Milano, Teatro Litta – Coin du Roi, Societé d’Opéra – Stagione d’Opera 2015
“APOLLO ET HYACINTHUS”
Intermezzo in un prologo e due cori di Rufinus Widl
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Oebalus GRAZIANO SCHIAVONE
Melia ELINA SHIMKUS
Hyacinthus VILIJA MIKŠTAITĖ
Apollo ALESSANDRO GIANGRANDE
Zephyrus VALERIA GIRARDELLO
Orchestra Coin du Roi
Ars Cantica Choir
Maestro concertatore e direttore Christian Frattima
Maestro del coro Marco Berrini
Regia Alessio Pizzech
Scene e costumi Davide Amadei
Luci Nevio Cavina
Nuova produzione Coin du Roi
Milano, 17 ottobre 2015
Uno degli appuntamenti più interessanti in tutta l’annata milanese 2015 di opera e melodramma è stato Apollo et Hyacinthus di Mozart al Teatro Litta, per almeno tre motivi assai diversi: 1) è la prima “opera” in senso pieno di Mozart, che la compose all’età di undici anni per una rappresentazione accademica presso l’Università di Salisburgo, dove fu rappresentata il 13 maggio 1767; 2) il pubblico ha potuto vederla messa in scena in un delizioso spazio settecentesco come il Teatro Litta, il più antico tra tutti i teatri superstiti di Milano (originariamente era la cappella gentilizia all’interno del secentesco Palazzo Litta di Corso Magenta); 3) è stata eseguita da un nuovo ensemble, nato soltanto da qualche mese, Coin du Roi (www.cropera.it), che in Italia è «l’unica compagnia privata specializzata in opera preromantica».
Apollo et Hyacinthus non è dramma per musica nato nella piena autonomia artistica, perché fu destinato agli intermezzi del più ampio Clementia Croesi; e tale marginalità originaria ha pesato nei pregiudizi della critica musicologica, che ha sempre considerato l’opus K 38 di Mozart come poco più che un saggio scolastico-accademico. Primo e più alto merito della compagnia Coin du Roi è dunque aver demolito questo pregiudizio, prima con uno studio preparatorio e poi con l’esecuzione stessa. L’intermezzo è infatti costruito su una vicenda esile (ma dalla fonte illustre come il X libro delle ovidiane Metamorfosi), mentre la sua struttura teatrale non è affatto gracile, e soprattutto l’impianto musicale è degno di essere apprezzato con riguardo. Per utilizzare le parole di Christian Frattima, che di Coin du Roi è il direttore artistico, oltre che il concertatore dell’esecuzione, con Apollo et Hyacinthus si è di fronte a «un esperimento di rarefazione musicale e solennità gluckiana che non verrà mai ripreso da Mozart, se non in Idomeneo, re di Creta K 366 e nella Maurerische Trauermusik K 477» (dal saggio del programma di sala, Sintesi primigenia di un genio assoluto, p. 48).
L’organico strumentale è ridotto a una dozzina di elementi, tra archi, oboi, corni e continuo, ma assicura un suono corposo, nitido e autenticamente sinfonico. A questo proposito è perfetta la sintonia con il coro, Ars Cantica Choir, formato di otto elementi (due per ognuna delle quattro categorie vocali fondamentali: soprani, contralti, tenori, bassi), istruito da Marco Berrini. In merito alle voci soliste la cronaca richiede precisazioni differenti, oltre a una considerazione generale; tutti e cinque gli artisti, infatti, affrontano la loro parte con grande disinvoltura, e nella simbiosi di canto e recitazione riescono ad attualizzare la performance, che non ha nulla di accademico, di stantio o di convenzionale. Sul piano squisitamente vocale tutti dimostrano correttezza, ma certamente il soprano Elina Shimkus, nella parte di Melia, si impone sugli altri, sostenendoli e trainandoli: pregevole la linea di canto, precisa la quadratura, sicuro lo slancio virtuosistico. La giovane artista lettone si preannuncia quale specialista di sicuro avvenire nel campo della musica barocca e del belcanto.
Siccome la funzione di una recensione dovrebbe essere anche costruttiva, oltre che informativa, all’apprezzamento complessivo degli altri interpreti si può aggiungere qualche suggerimento più specifico: il re Oebalus, per esempio, è interpretato dal tenore Graziano Schiavone, che potrebbe perfezionare l’omogeneità del proprio timbro nelle diverse zone del registro, ed essere meno lezioso sul palcoscenico; anche il soprano Vilija Mikštaitė, Hyacinthus, deve correggere l’acerbità dell’emissione, ma già ora la sua capacità espressiva è molto alta. Alessandro Giangrande, controtenore, interpreta il personaggio protagonistico di Apollo, la cui tessitura è quella di un contralto; anche questo cantante deve evitare per il futuro che l’emissione e i passaggi di registro in registro siano discontinui. Valeria Girardello, nel ruolo contraltile di Zephirus, riesce a valorizzare la sua voce assai più nelle arie che non nei recitativi (a parte alcuni portamenti un po’ troppo precipitosi e marcati).
Il regista dello spettacolo, Alessio Pizzech, in una sua nota nell’elegante programma di sala, confessa che modello architettonico e stilistico della sua ispirazione è stata la gipsoteca Canova di Possagno; e infatti il bianco del neoclassicismo domina nelle strutture sceniche, nei costumi, nella luminosità solare (apollinea, certamente) di tutto l’allestimento. All’interno di uno scenario così bene illuminato ogni presenza, gestualità, atteggiamento risalta subito, forse anche più del previsto; due figuranti in costume da nuotatore, per esempio, compaiono troppo spesso sul palco, attirando un’attenzione degna di altro oggetto, e assumendo il posto del coro, che invece canta ai lati della scena. Nel corso della prima parte è esaltato il rapporto omoerotico tra Giacinto e Zefiro (è vero che nel libretto il secondo è definito intimus del primo, ma è anche vero che Zephirus ambiva sposare Melia, sorella di Hyacinthus), così come nella seconda il regista insiste molto sulla sensualità e provocante bellezza di Melia nei confronti di Apollo. La recitazione di tutti i personaggi umani non ha nulla di impostato, se non in direzione dell’informalità e dell’annullamento dei rapporti gerarchici: specialmente nel caso di Zefiro, che è una sorta di strafottente teppista della mitologia. Ma il passaggio al limite è nel carattere di Apollo: abbigliato con una specie di tight bianco (quando il libretto prevede che compaia nelle vesti di pastore, senza alcuna epifania divina), con un’impostazione gestuale tanto manierata e sensuale, così sospirante e languoroso, non solo non ha nulla dell’equilibrio, dell’esattezza, dell’imperturbabilità apollinei, ma rischia di trasformarsi in un Pulcinella della Grecia antica.
Nel programma di sala è presente addirittura un’appendice sulle scelte della pronuncia del latino (indispensabili in sede di ricostruzione filologica come quella che Coin du Roi si prefigge; si tratta di pagine sempre a firma di Frattima), ma al pari del fenomeno storico della pronuncia scelta, che è poi la Ecclesiastica germanica, sarebbe bene attenersi al rispetto delle quantità (in latino è improprio parlare di “accenti”), in modo tale da pronunciare più correttamente le singole parole (Oebalus nel prologo canta suscīpi anziché suscĭpi; Melia nel II coro canta perdīti anziché perdĭti; Apollo nel finale convēnit anziché convĕnit, ma non c’è dubbio che il verbo sia al presente e non al perfetto. Anche nel libretto, pur molto accurato, è rimasta qualche imperfezione, di esito anche divertente: a p. 14, per esempio, la battuta di Oebalus «sub veste pastoris latin» va corretta in «sub veste pastoris latens»). È più che giusto e doveroso che il concertatore si sia dedicato soprattutto alla scrittura musicale, nelle cui numerose fermate è necessaria l’integrazione con cadenze e sviluppi di coloratura; Frattima li ha elaborati personalmente, ma quanto si ascolta è il «frutto di un lavoro artigianale insieme ai cantanti, per cesellare parti adatte alle peculiarità tecniche di ognuno di loro» (p. 60).
Il pubblico non gremisce la pur piccola platea del Teatro Litta, ma chi è presente resta indubitabilmente vinto dalla magia della ricostruzione settecentesca e dall’atmosfera ipnotica del mito sulla bellezza mortalmente ferita, e poi trasformata in fiore. Gli applausi all’indirizzo dell’intera compagnia sono fitti e prolungati, segno di un successo pieno e del tutto meritato. L’augurio è duplice: che Coin du Roi prosegua nel recupero del repertorio preromantico, valorizzando al tempo stesso partiture e teatri, ossia testi e luoghi della storia del melodramma, e che tanto encomiabile lavoro sia riconosciuto dalla piena presenza del pubblico e delle istituzioni. Il prossimo appuntamento (terzo della stagione, dopo il Serse haendeliano dello scorso maggio-giugno tra i teatri Litta di Milano e Goldoni di Venezia) è già fissato per i giorni 11-12-13 dicembre, di nuovo al Teatro Litta, per un dittico pergolesiano di grande interesse: La serva padrona e Livietta e Tracollo. Foto Ernesto Casareto