Concerto dell’Orchestra Filarmonica della Fenice di Venezia

Venezia, Teatro La Fenice, Stagione 2015 / 2016
Orchestra Filarmonica della Fenice
Direttore Antonello Manacorda
Violino Antje Weithaass  
Johannes Brahms: Concerto in re maggiore per violino e orchestra, op. 77
Franz Schubert: Sinfonia n. 9 in do maggiore, D 944 La Grande
Venezia, 26 ottobre 2015

Un’orchestra in gran forma, quella che ha deliziato il pubblico veneziano nella serata di cui ci occupiamo. Si tratta della Filarmonica della Fenice, un’importante istituzione, erede della più nobile tradizione musicale di Venezia, nata nel 2007, per volontà dei professori dell’orchestra stabile del teatro omonimo, ed attiva dal 2010 – il concerto inaugurale vide sul podio il maestro Riccardo Chailly. Molti i giovani tra i direttori invitati, successivamente, alle stagioni sinfoniche – Diego Matheuz , Omer Meir Wellber, Aziz Shokakimov, Daniele Rustioni, Marcus Stenz, Susanna Malkki, Kirill Karabits e, appunto, Antonello Manacorda, tra i protagonisti del recente concerto, nonché di altri importanti eventi alla Fenice – come tra i solisti di fama internazionale, che hanno suonato insieme alla Filarmonica – i pianisti Anna Winniskaia e Chen Guang, il cornista Alessio Allegrini, i violoncellisti Mario Brunello e Enrico Bronzi, le violiniste Nicola Benedetti e – altra protagonista della serata – Antje Weithaas. Questa giovane formazione ci ha da sempre abituato ad esecuzioni di alto livello artistico, ma – com’è naturale – in questi anni è maturata, raggiungendo, tra l’altro, sempre maggiore coesione, sempre maggiore intesa. Il risultato – come si è potuto apprezzare nell’ultimo concerto – è un insieme sonoro calibrato, puro, rotondo – caratteristica, peraltro, delle più prestigiose orchestre –, che è frutto delle doti dei singoli strumentisti, ma anche della capacità di ascoltarsi reciprocamente. Ovviamente il merito va anche al Maestro Manacorda – direttore di fama internazionale –, il cui gesto, estremamente chiaro ed autorevole, ha saputo trarre il meglio dagli strumentisti, che hanno dimostrato una concentrazione, una precisione pressoché assolute nei due due pezzi in programma, certamente molto impegnativi. Per non parlare della violinista tedesca, Antje Weithaas – altra star a livello mondiale, che alterna l’attività concertistica a quella didattica – di cui si è apprezzata la tecnica sopraffina, oltre ad un forte temperamento coniugato ad a un’acuta sensibilità interpretativa, in uno dei concerti per violino più straordinari (e difficili) del repertorio ottocentesco.
Il Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 77 di Brahms (1878), dedicato al suo grande amico, il violinista Joseph Joachim, fu tenuto a battesimo a Lipsia da quest’ultimo insieme all’Orchestra del Gewandhaus diretta dallo stesso Brahms. Composto tra la Seconda sinfonia e il Secondo concerto per pianoforte, ne mutua le caratteristiche squisitamente liriche, riallacciandosi, sotto questo aspetto, anche al Concerto di Beethoven per lo stesso strumento – non a caso nella stessa tonalità di re maggiore –, dove, analogamente, la parte solistica, pur richiedendo grande padronanza tecnica, non prevede mai un virtuosismo fine a se stesso, ma è eminentemente espressiva, intrecciando un dialogo costruttivo con l’orchestra. Nel concerto di Brahms il lirismo si coniuga con un respiro sinfonico, che distingue questo lavoro rispetto al tipico concerto per violino romantico di Mendelssohn, di Schumann e poi di Bruch. Oggi è considerato una delle composizioni più riuscite del geniale amburghese, ma, inizialmente, non ottenne il successo di pubblico desiderato dal compositore. I suoi contemporanei non ne compresero il valore, proprio per l’ampiezza della sua concezione, oltre che per il linguaggio innovativo, fondato su un perfetto equilibrio tra solista ed ensemble strumentale, anziché sulla tradizionale contrapposizione tra solista e orchestra. Una perfetta intonazione, un suono puro ed armonioso anche nei passaggi più vigorosi, una sensibilità che ha saputo trovare sempre il giusto accento: queste le principali caratteristiche della straordinaria interpretazione offerta da Antje Weithaas. Nel movimento iniziale, Allegro ma non troppo – il più imponente dei tre che compongono il concerto –, la solista tedesca ha esposto con impareggiabile leggerezza il primo tema lirico e pacatamente discorsivo, animando, successivamente, il discorso con il secondo tema più inquieto e quasi appassionato, per poi caricarsi di una travolgente forza espressiva nelle strappate che aprono il terzo tema energico e incisivo. Sublime virtuosismo ha dimostrato nella cadenza (che Brahms lasciò scrivere all’amico Joachim), prima della ripresa, che intensifica nuovamente gli elementi principali dell’esposizione. Il tutto assecondato da un’orchestra, che – qui come altrove – ha saputo distillare sonorità dolci o robuste, a seconda dei passaggi, brillando in occasione degli scarti rimici, tipici in Brahms. Dopo il Larghetto, introdotto degnamente dall’assolo dei legni e, in particolare, dell’oboe, in cui si sono imposte le mirabolanti evoluzioni della solista, che hanno assunto via via carattere lirico fino a divenire accorate perorazioni nel dialogo con gli strumenti, il Concerto si è concluso con un movimento finale, Rondò. Allegro, percorso da un empito dionisiaco: dal tema principale, dove è evidente l’influsso della musica popolare ungherese, fino a tutto il movimento, dalle sonorità scintillanti, basato su un entusiasmante gioco tra violino e orchestra, con il violino solista che si è lanciato in arditezze virtuosistiche sempre più trascinanti. Gli interminabili applausi, che hanno festeggiato questa bellissima esecuzione, hanno ottenuto un bis bachiano: la Sarabande dalla Partita n. 2 per violino BWV 1004. Esecuzione magistrale, ma forse qualche inflessione romanticheggiante di troppo.
Quanto alla Sinfonia n. 9 in do maggiore “La Grande” (1825-28), è ormai praticamente certo che essa va identificata con la Sinfonia di Gmunden-Gastein, ritenuta per molti anni un lavoro a se stante ormai perduto, mentre non rappresenta che una prima stesura della “Grande”, l’ultimo lavoro sinfonico firmato da Schubert, il quale – pur composto dopo l’Ottavaè rimasto a lungo contrassegnato col numero sette nel catalogo delle opere del sommo musicista austriaco, in quanto ritrovato ed eseguito parecchi anni prima dell’”Incompiuta”. “La Grande” costituisce l’apice della produzione sinfonica di Schubert: se ne accorse Schumann, cui si si deve la sua scoperta tra i manoscritti custoditi in casa del fratello del compositore, dopo la morte di quest’ultimo. Così nella sua recensione, sulla Neue Zeitschrift für Musik, alla prima esecuzione pubblica, avvenuta nel 1839 a Lipsia sotto la direzione di Mendelssohn, si lancia in un’entusiastica lode dell’opera schubertiana, mettendo in evidenza, tra l’altro, la “magistrale tecnica compositiva”, la “ vita” presente “in ogni fibra di questo lavoro”, il particolare “colorito che arriva alle sfumature più sottili”, il diffuso “romanticismo quale già conosciamo in altre opere di Schubert”, oltre alla “divina lunghezza della sinfonia”.  Schubert è essenzialmente un lirico, ma in questo lavoro davvero monumentale, la sua dolce vena melodica si inserisce in una costruzione solidissima, dove si coglie una concezione della forma profondamente nuova e particolarmente feconda per i compositori successivi, quand’anche – come nel caso di Brahms e di Bruckner – attestati su posizioni antitetiche: una concezione originale rispetto a quella di Beethoven – fondata sui contrasti e lo sviluppo tematico –, un nuovo modo di comporre, che si basa sul principio del ritorno ciclico di un motivo elementare, intonato all’inizio da due corni, a conferire unità all’intera composizione, che nello stesso tempo contiene un breve richiamo all’ultimo lavoro sinfonico del genio beethoveniano, laddove evoca un frammento dall’Inno alla Gioia.  Antonello Manacorda ha offerto, di questo capolavoro – vero e proprio compendio dell’arte compositiva schubertiana –, un’interpretazione che ha decisamente evidenziato il piglio eroico, vitale, luminoso, che la percorre, sapendo, tuttavia, modulare il proprio gesto per cogliere ogni sfumatura e aderire ai vari momenti di commosso raccoglimento, pur senza mai indulgere in sdolcinature: dal maestoso Andante ma non troppo, introdotto – come si è detto – da due soli corni, che espongono una sorta di corale, basato su un vigoroso tema in do maggiore, cui fa seguito un secondo tema in mi minore dolcemente melodico e ritmico; al successivo Andante con moto, traboccante di straordinarie melodie dai toni popolareschi, tipicamente austriaci o vagamente slavi; allo Scherzo, percorso dalla leggerezza del valzer viennese, ben lontana dalla cupa drammaticità di certi Scherzi beethoveniani; al conclusivo Allegro vivace, in forma-sonata, uno dei più colossali brani sinfonici di Schubert, a coronamento della grandiosa Sinfonia, nel quale lo slancio ritmico si coniuga mirabilmente con quella grazia melodica, che è dote sublime del grande maestro viennese. Alla fine della serata il pubblico ha sonoramente manifestato il proprio apprezzamento.