di Pacifica Artuso
EurArte Edizioni, Varenna (Lc) 2013, pp. 164, ISBN 978-88-95206-32-5.
Nella Letteratura della Nuova Italia Benedetto Croce riservava un piccolo capitolo anche ad Antonio Ghislanzoni, assumendo lo spunto di una fama letteraria – ormai in decadenza – dalla ristampa del 1921 presso Treves del romanzo Gli artisti da teatro (La letteratura della Nuova Italia. Saggi critici, V, Laterza, Bari 19503, pp. 111-118). Se l’intrigo amoroso dell’opera è animato, a detta di Croce, dalla solita «convenzionale falsità», sono altre le qualità importanti dell’autore, che dal taglio di alcune opere è definibile «filosofo della storia» (e non è poco, detto da Croce, in riferimento a pagine di Abrakadabra. Storia dell’avvenire, Brigola, Milano 1884). Ma in definitiva lo storico della letteratura, animato più che altro dall’intento dell’antologista che ricerca il meglio, bolla pur sempre Ghislanzoni come «bizzarro autore» (p. 115), sebbene di tutta la carriera di poeta per il teatro musicale non dica nulla, a parte un’ovvia e rapidissima menzione del libretto di Aida per Verdi.
Che cos’è la bizzarria di uno scrittore dell’Ottocento? È molto difficile sottrarre alle personalità italiane del XIX secolo collegate alla cultura risorgimentale quell’aura di avventatezza, di caotica poliedricità, d’instancabile verve, che nell’età contemporanea si suole spiegare più come difetto formativo che non come chiaro intendimento artistico o progetto intellettuale. Antonio Ghislanzoni non si allontana da tale cliché, al pari di Temistocle Solera, di Arrigo Boito, addirittura di Gaetano Donizetti, di Giuseppe Rovani e di numerosi altri artisti, molti dei quali sono a torto annoverati nell’indistinto gruppo degli “scapigliati”. Croce ebbe il merito di classificare tutti i più importanti autori “della Nuova Italia” con criterio estetico, storicistico, razionale, ma nel Novecento sono comunque prevalse biografie impressionistiche e aneddotiche, restituenti un’immagine volutamente confusionaria, che si coagula quasi sempre nel ritratto del rivoluzionario fallito. Nel caso dei librettisti italiani (e di quelli verdiani in particolare) il giudizio vulgato è sempre stato particolarmente severo, poiché non si è mai risparmiata nessuna critica al loro artigianato letterario (il più delle volte neppure considerato autentica poesia). Pacifica Artuso (d’ora in poi PA) tenta di liberare la fama di Ghislanzoni da questa cappa di pregiudizi, optando per un metodo molto pregevole: comprendere appieno almeno una di quelle numerose scaglie della caleidoscopica vita, tanto significativa da gettare una luce diversa anche sulle altre; e sceglie il Ghislanzoni cantante e baritono, la cui carriera è cronologicamente precedente a quella del librettista, del giornalista, dello scrittore. Il risultato è un libro dalla scrittura piana e godibilissima, strutturato bene e orchestrato ancora meglio, che senza dubbio raggiunge tutti gli scopi prefissi.
PA discorre naturalmente di tutta l’esistenza di Ghislanzoni (1824-1893), ma indaga in modo particolare la prima fase professionale – quando anch’egli era “artista da teatro” – unitamente alla rielaborazione narrativa che il librettista realizzò poi del mondo dei cantanti (appunto con il suo più celebre romanzo, il già citato Gli artisti da teatro), forte di una notevole documentazione originale: «la nostra indagine riparte dal Ghislanzoni baritono, dalla lettura dei periodici musicali dell’epoca, che suscitano perplessità e obiezioni negli storici, a causa di un sistema che non garantiva l’imparzialità di giudizio» (p. 9). Il libro è suddiviso in tre parti: dopo una breve Introduzione (pp. 7-11) prende avvio la prima, che è anche la più ampia, Il baritono (pp. 13-75); seguono Gli artisti da teatro (pp. 76-126) e Verdi visto da Ghislanzoni (pp. 127-158); conclude il volume una generale Bibliografia (che è anche sitografia delle fonti originali, pp. 159-164).
Nel ripercorrere tutte le tappe della sfortunata carriera lirica di Ghislanzoni – iniziata a Lodi nel 1847 con la Luisa Strozzi di Gualtiero Sanelli e conclusasi a Milano nel 1855, quando l’artista ha soltanto trentun’anni – PA intreccia due filoni documentari: le recensioni e le cronache musicali dell’epoca da una parte, i numerosi cenni autobiografici disseminati in quasi tutta l’opera del Ghislanzoni prosatore dall’altra. A interessare di più il lettore è appunto l’autoironico distacco con cui il baritono racconta dei propri fallimenti, dei disinganni del mondo teatrale, delle meschinità e delle intollerabili angherie caratterizzanti la vita di un cantante d’opera nella prima metà dell’Ottocento. Rilevando come Ghislanzoni abbia trasformato il proprio insuccesso vocale in una forte motivazione letteraria, PA consegna al lettore l’immagine di un «sociologo della musica per caso» (per riprendere il titolo di un capitolo centrale del libro, pp. 90-94).
L’ultimo impegno vocale del baritono, Il Templario di Otto Nicolai (risalente al 1840), avrebbe avuto luogo sul palcoscenico del milanese Teatro Carcano. PA riporta il ricordo del diretto interessato: «Il teatro Carcano, che era stato nel 1847 il mio campo di Marengo, si tramutava otto anni dopo nel mio Waterloo. I fischi, le grida, le contumelie che mi investirono mentre io adunava invano gli ultimi residui delle mie note agonizzanti per cantare nel Templario la parte eroica di Briano, m’intimarono di cedere le armi» (p. 65). L’autrice cerca a questo punto di interpretare il testo autobiografico, pubblicato quasi venticinque anni dopo il disastro milanese in Biografie: Angelo Mariani, in Libro serio (Milano 1879), e lo fa con mirabile senso critico: «Quale cantante, nelle sue memorie, avrebbe potuto soffermarsi su un clamoroso insuccesso, offrendo ai posteri l’immagine di un uomo sconfitto? Solo un divo a metà o un personaggio poliedrico con altre frecce al suo arco. Ma anche un baritono dalla cattiva coscienza che paga con i fischi la mancanza di disciplina nel gestire il suo organo vocale» (ibidem). Basterebbe questa sola citazione per comprendere la qualità scientifica della ricerca di PA, lontana sia dalle memorie aneddotiche cui si faceva cenno in apertura sia dagli intenti agiografici, con cui si cerca spesso di salvare, di difendere, di giustificare un personaggio, e di spiegare i suoi fallimenti come conseguenza delle cattive azioni altrui anziché sue proprie responsabilità.
La prima parte si conclude con una domanda, che pare la migliore introduzione alla nuova vita di Ghislanzoni, ossia a tutto quanto accade dopo lo sciagurato 1855: «Si smette mai veramente di essere e di sentirsi dei cantanti lirici dentro? Si perde davvero del tutto la memoria fisica delle sensazioni, anche se si è perduta la voce e si è cambiato mestiere?» (pp. 75 s.). L’interrogativo ha la funzione di instillare il dubbio che l’aspirazione al canto resti immutata anche quando Ghislanzoni si dedica a nuova carriera, e che essa condizioni comunque l’operato dell’uomo. Naturalmente la domanda retorica di PA presuppone una risposta negativa per tutto quel che concerne il librettista, sempre colluso con il teatro musicale; è invece più difficile andare oltre un giudizio impressionistico se si riferisce la stessa risposta alla scrittura giornalistica e letteraria. Senza dubbio, però, già sul finire della prima parte il lettore apprezza uno degli intenti meglio riusciti del libro, ossia dimostrare che la carriera di cantante di Ghislanzoni non sia stata soltanto un romantico capriccio giovanile, una breve parentesi nella vita del letterato e scrittore, ma sia piuttosto il fondamento di tutta la sua esistenza artistica e intellettuale. Non a caso i due titoli più noti di Ghislanzoni sono Aida e Gli artisti da teatro, ossia un libretto d’opera (poesia per il teatro musicale; ne scrisse altri ottantaquattro) e un romanzo di carattere sociologico, tutto dedicato alle disavventure e ai fallimenti della maggior parte dei cantanti lirici della sua epoca. Ed è oltremodo significativo che il protagonista del romanzo, Ernesto Salviani, sia un aspirante tenore, ammalato di eclettismo artistico, discontinuo negli studi e volubile in ogni applicazione culturale. Conviene concedere spazio all’accattivante facilità di scrittura dello stesso Ghislanzoni: «Ingegno versatile e balzano, piegava or all’uno or all’altro studio, con tanta volubilità, che spesse volte i precettori e i parenti e gli amici ne erano allarmati. Oggi si innamorava della poesia, studiava le opere dei grandi poeti, componeva melodrammi, poesie liriche, novelle, e romanzi; domani esaltandosi alla vista di un bel quadro, correva da un maestro per apprendere gli elementi del disegno, comperava una tavolozza e tappezzava la camera di gessi e di modelli; più tardi si procurava un pianoforte, e consacrava l’intera giornata allo studio della musica. La scherma, l’equitazione, il magnetismo, la fisica, lo studio delle lingue, nella vicenda de’ suoi giovanili entusiasmi egli avea disfiorato tutto quanto può far parte dello scibile umano. Vero figliolo del secolo, egli assomigliava ad una di quelle enciclopedie, ove si riassumono gli elementi di ogni scienza, senza che alcuna vi sia compiutamente e profondamente sviluppata» (p. 85).
«Come non scorgere, dietro il ritratto di Ernesto Salviani, il giovane e tormentato Ghislanzoni?» (p. 84). Ma oltre a questa considerazione, tutto sommato prevedibile, la vera intuizione geniale di PA è un’altra, ossia quella di considerare la stessa trama del romanzo come canovaccio di un melodramma che racconta dal suo interno la vita degli artisti: congegnato con la struttura di un libretto, Gli artisti da teatro non è dunque soltanto un romanzo, ma rappresenta anche una sorta di meta-libretto, o meglio ancora di meta-teatro musicale. La curiosità nasce già nel titolo, con quella preposizione “da”: anziché essere artisti di teatro, per nobile appartenenza, gli sciagurati personaggi di Ghislanzoni sono personaggi da teatro, alla stregua di come si dice ‘animali da circo’ o, peggio ancora, ‘fenomeni da baraccone’. Furono originariamente pubblicati a puntate sul periodico «Cosmorama pittorico» a partire dal 1857, ossia appena due anni dopo l’interruzione della carriera di cantante; e sono realmente un’opera molto interessante sul piano narrativo, non a caso più volte ristampata. PA utilizza l’edizione in sei volumi del 1865 (Daelli e C., Milano), poiché corredata di note critico-biografiche che Ghislanzoni aveva raccolto negli anni, e che costituiscono il prezioso commentario, sovente autobiografico, al contesto storico delle vicende di fantasia. Ma il romanzo ebbe continuata fortuna editoriale, se i diritti furono acquisiti da Sonzogno, che tra 1872 e 1930 pubblicò sette edizioni; una versione fu ristampata da Treves nel 1921 e un’ultima si deve all’editore milanese ULTRA nel 1944, per non citare che quelle provviste di datazione (tanto interesse spiega anche perché a quest’opera abbia dedicato un apposito capitolo Folco Portinari in Le parabole del reale: romanzi italiani dell’Ottocento, Einaudi, Torino 1976; ma oggi esiste un saggio più aggiornato, nel libro di Roberta Colombi, Un umorista in maschera: la narrativa di Antonio Ghislanzoni (1824-1893), Loffredo University Press, Napoli 2012).
Anziché operare una precisa sovrapposizione di Ghislanzoni-cantante lirico al personaggio protagonista del Ghislanzoni-romanziere (identificare i personaggi letterari e la loro biografia con quella dell’autore è sempre rischioso, quando non indebito), si può prendere le mosse dagli Artisti da teatro per cercare di comprendere un atteggiamento dominante nell’uomo dell’Ottocento, che troppo facilmente obbedisce a un istinto sentimentale, senza riflettere che questo si traduce poi in una pratica artistica velleitaria e bassamente romantica. La capacità più alta di Ghislanzoni è di mettere a nudo la propria esistenza tematizzandone le vicissitudini, analizzandole in modo spietato e ironico; se si considera come la sua “invenzione letteraria” tenti di essere la sola trasposizione della realtà (per come essa si manifesta all’autore, ovviamente), la conclusione sulla sua scrittura, canonicamente aggiudicata all’ambito della Scapigliatura lombarda, potrebbe precisare meglio una tensione verso il naturalismo di Verga che non verso altre correnti (una riprova di questo avvicinamento è per esempio nella disquisizione sul termine progresso – tipica parola verghiana – che Ghislanzoni inserisce nel già citato Abrakadabra del 1884; non a caso Croce aveva trascritto due paginette di questo libro nel ritratto per la collana laterziana). Ghislanzoni, insomma, formula da sé la sconfitta dell’artista risorgimentale, poiché da cantante, da giornalista, da poeta e librettista, è costretto senza sosta a esternare valori e ideali che il mondo pratico sconfessa; e che la sua stessa analisi sconfessa, riconoscendoli come perduti o addirittura inesistenti.
A proposito della problematica appartenenza scapigliata di Ghislanzoni, appare molto interessante il testo poetico che PA riporta dal Libro proibito (Milano 1878), una raccolta epigrammatica pubblicata quando ormai il fuoco della Scapigliatura stava estinguendosi. Motivo della citazione è la polemica anti-wagneriana (il lettore è ormai giunto al penultimo capitolo, In difesa di Verdi (contro i “wagneristi”), pp. 148-154), con la gustosa strofetta: «Pagnottisti / Metodisti / Wagneristi / Preti tristi / Affaristi / Camorristi / Giornalisti / Son d’Italia gli Antecristi» (p. 149). Autentico epigramma, spiritosamente polemico nei confronti della musica dell’avvenire, il motteggio si conclude con un richiamo al Preludio di Emilio Praga («Casto poeta che l’Italia adora, / vegliardo in sante visioni assorto, / tu puoi morir!… / Degli antecristi è l’ora!»). La satira è sempre più complessa di quel che sembri, perché il frasario sacrilego che Praga aveva rivolto nel novembre 1864 contro Manzoni (il «casto poeta») adesso è scagliato sia contro i fautori di Wagner sia contro i giornalisti (categoria a cui lo stesso Ghislanzoni appartiene, in qualche modo). Tra i libretti del nostro – non va dimenticato – figura anche un titolo ben lontano dalla sensibilità scapigliata di marca più ribelle: I Promessi Sposi, melodramma in quattro atti per la musica di Errico Petrella, rappresentato per la prima volta a Lecco nel 1869; nell’avvertenza Due parole agli spettatori Ghislanzoni riassume i criteri adottati al fine di ridurre il romanzo a libretto, confessando di essersi impegnato per conservare «quella naturalezza e semplicità di linguaggio, di che il Manzoni è maestro insuperabile». Con una simile professione di fede è lecito ipotizzare che nell’epigramma anti-wagneriano anche lo stile della più aggressiva poesia scapigliata costituisca oggetto di canzonatura (se si volesse reperire in Ghislanzoni qualcosa di demoniaco e anti-trinitario si dovrebbe cercare nella caratterizzazione dei suoi personaggi antagonisti, come il Ramfis dell’Aida nella scena del giudizio di Radamès: si veda in merito la recente osservazione di Antonio Rostagno, Opera politica, opera da camera: due letture convergenti di Aida, in Giuseppe Verdi, Aida [“I Libretti” 173], Teatro Regio Torino, Torino 2015, p. 24).
Se la seconda parte del libro di PA esplora la vita del Ghislanzoni letterato con il filtro del suo romanzo meglio riuscito, l’ultima parte è invece un ritratto di Verdi per come ricostruibile dalle numerose e stratificate testimonianze del librettista. In pratica, protagonista è sempre Ghislanzoni, di cui l’autrice decripta le allusioni e interpreta i giudizi propriamente musicali. Tra gli altri, un aspetto del sentire verdiano di Ghislanzoni è profilato assai bene, ed è il fastidio nei confronti di chi tentasse di imitarne le strutture musicali. Non si tratta della difesa di un idolo, quanto di una consapevolezza più spiazzante: negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento, come moltissimi suoi contemporanei, Ghislanzoni non intravedeva plausibili alternative a Verdi per il futuro dell’opera italiana, e ovviamente era prostrato dalla vuotezza e costretto a immaginare. Ma questo non significa che non intuisse come la particolarissima evoluzione verdiana potesse un domani concedere spazio a «un genio progressista, che faccia da sé, che non sia né Rossini né Verdi, né Meyerbeer, né Gounod, ma che, al pari di tutti i grandi, dia alla sua musica una speciale intonazione rispondente allo spirito dell’epoca» (p. 158). La fonte è sempre Gli artisti da teatro; ma questa volta Ghislanzoni, anziché tornare agli amari ricordi del passato, consegna una profezia, forse dotata di una certa chiaroveggenza.