Teatro Real de Madrid – Temporada 2015-2016
“ROBERTO DEVEREUX”
Tragedia lirica in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, basata sulla tragedia Elisabeth d’Angleterre di Jacques-François Ancelot
Musica di Gaetano Donizetti
Elisabetta MARIA PIA PISCITELLI
Il Duca di Nottingham ÁNGEL ÓDENA
Sara VERONICA SIMEONI
Roberto Devereux ISMAEL JORDI
Lord Guglielmo Cecil JUAN ANTONIO SANABRIA
Sir Gualtiero Raleigh ANDREA MASTRONI
Un paggio SEBASTIÁN COVARRUBIAS
Un domestico del Duca KOBA SARDALASHVILI
Orchestra e Coro del Teatro Real di Madrid
Direttore Andriy Yurkevych
Maestro del coro Andrés Máspero
Regia Alessandro Talevi
Scene e costumi Madeleine Boyd
Luci Matthew Haskins
Produzione della Welsh National Opera de Cardiff (2013)
Madrid, 27 settembre 2015
Roberto Devereux è considerata una delle opere più interessanti di tutto Donizetti soltanto da qualche decennio; tale orientamento di critica e di pubblico congiunti si spiega abbastanza facilmente sia dal punto di vista musicale sia da quello più propriamente letterario e teatrale. La composizione, risalente al momento forse più tragico dell’intera esistenza di Donizetti, si traduce in una sorta di continua e sofferta rinuncia alla compiutezza. In questa partitura non soltanto scarseggia la melodia ampia e compiaciuta, ma viene meno anche il rispetto della struttura musicale completa, ossia dell’unità tematica di un singolo momento musicale e drammatico. A partire dalla sinfonia Donizetti pone di fronte all’ascoltatore numerose cesure, sincopi, cambi repentini di motivo e di armonia, modulazioni e richiami. L’effetto complessivo che promana da un primo ascolto è quello della frammentarietà, contrapposta però alla formidabile unità narrativa che il libretto di Cammarano porge: sin dalla prima scena il pubblico intuisce che senza dubbio la tragedia si concluderà con la morte del protagonista. Ed è appunto la resa di tale contrasto la sfida più affascinante per chi metta in scena l’opera.
Per inaugurare la stagione lirica 2015-2016 il Teatro Real di Madrid ha deciso di riprendere la produzione della Welsh National Opera di Cardiff di due anni fa, convocando due compagnie cantanti di grande levatura (nella prima lottano sulla scena due mostri sacri del melodramma come Mariella Devia e Gregory Kunde, guidati dalla bacchetta di Bruno Campanella; nella seconda un agguerrito manipolo di giovani di talento e di provata esperienza affronta il Devereux con intensa partecipazione).
Si può dire con sicurezza che la sinfonia sia il banco di prova più difficile per il direttore d’orchestra; con il suo carattere nevrotico, che congiunge il motivo dell’inno reale inglese a una sequenza fugata, poi al tema luttuoso della morte di Devereux, poi ancora alla solennità del dramma “regale” e a varie fanfare, l’ouverture rischia di presentarsi come un eterogeneo insieme di motivi bandistici (basta riascoltare alcune celebri registrazioni dal vivo per rendersi conto di come la sua complessità possa facilmente degenerare in disordine). Essa fu d’altra parte aggiunta da Donizetti in occasione della ripresa parigina dell’opera; la prima versione napoletana del 1837 ne era sprovvista. Per fortuna Andriy Yurkevych, che sostituisce Campanella con la seconda compagnia, evita la deriva da banda di paese grazie a un’accurata pulizia del suono e un efficace controllo dei tempi, anche se la trama degli archi non è così calligrafica come si vorrebbe. La lettura tempestosa e reboante della sinfonia è sicuramente un’eredità della preparazione di Campanella, che ha sempre prediletto robuste sonorità; per il resto il direttore ucraino (che al Teatro Real aveva già diretto Devereux nel 2013) è molto più accomodante nei confronti dei cantanti, come si percepisce nelle riprese delle cabalette e nei momenti più impegnativi della coloratura. Maria Pia Piscitelli è dotata di tale musicalità da poter affrontare la parte di Elisabetta in modo molto convincente; la buona risonanza delle sue note basse corrisponde anche alle esigenze della scrittura che Donizetti aveva destinato a Giuseppina Ronzi De Begnis, oggi definibile soprano “drammatico di agilità”. Nel registro acuto l’emissione della Piscitelli è invece sottoposta a un leggero sforzo, e allora il suono è talvolta stridulo. Ma la correttezza tecnica è pregevole, fino all’impervia scena conclusiva, con la grande aria «Mirate quel palco… di sangue rosseggia». Veronica Simeoni rivela a ogni nuova occasione di ascolto una cavata splendida e ricca di armonici, oltre che una tecnica impeccabile; grazie all’aggiunta di un fraseggio accurato ed espressivo la sua Sara è ottima. La vera sorpresa della serata è però il tenore. Ismael Jordi è un artista di formazione madrilena che ha debuttato nel 2002 in Don Pasquale; e Donizetti ha sempre accompagnato la sua carriera, soprattutto con Elisir d’amore, Lucrezia Borgia, e in particolare Lucia di Lammermoor; ora affronta una parte assai più drammatica delle precedenti, ma ha certamente raggiunto la maturità per farlo: il suo Roberto è appassionato e fresco nel porgere, ha voce squillante e carezzevole, piena e vibrante; e finalmente dimostra di saper respirare nel modo migliore, perché la voce scorre agilissima sul fiato senza alcuna difficoltà. Jordi deve ancora perfezionare la messa in maschera sulle frasi scoperte dei recitativi, ma è un cantante che in generale entusiasma l’ascoltatore, con acuti, filature e smorzature del suono magistrali (nel III atto qualche piccola leziosità gli deriva dall’imitazione di Flórez; c’è da sperare che si affranchi da tale debolezza, perché ha tutti i requisiti per distinguersi con una propria “personalità vocale”). E poi la sua dizione è impeccabile: dell’intera compagnia è l’unico a rendere perfettamente distinguibile ogni parola cantata. Ángel Ódena, il duca di Nottingham, è baritono dalla voce ragguardevole, ma un po’ legnosa, e – quel che è peggio – non immune da micro-stonazioni. La sua veemenza lo rende credibile come interprete, in particolare nel terzetto del II atto, sebbene nella sua prestazione manchi l’elegante fraseggio richiesto dalla cabaletta del I; e manchi ogni sorta di sfumatura o di colore. Juan Antonio Sanabria, nel ruolo di Lord Guglielmo Cecil, ha una voce troppo leggera per il ruolo, e inevitabilmente petulante. Molto buono il Gualtiero di Andrea Mastroni. Il Coro del Teatro Real è una delle formazioni vocali più abili a congiungere la correttezza del canto alla destrezza attoriale, segno che è stato educato da molti registi a muoversi con disinvoltura sul palco, e al tempo stesso è vigilato dalla supervisione di Andrés Máspero. Se si tralascia la plumbea pesantezza della scenografia, dovuta a Madeleine Boyd, il merito più grande del giovane regista Alessandro Talevi è la cura della recitazione: tutti gli interpreti esprimono il disagio della loro esistenza all’interno di un progetto unitario, coincidente con la resa dell’isterico dispotismo di Elisabetta. L’effetto scenografico più rimarchevole – non privo di risvolti kitsch – riguarda infatti la regina d’Inghilterra: condannando Roberto nel II atto sale su un trono mobile che si trasforma in gigantesco ragno, con zampe pronte a ghermire il conte e ogni altro uomo presente sulla scena. Già nel corso del I atto Elisabetta nutre con un topolino, premurosamente offertole da Sara, un grande ragno tenuto chiuso in una teca; secondo la lettura di Talevi la sovrana vorrebbe dunque essere una donna dominatrice, capace di tenere gli uomini segregati e soggetti alle sue brame sessuali, come insetti prigionieri di una ragnatela. Cade in secondo piano il dramma della vecchiaia della regina di fronte a un conte di Essex giovane e spavaldo. E non c’è purtroppo alcuna traccia di quella parola segnale che attraversa il libretto dall’inizio alla fine, e che è la tomba; l’avello sepolcrale è la vera ossessione di tutti i personaggi del Devereux secondo la riscrittura di Cammarano (il primo verso del libretto parla del «pallor funereo» di Sara; nel finale dell’opera Elisabetta esclama: «Dov’era il mio trono s’innalza una tomba… / In quella discendo… fu schiusa per me»). Nella regia di Talevi questo incubo è surrogato dall’ambientazione cupa e claustrofobica; soltanto nel finale si vedono sullo sfondo cadaveri impalati e amputati; ma più che altro è un effetto di gusto cinematografico, alquanto scadente. Il farsetto confezionato per Jordi assomiglia troppo a un attillato giubbotto di pelle color cammello, stile telefilm americano degli anni Settanta (per fortuna il costume di Kunde è assai più sobrio); è pur vero che dona all’interprete un ulteriore tocco di simpatico glamour. Ma il lavoro vero della costumista Madeleine Boyd si riconosce nelle mises di Elisabetta, in bilico tra un abito di Capucci e lo stile della dark lady (con tanto di stivaloni neri e guanto munito di artigli metallici). Ovviamente si voleva evitare a ogni costo merletti e crinoline, colletti e parrucche secondo l’iconografia della queen Bette Davis, nella celebre pellicola di Henry Koster (The Virgin Queen, 1955). L’esito della serata, che il pubblico di Madrid apprezza e festeggia moltissimo, va ritrovato prima di tutto nelle tre voci più importanti, che hanno saputo dare il meglio di sé; poi nell’Orchestra del Teatro Real, la cui precisione e pulizia costituiscono altro merito per l’intera istituzione; e infine nell’allestimento dall’aura un po’ fantascientifica, percepito come “modernista” ed efficace. Foto Teatro Real e Madrid