“Nella stagione teatrale — carnevale 1831-32 — in cui fu prodotta la Norma. Romani scrisse Ugo conte di Parigi, tragedia lirica in quattro parti, musica del maestro Gaetano Donizetti, andata in iscena alla Scala il 13 marzo.
Anche per questo melodramma, il Poeta ebbe a patire infinite vessazioni, noie e dispiaceri dalla inesorabile Censura Italo-Austriaca. Le modificazioni richieste furono tante e tali, che, a furia di tagli e di cambiamenti, l’azione rimase guasta e monca.
Poeta e Maestro vedendosi il melodramma così maltrattato erano scoraggiati e disgustatissimi. Romani ne ricusava la paternità, e negò di apporre il suo nome sul frontispizio…
Nulladimeno in iscena bisognò andare, e fu un miracolo che l’Opera abbia ottenuto, come ottenne, molti applausi. Donizetti sempre brioso e filosofo compariva ilare alla ribalta in compagnia dei cantanti: Pasta, Donzelli, Grisi, Negrini, chiamati tutti chiassosamente dall’affollato pubblico, composto in parte di Bergamaschi accorsi a Milano per la circostanza. «Ho appeso una goccia d’acqua al soffitto» diceva con disinvoltura il celebre Maestro; infatti quegli applausi non erano che dimostrazioni di stima e di simpatia perché l’Opera, per quanto ricca di buona musica, pur troppo, cosi mutilata, non si sostenne»”. (E. Branca, Op. cit., pp. 214-215)
Così Emilia Branca ricordò, nella sua biografia dedicata al marito Felice Romani, i numerosi ostacoli frapposti dalla censura e il discreto successo ottenuto alla prima da Ugo Conte di Parigi grazie soprattutto al già citato cast di cantanti di primordine che non garantì, tuttavia, all’opera di affermarsi nel repertorio. Dopo la fortunata prima del 13 marzo 1832 alla Scala di Milano, l’opera, infatti, ebbe poche repliche per cadere velocemente nell’oblio a causa non solo del libretto modificato su continue richieste della censura a tal punto che Romani indignato decise di non apporre il suo nome sul frontespizio, ma anche di una serie di altri fattori tra cui la brevità dei tempi di composizione, la stanchezza dei cantanti e la necessità di adattare la musica ai cambiamenti del testo. Reduce dal successo di Fausta a Napoli, Donizetti lavorò alla composizione di Ugo conte di Parigi, che doveva andare in scena per la stagione di Carnevale e Quaresima del 1832 alla Scala nel breve arco di tempo tra la fine del 1831 e i primi mesi del 1832 scrivendo la musica sul testo che Romani gli andava inviando per lettera. Giunto a Milano, dove già sapeva di potersi avvalere del citato cast che aveva cantato nella Norma di Bellini, opera con la quale era stata inaugurata quella stagione, Donizetti dovette scontrarsi con la censura che, pretendendo moltissime modifiche al testo, lo costrinse ad operare degli adattamenti anche alla musica tali da confondere gli stessi cantanti che dovettero ristudiare per intero le loro parti nonostante gli impegni di un’estenuante stagione durante la quale erano obbligati a calcare le scene tutte le sere, come testimoniato dal critico Pezzi il quale sulle colonne della «Gazzetta privilegiata di Milano», pubblicata il giorno dopo la prima, scrisse:
“Il tempo stringeva pel compositore della musica; gli attori cantanti ebbero appena agio di studiare passabilmente tutta la parte loro; taluni erano visibilmente affaticati, e le esigenze, quantunque in quaresima, si appalesavano sempre le stesse in un pubblico affollatissimo la prima sera dello spettacolo; eppure, lo ripetiamo, il successo fu assai fortunato. Un lavoro di stromentazione che si scorse frutto di mano maestra; bei motivi, benché non sempre nuovi; ragionevole condotta; l’orchestra sempre occupata con bella ripartizione, ciò tutto fruttò i più lusinghieri applausi al Donizetti. […] Noi non vogliamo fare confronti, né decidere con un giudizio precipitato un lavoro che ci pare assai commendevole sotto il rapporto d’arte non solo, ma ben anco sotto quello che più piace generalmente, vale a dire l’ispirazione, e quel movimento elettrizzante che manca d’ordinario alla musica elaborata con troppa scienza. Ci restringiamo ai fatti, e perciò appunto fummo storici imparziali, e per esserlo esattamente ripeteremo, che in quest’opera si scorgono non poche reminiscenze. Ci permetteremo soltanto di preconizzare a questo spartito nel progresso delle rappresentazioni, un successo non minore del già ottenuto e ciò tanto più probabilmente, quantoché l’esecuzione in particolar modo, da parte de’ cantanti e dell’orchestra ha duopo di essere maturata”. (V. E. Clemente, Contributo ad una biografia di Gaetano Donizetti, Bergamo, 1896 pp. 57-59)
Lo stesso Donizetti, all’indomani della prima, affermò Ho appeso una goccia d’acqua al soffitto, mostrandosi poco fiducioso sul successo di quest’opera il cui soggetto, secondo l’ipotesi più accreditata sostenuta da Franca Cella in un suo saggio sulle fonti francesi delle opere del compositore bergamasco, si sarebbe ispirato ad una non ben individuata cronaca francese nella quale si narra di Luigi V, re di Francia, la cui promessa sposa, Bianca di Aquitania è, però, innamorata di Ugo, conte di Parigi, del quale è, a sua volta, innamorata Adelia, sorella di Bianca. Questa scarsa fiducia nell’opera sembra, però, che non riguardasse la musica dal momento che molti dei suoi passi furono trasferiti da Donizetti in altri lavori come Sancia di Castiglia (Teatro S. Carlo di Napoli, 4 novembre 1832), Il Furioso all’isola di S. Domingo (Teatro Valle di Roma, 2 gennaio 1833) Parisina (Teatro della Pergola di Firenze, 17 marzo 1833), dove egli riprese l’ouverture.
L’opera
Ouverture
Aperta da un’introduzione solenne, all’interno della quale emerge la calda voce del corno a cui è affidato un tema lirico, l’ouverture prosegue con il tradizionale Allegro in forma-sonata interamente giocato sul contrasto tra il primo tema brillante in semicrome (Es. 1) e il secondo dal ritmo puntato (Es. 2).
Atto primo
Nella sala del trono all’interno della reggia di Laon, residenza dei re di Francia nel IX secolo, i Cavalieri inneggiano a Luigi V (Coro: No, che in ciel de’ Carolingi), mentre il principe Folco d’Angiò trama nell’ombra una congiura contro il sovrano (Larghetto, Vani voti). Nella sala sono presenti anche Ugo, che manifesta tutta la sua fedeltà alla corona, e Bianca la quale lamenta la sua condizione di promessa al re sebbene innamorata del Conte. Poco dopo una fanfara di ottoni annuncia l’arrivo del re, Luigi V, che promette di vendicare la morte del padre Lotario nonostante i consigli di Ugo che gli dice di stare attento ai nemici esterni. Tutti, alla fine, si producono nella marziale cabaletta L’Orifiamma ondeggi al vento.
Rimasta sola, Bianca intona la belcantistica aria Ah! Quando in regio talamo in cui ribadisce la sua volontà di non sposare il re; la donna, interrotta dalle damigelle che le annunciano l’arrivo della sorella Adelia (tempo di mezzo: Che mi recate), sua rivale in amore, esprime, nella cabaletta in tempo moderato No che infelice appieno, la sua gioia perché l’arrivo della sorella le consente di poter compiere il suo piano dettato dalla gelosia.
Nel successivo duetto con Adelia (recitativo: Uscite tutte) Bianca le manifesta la sua volontà di sottrarsi a quel matrimonio, in quanto innamorata di Ugo; la sorella, sorpresa, pur dicendole che il suo è un amore sciagurato, esprime la sua compassione. Le due donne, infine, nella cabaletta (Là, nel natal mio suolo), affermano di voler rinunciare entrambe a questo amore impossibile che le vede rivali e ritornare al suolo natio, l’Aquitania.
Nella scena successiva Bianca, ai rimproveri del re per non averlo seguito al tempio per le nozze, risponde chiedendogli di poter partire per abbracciare, ancora una volta, la madre morente. Dopo il netto rifiuto di Luigi, nel tempo d’attacco del quartetto (Bianca, di’), in cui le ribadisce tutto il suo amore, i quattro personaggi danno sfogo ai loro tormenti nel lirico cantabile, Oh! Suppplizio!. Nel tempo di mezzo (Bianca! Rispondi), Luigi accusa la sua promessa sposa di amare un altro uomo e nella brillante cabaletta (Quel cor conosco) minaccia di vendicarsi.
Nell’atrio del castello Ugo incontra Adelia (recitativo: Che veggo? Adelia), rimanendo sorpreso dall’atteggiamento indifferente della donna che lo diffida dal chiedere la sua mano (tempo di attacco: Questo braccio). Mentre Adelia sta per rivelargli le vere ragioni del suo atteggiamento, le damigelle annunciano il prossimo arrivo di Bianca per cui i due sono costretti a congedarsi nella bella e patetica cabaletta (Se tu m’ami). Nel Finale Luigi decide di inviare Ugo in Aquitania, minacciata dai Normanni, e di mandare come conforto per la madre Adelia e non Bianca desiderosa di partire con la sorella. La decisione del re, secondo la quale Ugo dovrebbe sposare Adelia, conduce al concertato (È giunto l’orribile) nel quale Adelia chiede al conte di rifiutare la sua mano, mentre Luigi a stento riesce a frenare le sue ire. Il rifiuto di Ugo e la dichiarazione d’amore di Bianca nei confronti del Conte confermano il re nel sospetto che ci sia una tresca fra i due; mentre i personaggi, nella stretta (Non mentir), esprimono i loro contrastanti sentimenti, Ugo è arrestato per ordine del re.
Atto secondo
Nel secondo atto la scena si apre su una prigione, ben rappresentata da un mesto tema dell’oboe sostenuto da drammatici accordi dell’orchestra; qui langue Ugo, raggiunto da Bianca la quale gli consiglia di ribellarsi contro il re di Francia per usurparne il trono (recitativo: Bianca!) ottenendo un netto rifiuto. I due sono interrotti da Adelia la quale, annunciando che è in corso un tumulto, tradisce nell’espressione del suo volto l’amore che prova per Ugo e, alla fine, esortata da questi, non può non confessare il suo amore per il Conte nel bel cantabile del terzetto (Io l’amai dal dì fatale), mentre Bianca si abbandona ad un pianto disperato (Questo pianto). Una fanfara annuncia l’arrivo di Cavalieri pronti a combattere con Ugo (Noi siam teco) che, impugnando la spada, manifesta la sua intenzione di voler condurre con sé Adelia (cabaletta: Tu mi spingi a passo estremo).
All’interno degli appartamenti reali echeggia il suono delle armi (Coro: Il suon dell’armi), mentre Luigi chiede alla madre Emma di lasciarlo solo (recitativo: Lasciami… il sen materno). Come si apprende nel marziale coro Cessò il periglio, i ribelli sono stati confitti da Ugo che si presenta al re affermando di non aspirare né al regio soglio né all’amore di Bianca (recitativo: O re! Vengo a scolparmi) essendo innamorato di Adelia, e si consegna al sovrano che, ormai rassicurato nei suoi sospetti (cantabile: Prova mi dai), decide di dare in sposa Adelia al fedele Conte e di allontanare definitivamente Bianca non senza un certo dolore espresso nella cabaletta Quanto mi costi a svellere.
Introdotti da un misterioso suono del corno, Bianca e Folco tramano di notte nel vestibolo che immette a un domestico oratorio (recitativo: Fino all’aurora!). La donna intende impedire le nozze avvelenando Adelia, ma desiste assalita dal rimorso e dal dubbio dopo aver sentito provenire dal vicino oratorio la preghiera di Emma, presa anche lei dal rimorso di aver avvelenato il marito Lotario cinque anni prima. Una musica lieta (tempo di mezzo: Il rito!), che accompagna il corteo iniziale, infiamma di nuovo i propositi di vendetta di Bianca fermata da Emma che chiama a sé i suoi guerrieri; Bianca, disperata, decide allora di suicidarsi bevendo quello stesso veleno che aveva preparato per la sorella non prima di prodursi in un’ultima dichiarazione d’amore nei confronti di Ugo (cabaletta: Di che amore io t’abbia amato), mentre nuovi spettacolari tuoni sembrano suggellare la tragedia.