“Aida” al Teatro Regio di Torino

Teatro Regio – Stagione d’opera 2015/2016
“AIDA”
Opera in quattro atti su libretto di Antonio Ghislanzoni
Musica Giuseppe Verdi
Il Re IN-SUNG SIM
Amneris ANITA RACHVELISHVILI
Aida KRISTIN LEWIS
Radamès MARCO BERTI
Ramfis GIACOMO PRESTIA
Amonasro MARK S. DOSS
Messaggero DARIO PROLA
Sacerdotessa KATE FRUCHTERMAN
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia William Friedkin
Scene e costumi Carlo Diappi
Coreografia Marc Ribaud
Ripresa da Anna Maria Bruzzese
Luci Andrea Anfossi
Sagome animate Michael Curry
Assistente alla regia Riccardo Fracchia
Assistente alla scenografia Valentina Dellavia
Direttore dell’allestimento scenico Saverio Santoliquido
Produzione Teatro Regio (2005), in occasione della riapertura del Museo Egizio
Torino, 18 ottobre 2015

Che cosa possono avere in comune un cult-movie come L’esorcista (1973) e l’Aida che ha appena inaugurato la nuova stagione del Teatro Regio di Torino? Quanto meno il regista, quel William Friedkin che fu chiamato a Torino esattamente dieci anni fa per coordinare l’allestimento scenico di Aida, che adesso torna a inaugurare la nuova stagione, arricchito e migliorato da suggestioni autenticamente egizie, sotto gli auspici del riaperto Museo di Via Accademia delle Scienze. Intervistato da Guido Andruetto, l’ardimentoso regista di cinema si esprime in termini di estremo riguardo quando parla di melodramma e di come porlo in scena; può anzi stupire sentirlo dichiarare che «il regista non è sopra gli altri. Diversamente da quanto avviene nel cinema, in una produzione operistica la situazione cambia e seguendo una scala gerarchica viene prima il compositore, poi il direttore d’orchestra, il maestro del coro, il cast, e infine il regista, lo scenografo, il costumista, il coreografo, il direttore delle luci e così via. Per me questo è un interessante ribaltamento di prospettiva» (pp. 58 s. del programma di sala). Chapeau (visto che la dichiarazione, senza dubbio veritiera per il lavoro di chi l’ha rilasciata, rispecchia più un mondo ideale che l’usuale realtà dei fatti).
Ai fini della cronaca piace dunque assecondare l’ordine delle priorità professionali stabilito da Friedkin, e iniziare con il direttore d’orchestra. Gianandrea Noseda, che dal pubblico torinese è amatissimo, ha avuto occasione negli ultimi anni di dirigere più volte Aida (dal debutto pietroburghese di dieci anni fa, quando al Regio la conduceva Pinchas Steinberg) e con esiti differenti (si vedano per esempio le cronache della produzione scaligera dell’ottobre e novembre 2013). Il pubblico è di fronte a un direttore preparatissimo, e dalla grande intelligenza musicale, come si è spesso sottolineato; le sonorità di questa Aida sono per esempio molto pregevoli, sfaccettate ma sempre sotto controllo; non è invece del tutto risolto l’equilibrio dei tempi, tendenti molto spesso all’eccessiva rapidità o, più raramente, all’indugio non motivato (come nel duetto del III atto tra Aida e Amonasro). Alcune scene sono perfette (come quella del trionfo, compresi i ballabili), ma in altre la frenesia cancella ogni nuance più delicata che l’orchestra sarebbe capace di offrire. È come se Noseda ambisse all’equilibrio ritmico, inseguendolo nella struttura portante dei vari numeri, ma perdendone le tracce nelle clausole; non si sfugge mai, purtroppo, al broccardo motus in fine velocior
Il Coro del Teatro Regio, guidato da Claudio Fenoglio, è sempre all’altezza della situazione; quanto a coesione e precisione musicali, la compagine è semplicemente impeccabile. Della compagnia cantante occorre dire subito che si tratta di grandi voci, almeno per il terzetto dei protagonisti, Aida-Radamès-Amneris; ma parimenti bisogna dire che non tutti sappiano fare buon uso dell’abbondanza dei propri mezzi vocali. A cominciare dall’interprete protagonista: Kristin Lewis è un soprano senza dubbio dotato di strumenti notevoli; eppure la sola voce non è sufficiente a garantire una grande interpretazione, soprattutto in un ruolo complesso come quello di Aida. Il registro è pressoché spezzato in due, con effetto negativo sull’intera linea di canto; la voce, dal timbro opaco, è capace di espressioni elegiache anche molto pregevoli, di buone mezze tinte e di filature, ma difetta di omogeneità e di tenuta nelle note acute (la puntatura sembra sempre un singhiozzo, la messa di voce un grido); parimenti si percepisce una certa qual debolezza delle note basse.
Marco Berti è Radamès; se l’emissione tenorile risulta abbastanza fluida, permettendo alla voce anche un certo squillo (privo però di finezza), il timbro risulta invece scabro e difforme, così come l’intonazione, discontinua già nel corso dell’iniziale «Celeste Aida» e corriva al portamento. Sul piano interpretativo non si può parlare propriamente di fraseggio, perché Berti preferisce scandire forte ogni parola, così da penalizzare l’espressività dei singoli versi. La tendenza ad arrotondare ogni suono vocalico non disturba l’ascolto, ma è un ulteriore limite alla varietà espressiva. Premesso tutto questo, non è comunque condivisibile la contestazione, piuttosto insistita, che una parte del pubblico del Regio ha riservato al tenore al termine dello spettacolo; non in quanto forma di dissenso (che anzi denota attenzione critica, e che lascia stupefatti tanto più a Torino, dove le contestazioni sono rarissime), ma in rapporto ad altre recite, con altra compagnia, nelle quali non si è registrato nulla del genere (si veda la recensione di Marco Leo al cast alternativo di questo stesso allestimento). In breve, Berti ha subito un trattamento impari rispetto alle sue effettive responsabilità, semplicemente perché non è piaciuto ad alcuni (e ne è rimasto visibilmente mortificato); altri professionisti, invece, pur avendo cantato in modo davvero discutibile, sono usciti indenni dalla valutazione di fine spettacolo; ennesima riprova della multiformità di ciascun pubblico.
L’Amneris di Anita Rachvelishvili è senza dubbio il personaggio meglio riuscito, grazie all’impostazione dell’interprete e alla sua crescita artistica degli ultimi anni: rispetto al recente passato la linea di canto è molto più controllata, il timbro più omogeneo e la voce più autorevole. Se alla cavata robusta e potente si aggiungono la figura scenica altezzosa (comme il faut), la recitazione appassionata, l’impegno nel fraseggio e nella dizione, si ottengono i contorni di un’interprete di altissima qualità. È significativo che l’applauso più intenso e prolungato di tutta la recita sia stato al termine del duetto del IV atto tra Amneris e Radamès. Chi frequenta le produzioni del Teatro Regio da molti anni sa bene che il baritono Mark Doss ha toccato a Torino alcune tappe importanti della sua carriera: dal Mustafà dell’Italiana in Algeri del giugno 2000 (ruolo che curiosamente non è neppure menzionato nel repertorio della pagina internet ufficiale dell’artista; forse per damnatio memoriae?) al Capitano Balstrode del Peter Grimes del marzo 2010, dal Fliegende Holländer dell’ottobre 2012 all’Escamillo della Carmen nel novembre dello stesso anno. Ma, evidentemente, per Amonasro occorre qualcosa di diverso, che oggi sembra difficilmente ritrovabile nella sua performance: la voce di Doss (classe 1957) è infatti legnosa, veicolata da un’emissione affaticata, e soprattutto troppo leggera rispetto alle esigenze della scrittura verdiana; per questo il cantante è costretto a forzare, andando incontro anche a piccole oscillazioni. Il Ramfis di Giacomo Prestia garantisce sempre convincente risonanza, anche se la voce è soggetta a qualche oscillazione. Buoni i tre comprimari In-Sung Sim, Dario Prola e Kate Fruchterman nei rispettivi ruoli del Re, del Messaggero e della Sacerdotessa. Le coreografie di Marc Ribaud riprese da Anna Maria Bruzzese (come già nel 2005) sono magnifiche nella loro semplicità: in primo luogo la grazia ha il pregio di derivare dallo spirito musicale verdiano, senza pretese narrative (come se il balletto interno a un’opera dovesse trasformarsi in un completamento della vicenda, o addirittura in una contro-storia); in secondo luogo i danzatori scritturati per l’occasione sono un gruppo coeso e abilissimo, senza parti protagonistiche e senza ruoli accessori.
E ora giunge il momento anche per il regista. Nel rispetto delle tradizioni scenografiche di Aida, William Friedkin sceglie almeno una prospettiva peculiare, quella dell’architettura. Ogni quadro scenico è infatti strutturato da una precisa impostazione architettonica, quasi sempre riconducibile all’edificio sacro e ai suoi stilemi, al tempio nella sua prospettiva interna o esterna, e dunque all’elemento portante della colonna e dell’architrave. Tale scelta di base garantisce una scansione regolare di spazi pieni e vuoti, senza però cadere nella tentazione di indorare ogni superficie, fino ai limiti del buon gusto, o di intenderla come puro piano praticabile da innumerevoli figuranti. Al contrario, nell’Aida di Friedkin si mantiene un costante bilanciamento di “sobria monumentalità”, che tenta di attenuare la differenza forte tra i primi due atti e i secondi due, ossia tra la metà pubblica, solare, colossale, e la metà intimistica, notturna, solitaria. Questo tentativo di conferire unità narrativa a partire dall’unità degli spazi e dei loro stili non è affatto idea banale, e non è neppure mero ossequio alla tradizione; esso ha la funzione di rendere ancor più stridente il confronto tra la solidità impietosa del potere politico e l’assurdità della vicenda personale di tradimento e morte dei protagonisti. In altre parole, Friedkin rinuncia a escogitare soluzioni psicologiche o spettacolari della storia di Aida, per lasciarne nudi i conflitti, oscuri e porosi come le colonne dei templi egizi.
Il rosso cinto della stessa Aida (non già il serto regale, che resta nelle aspirazioni del sognatore Radamès) è l’oggetto feticcio che dà avvio e pone fine alla regia dell’opera: sulle note del preludio Aida lo consegna al guerriero, come pegno d’amore, mentre al termine del duetto nella tomba sotto la fatal pietra è Radamès a lasciarlo cadere nell’ultimo cono di luce, mentre si avvia con la donna sul fondo buio; quella cintura sanguigna è il simbolo d’una passione terrena delusa dagli eventi e sopraffatta dalla morte, ma sempre in grado – per nostra fortuna – di rivivere e di infondere pietà, di recita in recita.   Foto Ramella & Giannese © Teatro Regio Torino