Teatro Massimo – Stagione Lirica 2015
“LA BOHÈME”
Scene liriche in quattro quadri. Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Mimì MARIA AGRESTA
Rodolfo GIORGIO BERRUGI
Musetta LANA KOS
Marcello VINCENZO TAORMINA
Colline GIANLUCA BURATTO
Schaunard SIMONE DEL SAVIO
Benoît / Alcindoro MARCO CAMASTRA
Parpignol DOMENICO GHEGGHI
Sergente dei doganieri GIANFRANCO GIORDANO
Un doganiere ANTONIO BARBAGALLO
Un venditore di prugne CARLO MORGANTE
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Pier Giorgio Morandi
Maestro del Coro Piero Monti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Mario Pontiggia
Scene e costumi Francesco Zito
Luci Bruno Ciulli
Allestimento scenico del Teatro Massimo di Palermo realizzato dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Palermo, 18 settembre 2015
Atmosfere da gran soirée per l’attesa prima de La Bohème, andata in scena venerdì sera al Teatro Massimo di Palermo. Contribuisce la sensazione di ripresa dopo i mesi di pausa estiva, quest’anno particolarmente pesanti per l’eccezionale afa che tuttora non sembra allentare la sua morsa su Palermo. Nonostante le temperature inopportune, mise in lungo e giacche scure per omaggiare due ospiti di eccezione: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Presidente del Senato Pietro Grasso, accolti nel palco reale dal sindaco Leoluca Orlando e dal sovrintendente Francesco Giambrone. Aria di novità anche all’esterno, dove un maxischermo ha permesso a più di 600 persone di assistere allo spettacolo, al prezzo simbolico di 1 euro. Il teatro ha così ribadito il proprio ruolo nel tessuto urbano, aprendosi alla cittadinanza con questa iniziativa e annullando ogni filtro con il resto della città. Emozione dunque condivisa sia dal pubblico presente in sala sia dagli spettatori seduti all’aperto, uniti insieme nell’intonare l’inno di Mameli che l’orchestra ha eseguito prima di dare inizio all’opera. Un omaggio sentito che ha trovato ulteriore conferma nella buona riuscita della rappresentazione, sostenuta da un allestimento ispirato, ottimo cast e maestranze al meglio delle proprie possibilità.
Sebbene sia forse eccessivo lo spazio che sempre più nelle recensioni si dà alla parte registica e scenica a scapito della componente musicale, in questo caso è necessariamente dalla prima che si deve partire per comprendere la seconda. Per il regista Mario Pontiggia il significato ultimo dell’opera si riassume infatti in due parole: giovinezza e libertà. Di conseguenza i momenti più curati dello spettacolo sembrano proprio quelli improntati a spensieratezza e vivacità. Questo aspetto risulta chiaro sin dalle prime battute, nei dialoghi fra i quattro amici e nell’incontro con Benoît (l’efficace Marco Camastra, anche nel ruolo di Alcindoro), ma soprattutto raggiunge il culmine nel secondo quadro. La ricostruzione del Quartiere Latino è qui accarezzata dalle soluzioni di Francesco Zito, che esprime il consueto buon gusto sia nelle scene che nei costumi. Zito combina un gran numero di materiali, producendo sinestesie di indubbio fascino: tra un fruscio di seta, lo sfavillio di un cristallo e la morbidezza dei velluti il quadro sprigiona tutte le sue potenzialità. L’effetto complessivo non travolge i singoli dettagli, anzi li esalta con maggiore vigore: sulla sinistra la Chapellerie et Modes Chez Coco, nello sfondo le tipiche insegne della Parigi di fine Ottocento, in primo piano giocattoli, piume e cappelliere. Incorniciato da questi elementi è al centro il caffè Momus, con pensilina a conchiglia e rifiniture in stile liberty. Il quadro scorre con fluidità grazie anche al contributo dello straordinario Coro di voci bianche, intonato, musicalissimo e sempre a tempo. Pressoché inutili i tentativi del Coro del Teatro Massimo di tenerlo a bada, sia nella scena con Parpignol – interpretato dal buon Domenico Ghegghi, accanto al venditore di prugne Carlo Morgante – sia nel finale. Ma pur inciampando in qualche punto, la compagine corale diretta da Piero Monti ne viene fuori con naturalezza e dimostra ancora una volta di muoversi agevolmente tra le pagine pucciniane.
La concertazione di Pier Giorgio Morandi è nel complesso convincente, ma proprio in questo quadro accusa qualche difficoltà, con incastri ritmici non sempre a segno e sfasature nella calibratura dei tempi. Eppure non si sarebbe onesti se non si riconoscesse a Morandi e all’Orchestra del Massimo il merito di aver costruito nota per nota l’impalcatura che ha contribuito a garantire la riuscita dello spettacolo. Ed è significativo sottolineare come il fattore di maggior interesse di questa Bohème derivi proprio dalla divergenza di letture. Se infatti Pontiggia rimarca il gusto spensierato della vita bohémienne, Morandi ci ricorda ad ogni colpo di bacchetta la malinconia che a quel mondo è sottesa. Di una partitura sempre ricca di inaspettati tesori il direttore riesce infatti a esaltare i momenti lirici, allargando il suono con veemenza e ampio pàthos. Le molte ‘morti’ che costellano la narrazione sono quindi sottolineate in egual modo, in virtù della medesima statura musicale che le caratterizza. Si va quindi dal delicato spegnersi del dramma di Rodolfo, al trapasso del povero pappagallo avvelenato, sino alla morte conclusiva di Mimì (anche questa delicata e soffusa, pur causando una reazione fra le più tragiche del teatro musicale di ogni tempo). Nel suo compito Morandi è confortato dalle luci di Bruno Ciulli, che attraverso la vetrata del primo quadro sviluppa con maestria il lento diradare dal tramonto alla notte. La Bohème è infatti opera del crepuscolo, come lo saranno in modo diverso tutte le opere pucciniane. Ma soprattutto essa rivela il suo volto più doloroso nella barriera d’Enfer, all’interno di un quadro che si segnala fra i più convincenti dello spettacolo. In questo caso non sono solo le splendide scene e il gioco di luci a rendere l’impressione di un mondo ovattato, immobile e dolcemente protetto dalla neve, ma soprattutto l’abilità di Pontiggia nel calibrare i movimenti e distribuire razionalmente gli spostamenti dei personaggi. E l’orchestra rincara la dose, offrendo timbri preziosi e sfumati, in particolare legni e archi esaltati dall’intelligenza interpretativa del direttore.
Fra gli alleati della lettura malinconica abbiamo pure i personaggi dell’opera, per lo meno la maggior parte di essi. Malinconico è il Rodolfo di Giorgio Berrugi, che assolve al suo compito con diligenza e scrupolosità. Il timbro è coinvolgente e la voce calibrata, ma in più occasioni il tenore sembra distante dal suo personaggio e all’inizio evidenzia un volume troppo sottile per sovrastare con convinzione il suono orchestrale. Non appena però le sonorità si smorzano, Berrugi acquisisce maggiore sicurezza e riprende confidenza sia scenica che vocale, esibendo tecnica sicura nella prima aria (“Che gelida manina”) e brillando nel terzo quadro dove riesce a trascolorare in modo appassionato dalla gelosia (“Mimì è una civetta”) alla successiva dichiarazione d’amore (“Ebbene no, non lo son”). Lo affiancano due amici fidati e parimenti disillusi, quali Colline e Schaunard. Il primo trova in Gianluca Buratto una voce di spessore e impatto, a suo agio sulla scena e nella performance complessiva, ma un po’ su di giri in “Vecchia zimarra”, che dunque per troppa irruenza arriva a disperdere l’effetto desiderato. Il più disimpegnato è apparentemente il musicista Schaunard, ma in realtà è lui a predire i “dì tenebrosi e oscuri” che si realizzeranno nel finale. Simone Del Savio si segnala per un’interpretazione decisa e accattivante: bello il fraseggio, intensa la partecipazione, chiara la dizione. Perfino la vaga Musetta è venata di un’ombra di mestizia. La linea canora di Lana Kos esprime questa intenzione, sfuggendo dalle vezzosità spesso associate al personaggio, ma non controllando i mezzi vocali sugli acuti più proibitivi che talvolta virano al grido. In due occasioni pasticcia pure con le parole, anticipando un verso nel quarto quadro, annullandone uno nel terzo. Le sue toilette sono tuttavia invidiabili, in particolare lo splendido abito del secondo quadro e il delizioso copricapo del quarto.
L’ago della bilancia propenderebbe quindi per il versante malinconico, se non salissero sul piatto Marcello e Mimì. Sono proprio loro a dare man forte alla lettura di Pontiggia, con un peso artistico talmente significativo da rompere qualsiasi equilibrio con l’altra faccia della medaglia. Ben nota al grande pubblico, Maria Agresta conferma la propria fama di interprete pucciniana, costruendo il personaggio esclusivamente attraverso la voce. I gesti sono infatti scarni e misurati, quasi inesistenti; ma quello che il soprano riesce a fare con il canto è straordinario e raggiunge diversi apici di espressività. Incantevoli i filati nelle due arie, soprattutto in “Sì, mi chiamano Mimì”, dove anche la tenuta di fiato si libera di ogni vezzo puramente tecnico per trasformarsi in catalizzatore di emozioni. La bravura del soprano si evidenzia in ogni passaggio dell’opera, realizzando quanto scrive il compianto Nino Titone nel contributo incluso nel programma di sala: “la sola persona veramente viva, in Bohème, è Mimì”. Viva è quindi la Mimì della Agresta, a tratti smaliziata, un po’ civetta e amante del lusso, ma intensamente attaccata a quella vita che lei stessa vorrebbe infondere nei fiori senza odore confezionati dalle sue fredde dita. Nel proclamare questo amore per la vita Mimì non è però sola, ma è affiancata dall’insospettabile Marcello. Marcello è infatti incarnazione perfetta dell’idea di Pontiggia. Libertà e giovinezza costituiscono il suo credo, più volte dichiarato nel corso dell’opera. Ed è attraverso l’interpretazione di Vincenzo Taormina che tutto questo si realizza. Taormina conferma le ottime impressioni delle precedenti prove sul palcoscenico del Massimo, sviluppando un personaggio a tutto tondo, con voce proiettata, canto affascinante e recitazione spigliata. E non è forse un caso che il suo canto diventi improvvisamente dimesso all’inizio del terzo quadro, l’unico momento in cui Marcello deve affrontare da solo malinconia e tristezza. Egli è lieve, e così vuol vivere le sue scènes de la vie de bohème. Nell’abbraccio finale con Musetta si ripropone il messaggio di libertà e speranza, sottolineato dalla statua sullo sfondo che indica verso l’infinito, nonché dall’inaspettata prevalenza dei toni del bianco. Pensiero profondo quello di Pontiggia, di Zito, del cast, degli assistenti tutti, dell’orchestra e del direttore; ma è alle valide maestranze del Massimo, al reparto scenografia e sartoria, che stavolta si vuol riconoscere il giusto color. Repliche sino al 27 settembre. Foto Franco Lannino