Sala Titta Ruffo del Teatro Verdi di Pisa – Stagione Lirica 2015/16
Ciclo Opere da Camera & “Una Gigantesca Follia” – Dongiovanni Festival
“IL TRIONFO DELL’ONORE, OVVERO IL DISSOLUTO PENTITO”
Opera comica in tre atti
Libretto di Francesco Antonio Tullio
Musica di Alessandro Scarlatti
Riccardo Albenori MARIA COSTANZA NOCENTINI
Leonora Dorini SUSANNE EKBERG
Erminio Rossetti KENTARO KITAYA
Doralice Rossetti LAURA ANDREINI
Flaminio Castravacca MOISES SALAZAR
Cornelia Buffacci FRANCESCO GHELARDINI
Rosina Caruccia FLORIANO D’AURIA
Capitano Rodimarte Bombarda ANDREA SARI
Ensemble San Felice
Direttore Federico Bardazzi
Regia Mario Setti
Abiti di scena ideati e realizzati dalla Maison Enrico Coveri
Lighting Designer Charlotte Landini, Elena Vastano
Pisa, 16 ottobre 2015
Probabilmente se fosse stata composta da uno dei numerosissimi ed oscuri musicisti attivi nella prima parte del Settecento, Il trionfo dell’onore si troverebbe ancora sepolto sotto strati di polvere in qualche biblioteca, ma dato che reca la firma di uno dei più illustri compositori di ogni tempo, Alessandro Scarlatti, quest’opera ha avuto in epoca moderna una fortuna piuttosto insolita: riesumata già nel 1937 in Inghilterra, fu ben presto riproposta in Italia da Anton Guadagno nel 1940 a Siena, e poi nel corso dei seguenti decenni è stata considerata degna di attenzione da parti altri direttori importanti, specialisti barocchi ma non solo, quali Carlo Maria Giulini (in una delle sue rarissime incursione nel repertorio operistico pre-mozartiano/haydniano) nel 1950, Vittorio Antonellini (Roma, 1984), René Clemencic (Parigi, 1987), Helmut Müller-Brülhl (Schwetzingen, 1985), Francesco La Licata (Ginevra 1993), Patrick Davin (Liegi e Bruxelles (1994/95), Fabio Biondi (Palermo, 2001), tanto per limitarsi alle produzioni di maggior profilo. L’ultima esecuzione che io abbia rintracciato è la prima statunitense dell’opera avvenuta a New York in un allestimento della Underworld Productions diretta da Dorian Komanoff Bandy nel maggio 2013. Il Teatro Verdi di Pisa riprende adesso Il trionfo dell’onore inserendolo in “Una gigantesca follia – Dongiovanni Festival”, iniziativa che affronta uno dei miti più influenti della cultura occidentale, quello di Don Giovanni, con esecuzioni di lavori in prosa, balletti ed opere ad esso ispirate, corredate da una serie di conferenze di studiosi provenienti dai vari rami del sapere accademico. Ed eccoci quindi a questa fatica scarlattiana, nota anche per esser la sola opera comica del maestro siciliano. Che abbia a che fare con il mito del celebre seduttore si capisce leggendo il titolo per esteso: Il trionfo dell’onore, ovvero il dissoluto pentito. Sì, perché in questa versione il signorotto donnaiolo alla fine non viene trascinato all’inferno, ma dopo esser stato ferito durante un duello, si ravvede, capisce i propri errori e torna dalla sedotta e abbandonata. Questa è in breve è la trama: Riccardo Albenori, il nostro libertino, cerca di conquistare Doralice Rossetti dopo aver piantato in asso Leonora Dorini, sorella del suo amico Erminio a sua volta sul punto di sposarsi con Doralice e quindi smanioso di vendicare nel sangue il doppio affronto. Questi sono in ruoli “seri”, contraddistinti, come era prassi, da una scrittura vocale più virtuosistica, affiancati da quattro personaggi “buffi”, i quali al contrario si esprimono e musicalmente e verbalmente in termini assai più semplici e schietti: Erminio Castravacca, il vecchio zio di Riccardo, intento a liberarsi dell’attempata e poco attraente Cornelia Buffacci (zia a sua volta di Doralice) per correre dietro alle grazie della giovane servetta Rosina Caruccia, la quale però sta già trescando con Rodimarte Bombarda, il classico miles gloriosus compagno d’avventure di Riccardo. Fra fughe, sfide a duello, incontri galanti e segreti, zuffe, lamenti e litigi accuse di ogni genere si giunge a una conclusione alla Così fan tutte, in cui si ricompongono le coppie originali, con un gran punto interrogativo sulla futura felicità di questi matrimoni. Sebbene l’opera fosse stata commissionata dal Teatro dei Fiorentini di Napoli, dove, nonostante il nome, i personaggi buffi si esprimevano per lo più in dialetto partenopeo (pratica amatissima dal pubblico che si è estesa fino a Ottocento inoltrato, basti pensare alla Gazzetta rossiniana o al Don Gregorio donizettiano), in questo caso Scarlatti insisté sull’uso del toscano (come spiegato nelle note introduttive del libretto originale), probabilmente per agevolare il successo dell’opera nel resto d’Europa, e non a caso l’azione venne ambientata a Pisa, con alcuni personaggi che giungono da Lucca e da Livorno: più toscano di così non si poteva. Il linguaggio dei ruoli buffi è particolarmente salace, piccante, da bettola, divertente, mentre i seri si esprimono con un vocabolario tipicamente aulico. Musicalmente si avverte una certa monotonia, soprattutto per la scarsità di oasi veramente liriche; la vocalità si basa sul sillabato, con battute dopo battute composte di note dello stesso valore, che poi sfociano in passi virtuostici di intensa coloratura per i personaggi seri, ma che raramente si espandono in ariosi. Invano ricercheremmo melodie spaziose come “Verdi prati” o “Oblivion soave”. L’elemento più sorprendente è il relativamente alto numero di duetti, e persino due quartetti (uno per i seri, l’altro per i buffi) con ottetto finale. Riguardo all’assegnazione dei ruoli ai vari registri vocali, basti dare uno sguardo fugace ai cast delle esecuzioni citate per rendersi conto che siamo di fronte alla totale anarchia: in questa recita Riccardo (unico ruolo dell’opera scritto per un castrato) era cantato da un soprano, altrove da un controtenore; Erminio, a Pisa un tenore, è stato in altre occasioni delegato ad un altro falsettista o a un mezzosoprano; Cornelia, ruolo scritto in chiave di tenore, era qui affidato ad un controtenore, e così via. Nel cast in questione, il nome più noto era quello di Maria Costanza Nocentini (Riccardo), soprano con una ormai ventennale esperienza alle spalle, che ha fornito la prestazione più soddisfacente della serata: timbro ancora molto bello, pieno, ricco di armonici, e buona coloratura. Susanne Ekberg ha timbro caldo e volume da vero mezzo-soprano ma l’intonazione era talora precaria e il canto d’agilità, per lo più di forza dato l’altissimo numero delle arie di furore, non propriamente immacolato. Il fatto che l’artista fosse visibilmente in dolce attesa aggiungeva spessore al dramma vissuto dal personaggio, la donna abbandonata che, come Elvira, alterna sentimenti di autocommiserazione, vendetta, amore e pietà. Kentaro Kitaya (Erminio), tenore lirico-leggero, è uscito un po’ malconcio dal confronto con una tessitura molto grave, che lo portava a gonfiare il suono in basso, con il risultato che il registro acuto (e qui si parla solo dei primissimi acuti) dava segni di forzatura e di cali d’intonazione. Laura Andreini, soprano leggero dal timbro limpido, ha ritratto una Doralice giovanile, civettuola, producendosi occasionalmente in svolazzi verso i sovracuti ed esibendo dei buoni picchettati. Il timbro lirico, pieno e fresco del tenore Moises Salazar faceva a pugni con il personaggio da lui interpretato, Flaminio Castravacca, il classico vecchio libidinoso a caccia di procaci servette, una delle quali era appunto Rosina Caruccia, interpretata dal contraltista Floriano D’Auria, che ha fatto affidamento soprattutto sulla verve comica dato che la musica composta per il suo personaggio non è fra le più memorabili o impervie dell’opera. C’è stata fortunatamente una certa distinzione timbrica fra la sua voce più rotonda, e quindi adatta ad esprimere la giovinezza di Rosina, e quella tecnicamente più scaltra ma anche più scarna dell’altro controtenore, Francesco Gherlardini nelle vesti femminili dell’anziana Cornelia Buffacci. L’unica voce grave apparteneva al baritono Andrea Sari, un Rodimarte Bombarda appropriatamente roboante. Federico Bardazzi ha ridotto un’ opera della durata di quattro ore di musica a dimensioni più umane, presentando al pubblico pisano una versione di circa 140 minuti, sfrondando recitativi e tagliando alcune arie (circa ottanta nella versione integrale) e parecchi daccapo di quelle rimanenti. Bardazzi ha colpito per il gesto sicuro e preciso ed è riuscito nell’ardua impresa di staccare quasi sempre i tempi giusti per rendere l’essenza di ogni aria: un’allegro scritto per un’aria di Erminio o Riccardo non potrà esser identico a quello indicato per un assolo di Rosina o Cornelia.
L’Ensemble San Felice ha avuto alcuni momenti difficili (uno strumentista in particolare, che però non mi sembra il caso di dover additare) all’inizio dell’opera, quando i vari strumenti non parevano accordati in maniera proprio impeccabile, creando dissonanze dal sapore vagamente schoemberghiano, problema che si è fortunatamente ridotto nel corso della recita e soprattutto nella seconda parte, dopo che durante l’intervallo gli strumenti hanno avuto modo di accordarsi di nuovo dovutamente.
L’opera ha avuto luogo nel ridotto del teatro, nella sala Titta Ruffo, le cui dimensioni non capienti sono state sfruttate al meglio dal regista Mario Setti, che ha posto al centro della sala una pedana a forma di croce latina: i solisti, che per tutto il corso della recita sedevano due a due su ciascuno dei quattro bracci della croce, erano impegnati per lo più a fare solitari con mazzi di carte da gioco, per portarsi al centro di essa durante i vari scontri e incontri. I costumi erano a dir poco eclettici; se Riccardo indossava un abito di foggia simil-settecentesca, quasi tutti gli altri portavano vestiti che parevano usciti da un guardaroba dei più kitsch anni ’70. Nonostante qualche perplessità iniziale, le due ore e venti di musica sono volate piacevolmente senza momenti di noia o di stasi, segno che l’allestimento, con tutti i suoi limiti, ha in fondo raggiunto il suo scopo: presentare un lavoro musicale di grande importanza nella storia della musica in maniera fruibile per lo spettatore moderno, il tutto in assoluta frugalità di mezzi. Foto di scena: Lara Fiorillo
L’Ensemble San Felice ha avuto alcuni momenti difficili (uno strumentista in particolare, che però non mi sembra il caso di dover additare) all’inizio dell’opera, quando i vari strumenti non parevano accordati in maniera proprio impeccabile, creando dissonanze dal sapore vagamente schoemberghiano, problema che si è fortunatamente ridotto nel corso della recita e soprattutto nella seconda parte, dopo che durante l’intervallo gli strumenti hanno avuto modo di accordarsi di nuovo dovutamente.
L’opera ha avuto luogo nel ridotto del teatro, nella sala Titta Ruffo, le cui dimensioni non capienti sono state sfruttate al meglio dal regista Mario Setti, che ha posto al centro della sala una pedana a forma di croce latina: i solisti, che per tutto il corso della recita sedevano due a due su ciascuno dei quattro bracci della croce, erano impegnati per lo più a fare solitari con mazzi di carte da gioco, per portarsi al centro di essa durante i vari scontri e incontri. I costumi erano a dir poco eclettici; se Riccardo indossava un abito di foggia simil-settecentesca, quasi tutti gli altri portavano vestiti che parevano usciti da un guardaroba dei più kitsch anni ’70. Nonostante qualche perplessità iniziale, le due ore e venti di musica sono volate piacevolmente senza momenti di noia o di stasi, segno che l’allestimento, con tutti i suoi limiti, ha in fondo raggiunto il suo scopo: presentare un lavoro musicale di grande importanza nella storia della musica in maniera fruibile per lo spettatore moderno, il tutto in assoluta frugalità di mezzi. Foto di scena: Lara Fiorillo