Venezia, Teatro Malibran-Stagione d’opera e balletto 2014-2015
“ZÁPISNÍK ZMIZELÉHO” (Il diario di uno scomparso)
per tenore, contralto e tre voci femminili con accompagnamento di pianoforte su testo Ozef Kalda
Musica di Leoš Janáček
Jan LEONARDO CORTELLAZZI
Zefka ANGELA NICOLI
Tre voci femminili EMANUELA CONTI, MARTA CODOGNOLA, PAOLA ROSSI
Mimo FRANCESCO BORTOLOZZO
Pianoforte Claudio Marino Moretti
“LA VOIX HUMAINE” (La voce umana)
Tragédie lyrique in un atto FP 171 su libretto di Jean Cocteau dall’omonima pièce teatrale
Musica di Francis Poulenc
Una donna ÁNGELES BLANCAS GULÍN
Mimo FRANCESCO BORTOLOZZO
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Francesco Lanzillotta
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Light designer Fabio Barettin
In lingua originale, nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 8 ottobre 2015
Il dittico Janáček-Poulenc, penultimo titolo della stagione lirica 2014-2015 – una nuova produzione della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia – va attualmente in scena al Teatro Malibran, o, per meglio dire, nell’Atelier Malibran, il laboratorio permanente, di produzione e sperimentazione, fucina di idee e di talenti, sotto l’egida del Gran Teatro La Fenice. Quanto allo spettacolo di cui ci occupiamo, la regia è affidata, per entrambi i titoli, a Gianmaria Aliverta, un giovane talento, convinto sostenitore dell’opera “low cost”, che ha già all’attivo diversi allestimenti, realizzati non su commissione di teatri lirici, ma in proprio, autofinanziandosi, grazie al denaro guadagnato come cameriere in una pizzeria. Va da sé che questo ha comportato, da un lato, povertà di mezzi, dall’altro, piena libertà interpretativa. La prima scrittura da parte di un’istituzione lirico-teatrale risale allo scorso luglio, allorché il Festival della Valle d’Itria a Martina Franca gli ha commissionato l’allestimento dell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi. A proposito della regia del dittico Il Diario di uno scomparso–LaVoce umana, Aliverta ha individuato nella passione amorosa un possibile trait d’union fra questi due capolavori musicali, che per altri aspetti sono così diversi: un ciclo di Lieder per tenore, contralto e tre voci femminili con accompagnamento di pianoforte, quello composto da Janáček tra il 1917 e il ‘19; un lungo monologo, frammentario e concitato, che si staglia su un calibrato ma intensissimo commento orchestrale, il lavoro di Poulenc, datato 1958. Ne consegue che – nella visione di Aliverta – i due titoli non vengono semplicemente affiancati in un medesimo spettacolo, ma diventano un dramma musicale coeso, un intenso dramma noir in due tempi, i cui personaggi che mantengono il loro ruolo durante tutto lo spettacolo. Tutt’altro che nuovo, ma pur sempre efficace, l’espediente del “manoscritto ritrovato”: si tratta del diario di Jan, un agricoltore boemo, che un detective, incaricato di indagare sulla sua scomparsa, trova nel corso di una perquisizione in casa dello stesso contadino. Mentre lo sta leggendo (o meglio cantando), si materializzano sulla scena i protagonisti della vicenda su cui si basa il lavoro di Janáček: oltre a Jan, la sua amante e la seducente gitana, che lo irretisce, strappandolo alla sua donna. Quest’ultima è anche la protagonista della Voce umana, dove, in una telefonata straziante, sembra voler trattenere, in un estremo tentativo, l’uomo che ama ancora disperatamente (nella visione del regista, lo stesso Jan); in realtà si tratta di una sorta di delirio da parte di una Lei, stravolta dal dolore e dagli psicofarmaci, che ha già ucciso l’amante infedele. L’idea di collegare le due pièces è apparsa piuttosto valida, anche perché un altro elemento le accomuna, vale a dire – come si legge nel sempre dovizioso programma di sala – il fatto che si può ravvisare in entrambe una forte componente autobiografica: se, nel Diario di uno scomparso, Jan – che la zingara Zefka chiama, non senza significato, con il vezzeggiativo Janíček –, rappresenta l’alter ego dell’autore stesso – tutto preso, nel periodo in cui si dedicava a questa composizione, dalla passione per Kamila Stösslová, per la quale lascerà la precedente amante Gabriela Horváthová – anche nella Voce umana Elle rappresenta lo stesso Poulenc, che in una lettera ad un’amica scrive, riferendosi alla protagonista: «sono io, come Flaubert diceva “Bovary c’est moi”». Una soluzione registica – come si diceva – indovinata, quella adottata da Aliverta, forse con un unico punto debole: l’arredamento un po’ troppo smaccatamente borghese in casa del contadino Jan. Ottima, invece, l’idea di ambientare La Voce umana nella sala d’attesa, rigorosamente verde “chirurgico”, di un ospedale, dove la protagonista viene curata dopo il tentato suicidio con un’overdose di tranquillanti, fino al tragico epilogo in cui si toglie la vita con un colpo di rivoltella, dopo l’apparizione dell’amante esanime su una lettiga e di due poliziotti pronti ad arrestarla. Altrettanto indovinata la sostituzione del telefono fisso, previsto dal libretto, con il cellulare, croce e delizia dei giorni nostri, che dovrebbe essere simbolo della massima facilità di comunicare, ma qui rappresenta esattamente l’opposto, tra continue interferenze e cadute di linea. Largamente convincente lo spettacolo anche sul piano musicale. Fondamentale, per quanto riguarda il lavoro del musicista moravo, la prestazione di Claudio Marino Moretti al pianoforte, ad accompagnare con nitidezza di tocco e sensibilità, il canto dispiegato del tenore Leonardo Cortellazzi – dotato di una voce argentina, che ha saputo aderire con disinvoltura alla siderale linea di canto caratterizzante la sua parte – come i sinuosi, sensuali abbadoni del mezzosoprano Angela Nicoli, dal timbro gradevolmente ambrato, o i misurati, precisi interventi di Emanuela Conti, Marta Codognola, Paola Rossi (le voci interne). Dieci e lode, nella Voix, per Ángeles Blancas Gulín, già applauditissima, qualche anno fa, dal pubblico veneziano nel ruolo di Lou Salomé. Il soprano spagnolo ha saputo affrontare con intensa espressività, e senza alcuna caduta di stile, quel declamato frammentario e disperato, che fa della, protagonista dell’opera di Poulenc una delle eroine più rappresentative del teatro musicale novecentesco, associando al canto una pregnante gestualità. Raffinato e preciso l’apporto dell’orchestra, sapientemente guidata dal giovane, e autorevole, Francesco Lanzillotta, che ha saputo valorizzare quella che fedele D’Amico ha definito, in occasione della prima italiana: “Una musica che avvolge le parole senza distruggerle, modello di sobria, stringente acutezza. Poulenc ha immerso il testo in un’atmosfera sonora ben francese […] che si riconnette a quanto di meglio ha scritto”. Sonori, convinti applausi per questo dittico, per gli interpreti e i responsabili dello spettacolo.