di vecchiaia. Morte vera o metaforica che sia, nel sestetto che chiude l’opera, i personaggi ripetono più volte “siamo tutti fantasmi”. In tutto ciò, la musica che “veste” la vicenda teatrale è bella, di concezione non cerebrale, anzi con ampie aperture alla melodia, di forte impatto emotivo. È musica che non si arrocca in una ricerca esasperata ammiccando a pochi adepti; vuole parlare invece ad un pubblico vasto, senza il complesso della gradevolezza e per far questo recupera il linguaggio tonale e riecheggia l’opera novecentesca – a più d’uno tra il pubblico ha richiamato alla mente Nino Rota – con una speciale predilezione per il valzer, usato per accompagnare i flashback della giovinezza dei protagonisti, che storicamente coincide con l’ultimo lampo di splendore dell’Austria felix. La scrittura vocale adotta la forma di un recitativo ampio e melodioso che frequentemente si distende in passi ariosi se non in arie vere e proprie. Veniamo quindi alla prima fiorentina.
All’inizio dello spettacolo il regista Leo Muscato, a sipario chiuso, è salito sul palco e ha recitato un estratto dalle ultime pagine del libro di Márai, accompagnato dall’orchestra. Il lungo melologo è una nuovissima aggiunta, assente nelle rappresentazioni precedenti. Aggiunta che non mi è sembrata molto utile, dal momento che le stesse parole sono pressoché integralmente presenti nel libretto e vengono cantate dai personaggi verso la fine dell’opera. Perché anticiparle? È stato comunque interessante l’ascolto della parte musicale, che introduce nell’atmosfera di disfacimento e di morte, a guisa di preludio; la performance attoriale di Muscato ce lo fa preferire in veste di regista. Roberto Scandiuzzi e Alfonso Antoniozzi sono due artisti che hanno bisogno di poche presentazioni; entrambi in gran forma, hanno vestito con accuratezza e maestria i panni dei protagonisti. Scandiuzzi ha raffigurato con grande bravura la stanchezza e l’orgoglio ferito, ma non domato del vecchio generale, con una presenza scenica di grande nobiltà e imponenza e una vocalità possente sempre timbrata e a fuoco, sia nel registro grave che in occasionali salite all’acuto, con ottima tenuta; Antoniozzi, in una parte piuttosto breve e di moderato impegno vocale, ha dispiegato la sua sottigliezza di attore-cantante, nel delineare la personalità sfuggente di Henrik anziano, con una essenzialità di gesti e di espressioni che rendeva appena visibile una tensione tutta interiore. La parte di Konrad giovane era sostenuta dal baritono Kristian Lindroos, cantante di buona voce, emissione ed espressività da affinare; ha una bella figura e ha recitato con buon esito, rendendo bene la natura entusiasta, un po’ superficiale e ingenua del ruolo. Davide Giusti, vittima di un malanno di stagione, ha solo recitato la parte di Henrik giovane, che è stata cantata dalla buca dell’orchestra da Gregory Bonfatti; la soluzione abbastanza singolare non ha creato particolare disturbo, al di fuori dello squilibrio sonoro dovuto al fatto che la sua voce era amplificata, a differenza di tutte le altre. A Bonfatti va rivolto un plauso per aver imparato velocemente la parte e per essere venuto a capo di una scrittura piuttosto ostica in certi passaggi in zona acuta, cantando sempre con morbidezza. Il fatto che abbia mancato un’entrata, peraltro riprendendosi subito dopo, mi pare più che scusabile, date le circostanze. Angela Nisi, che ha interpretato Kristina, l’amata contesa dai due amici, ha grande spigliatezza scenica e notevole presenza, ha dimostrato ottime capacità di attrice nel raffigurare gli aspetti frivoli ma ancor più quelli disperati del suo personaggio, rendendola una creatura intensa e tragica. Ha un bel timbro di soprano lirico, voce ben educata ed espressiva, facile nell’acuto e nei pianissimi. Completa il cast Romina Tomasoni, interprete di Nini, il personaggio forse più umanamente “bello” del romanzo di Márai, che in questa trasposizione perde gran parte del suo peso e del suo carattere. Per quanto decisamente giovane, nei panni della nutrice ultranovantenne, ne ha reso bene la sollecitudine materna, i modi affettuosi sotto una certa scorza di ruvidità che non disdice ad una donna di casa d’altri tempi. La scena unica e fissa di Tiziano Santi è bella e funzionale: al centro c’è un interno borghese ottocentesco, la sala di un palazzo riccamente arredato, ma corroso dal tempo, con le tappezzerie lacere, polvere ovunque, detriti sul pavimento; la struttura architettonica è un mozzicone, le pareti e il soffitto sono diroccati e mostrano l’orditura di mattoni; all’esterno c’è il bosco che in tal modo comunica direttamente con la stanza, anzi cinge i resti del palazzo quasi volesse inghiottirli. La simbologia è chiara, ma non banalmente didascalica: ormai tutto è finito, la gioventù è passata, l’Impero si è dissolto, devastato dalla guerra; l’amore, il desiderio, il dolore sono ormai lontani e di quel che è stato restano poco più che macerie. Il bosco, teatro della cruciale battuta di caccia, è così visibile e presente che lo si può toccare, incombente come il ricordo che tormenta Henrik e Konrad. Altrettanto belli sono i costumi di Silvia Aymonino, intonati all’epoca, sia nel presente che nei flashback. La regia di Leo Muscato ha il pregio di gestire con poesia e chiarezza l’interazione di personaggi presenti e di personaggi del ricordo, di intrecciare i piani temporali senza ingenerare confusione, ma creando un’atmosfera rarefatta e ipnotica, grazie anche alle efficacissime luci di Alessandro Verazzi, senza interruzioni e cadute di tono, per tutto il corso dell’opera. Un aspetto debole mi è sembrata la caratterizzazione della senilità di Henrik e Konrad, settantenni e della nutrice Nini, decrepita. Una persona attempata o anziana economizza le sue forze, riduce la mobilità, è lenta e cauta, più fragile e al tempo stesso più solenne di una giovane. Far muovere, e tanto, i personaggi anziani su e giù per il palcoscenico con andatura malferma come nel caso di Konrad, o claudicante, come Henrik, o a minuscoli e rapidi passetti come la nutrice, per di più con l’aiuto di bastoni impugnati con mano traballante, ha un che di parodistico, richiama la caricatura del “vecchietto”, in un contesto che comico non è. Idea registica formidabile e perfettamente attuata è stata invece il “mezzo abbraccio” che i due vecchi amici si scambiano prima di lasciarsi: è un tentativo di contatto fisico goffo, rabbioso e tenero al tempo stesso, rivelazione fulminea del fatto che i due, pur essendosi tanto odiati, non hanno forse mai smesso di volersi bene; l’affetto soffocato da quarant’anni di lontananza e di rancore erompe a un tratto come un guizzo di freschezza e di gioventù da due corpi in disfacimento. Il direttore Francesco Cilluffo è ormai un esperto di questa partitura, avendola diretta anche al Festival della Valle d’Itria, e infatti ha guidato con mano sicura l’ottima Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, ottenendo ricchezza di colori e di inflessioni, tensione drammatica e continuità di tono e di atmosfera. Roberto Scandiuzzi ha trionfato, raccogliendo prolungate ovazioni, ma tutti gli interpreti, il direttore, il regista e l’autore hanno ricevuto applausi convinti da un pubblico, ahimè, non molto numeroso. Foto © Simone Donati – TerraProject – Contrasto