Genova, Teatro Carlo Felice: “Simon Boccanegra”

Teatro “Carlo Felice” – Stagione Lirica 2015/16
“SIMON BOCCANEGRA”
Melodramma in un prologo e tre atti su libretto di Francesco Maria Piave con aggiunte e modifiche di Arrigo Boito dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García Gutierrez
Musica di Giuseppe Verdi
Simon Boccanegra FRANCO VASSALLO
Jacopo Fiesco MARCO SPOTTI
Paolo Albiani  GIANFRANCO MONTRESOR
Pietro JOHN PAUL HUCKLE
Maria Boccanegra  BENEDETTA TORRE
Gabriele Adorno GIANLUCA TERRANOVA
Un capitano dei balestrieri GIAMPIERO DE PAOLI
Un’ancella KAMELIA KADER
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del Coro  Pablo Assante
Regia e Scene  Andrea De Rosa
Costumi  Alessandro Lai
Light and video designer Pasquale Mari 
Allestimento in coproduzione: Fondazione Teatro La Fenice e Fondazione Teatro Carlo Felice
Genova, 25 ottobre 2015
Le due repubbliche marinare che quasi sette secoli or sono il romito di Sorga invitava senza molto successo ad affratellarsi hanno finalmente unito le forze per co-produrre un’opera che lega strettamente entrambe, il Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, ambientata nella Superba ma commissionata dalla Serenissima. Per pura coincidenza Pisa, un’altra repubblica marinara che riveste un ruolo importante nella vicenda, ha recentemente aperto la propria stagione con quest’opera, ma in un diverso allestimento.
La messinscena genovese/veneziana, che ha inaugurato la scorsa stagione del Teatro la Fenice e che è stata scelta come primo titolo della di quella genovese in corso, è stata affidata a Andrea De Rosa, curatore anche delle scene, il quale ha concepito un impianto fisso dotato di una struttura centrale che funge da interno e da esterno e copre, quando più quando meno, il fondo scena, su cui vengono proiettati suggestivi e realistici scorci marini, filmati da Pasquale Mari a Genova e dintorni nelle ore della giornata indicate dal libretto: si passa quindi dal mare cupo e appena intravisto del prologo, a quello ancora bruno ma vieppiù albeggiante della prima scena del primo atto, per giungere alla scena finale, in cui la struttura portante si riduce ad uno scheletrico telaio per mostrare il mare aperto illuminato da un glorioso tramonto. È un allestimento molto gradevole, di sicuro effetto, impreziosito dai bellissimi costumi di Alessandro Lai, descrittivo senza cadere nell’oleografico: l’effetto figurina Liebig è per fortuna evitato.  De Rosa ha dato molto peso alla recitazione e all’interazione fra i personaggi; l’unico passo falso è stata la caratterizzazione troppo macchiettistica del personaggio chiave di Paolo Albiani,ritratto come una sorta di “villain” quasi comico, in particolare nell’atto secondo in cui si avvicina alla tazza con la fiala del veleno con la furtività felpata di Gatto Silvestro. In una regia essenzialmente ligia al libretto, l’unico corpo estraneo (da intendersi non solo metaforicamente) è la presenza dell’amata Maria, mostrata dapprima come inerte corpo senza vita cullato dal protagonista straziato dal dolore alla fine del prologo, e poi come “fantasma” protettore in alcuni momenti degli atti successivi. Nonostante non aggiunga nulla di nuovo alla vicenda, è innegabile che la conclusione dell’opera, speculare a quella del prologo cui fa da pendant, con Boccanegra che spira fra le braccia dell’amata come in una Pietà michelangiolesca, costituisca un momento emozionante, tanto più che De Rosa ha materializzato quello che ho sempre pensato, e cioè che la Maria cui si rivolge il Simone agonizzante – ed è l’ultima parola che pronuncia prima di morire – non sia la figlia appena ritrovata, ma l’amante perduta tanti anni prima.
Sebbene sia largamente frutto del caso più che di ponderata programmazione, il cast si è dimostrato alla prova dei fatti complessivamente forte e convincente.  Alcune settimane fa infatti, alla vigilia dell’inizio delle prove, nel volgere di poche ore questo Boccanegra si è ritrovato orfano del direttore d’orchestra, baritono protagonista e soprano. La recita oggetto di questa recensione, la seconda rappresentazione, prevedeva la compagnia di canto della prima, e così è stato con l’eccezione del forfait di una Barbara Frittoli indisposta. Al suo posto, già in programma per le recite del cast alternativo, è subentrata Benedetta Torre, giovane, anzi giovanissimo (classe 1994) soprano genovese, che ha fugato ogni possibile sospetto di favoritismo locale non appena ha aperto bocca. La Torre infatti ha da subito incantato per il bel timbro flautato, screziato di ambrate venature malinconiche, accompagnato da un’emissione omogenea, immascherata,ben sostenuta anche nel registro medio-grave e da acuti sicuri e compatti, per lo meno fino ai do acuti (piuttosto esposti nel terzetto del secondo atto) previsti dalla partitura. Fra i molti momenti che hanno particolarmente colpito è d’obbligo annoverare la maestria con cui ha dominato i concertati, nonché la sua partecipazione al finale dell’opera, con quella melodia sincopata dai difficili intervalli discendenti che il soprano ha affrontato con intonazione impeccabile. Nel concertato del finale del primo atto ha addirittura fatto sentire un bel trillo sul sol diesis 3 sulla frase “di patria carità”, che spesso e volentieri, anche le rare volte che si esegue, si perde in mezzo alle altre voci e al coro; meno sgranato è stato quello ben più esposto alla fine del suddetto concertato. Se proprio si dovesse usare il microscopio, l’unica piccola menda riscontrata è stata una certa fissità di alcuni acuti smorzati, e soprattutto il si bemolle pianissimo al termine della cavatina, modesta imperfezione più che giustificata da fattori come una voce non ancora del tutto riscaldata e l’emozione di un debutto così importante. Ciliegina sulla torta, è una ragazza molto attraente e dotata di una bellezza dai lineamenti graziosamente classici. Tutto ciò è davvero impressionante in un’epoca come la nostra in cui si debutta sempre più tardi e un cantante è spesso definito giovane anche a trentacinque anni. Detto questo, si aveva comunque la sensazione che, per la sua salute e longevità vocale, il ruolo di Maria Boccanegra debba rappresentare per il momento una specie di colonne d’Ercole da non oltrepassare. Alla sua compostezza vocale e interpretativa fungeva da contraltare la ben nota focosità di Gianluca Terranova in uno dei suoi ruoli di maggior successo, Gabriele Adorno. Il tenore, che per temperamento ha sempre dato il meglio in passi concitati in cui può sfoggiare lo squillo e la potenza del registro acuto (l’aria del secondo atto è stato il momento più applaudito dell’opera), è riuscito comunque a piegarsi benissimo alle esigenze delle pagine più liriche, come un “Cielo di stelle orbato” virile ma soave, e soprattutto l’andante religioso, il duettino con Fiesco, una pagina che ricorda da vicino molti momenti della parte tenorile della Messa da Requiem, con la scomoda tessitura imperniata sul passaggio da intonare con sommessa partecipazione. Ottimo protagonista si è rivelato Franco Vassallo, un Simone dalla vocalità sana e dalla buona fonazione, raccolto e dolente sommesso e discreto, turbato e commosso, dotato tuttavia di una grande forza interiore che gli conferisce grandezza e potenza senza bisogno di ricorrere a sottolineature esteriori o enfatizzanti, se si eccettuano isolati momenti in cui, a nostro avviso, ha esternato un po’ troppo l’evidente modello “cappuccilliano” con alcune (rare tutto sommato) sbracature in acuto e un paio di esclamazioni (“ E tu ripeti il giuro!” oppure il “Fiesco!” nel momento in cui riconosce la sua nemesi nell’ultimo atto) prese tali e quali dalla celeberrima incisione di Claudio Abbado.  Molto commovente è stata la sua morte, che la musica di Verdi equipara a una vera e propria trasfigurazione (“Gran Dio, li benedici…”), tutta giocata su bei piani e pianissimi. Personalmente preferisco un Fiesco dalla voce più scura e granitica di quella di Marco Spotti, basso cantante piuttosto chiaro ove al contrario un vero basso profondo sarebbe necessario sia per ragioni di tessitura che per esigenze psicologico-interpretative. Detto questo, non si può che sottolineare la correttezza dell’emissione del cantante parmense, a suo agio più in acuto che nelle cavernose discese verso i fa e i fa diesis gravi. Gianfranco Montresor, sia per i limiti imposti dalla regia, sia per il timbro scarsamente incisivo, non è riuscito a dare il giusto rilievo al personaggio di Paolo Albiani, che dovrebbe esser irridente nella minaccia e insinuante nella persuasione.  Una dizione italiana un po’ impacciata ha rischiato di fare una specie di “spalla” comica anche di John Paul Huckle (Pietro), che potrebbe contare su un timbro piuttosto scuro e cavernoso. Completavano dignitosamente il cast Kamelia Kader nei panni dell’ancella di Amelia e Giampiero De Paoli in quelli del capitano dei balestrieri.
La direzione di Stefano Ranzani ha evidenziato pregi e limiti; fra i primi, quello di incommensurabile valore di una totale sincronia fra buca e palcoscenico e soprattutto un’assoluta pulizia orchestrale che non ammetteva sbavatura alcuna. Ecco quindi che pagine come la lunga introduzione all’aria di Amelia e la finissima filigrana del finale dell’opera sono state rese con cristallino nitore e col giusto equilibrio e dosaggio fra le varie sezioni dell’orchestra. Ma la “tinta” di Simon Boccanegra è implacabilmente scura, tenebrosa, lugubre e Ranzani non ha comunicato se non in minima parte l’aura di pericolo, terrore e cupa disperazione che pervade l’opera; per portare solo alcuni esempi, il “motivo della morte” nell’introduzione all’aria di Fiesco, dapprima accennato negli ottoni e nei violoncelli, e poi da tutti gli archi in unisono cui rispondono minacciosamente gli ottoni, affrontato da lui quasi con nonchalance non incuteva paura e angoscia; la serpeggiante cellula melodica che accompagna Simone mentre sta per bere il veleno non comunicava malevolenza e persino l’accordo in re minore che segnala l’esatto momento in cui lo sorseggia è passato quasi inosservato. Eccellente come sempre il coro diretto da Pablo Assante.
A conti fatti si è avuto un Simone in cui il totale si è rivelato superiore alle singoli parti, e nel complesso il risultato è stato apprezzabilissimo e soddisfacente: tale lo ha ritenuto anche il pubblico, che benché non foltissimo, ha omaggiato ogni artista con lunghi e calorosi applausi. Foto di Marcello Orselli