Sotto i suoi occhiali, Giovanni Romeo ha uno sguardo parlante che ricorda, in maniera piacevolmente identica, quello del suo maestro Enzo Dara; con lui condivide, a dispetto della giovane età, l’arte di un coinvolgente e martellante sillabato. Il nostro incontro, avvenuto al Teatro alla Scala durante le ultime prove del Barbiere di Siviglia nello storico allestimento di Jean Pierre Ponnelle, al quale Giovanni ha preso parte come Don Bartolo con il Progetto Accademia, è all’insegna di una straordinaria affabilità, anche perché l’intervistato ha dalla sua una vivissima estrosità. Quando però mi mostra orgoglioso gli occhiali utilizzati da Enzo Dara in questa medesima produzione nel lontano 1972 e che il Maestro gli ha donato capisco che l’occasione è ghiotta e la posta in gioco della nostra chiacchierata è alta: non solo la toccante umiltà con cui un allievo raccoglie l’eredità di un Maestro ma anche un crogiuolo di esperienze professionali e umane coinvolgenti e stimolanti. Chi desidera può leggere in questa intervista solo un modo per ricordare l’intramontata arte di Enzo Dara, altri spero vi vedranno il racconto di una vita rapita dalla musica di Rossini che ha trovato nell’arte di un grande maestro uno strumento umanamente straordinario per raggiungere la sua completa realizzazione.
Giovanni, tu sei nato e cresciuto qui a Milano. Che rapporto hai con questa città?
Da milanese D.O.C., devo dirti che ho un rapporto bellissimo con la mia città, ricco di aneddoti e ricordi che si intrecciano e sovvengono alla mente quando passeggio per i giardini pubblici, passo al Marchesino per un caffè, una vera tradizione milanese, o faccio una passeggiata in centro. Mia nonna paterna ci abitava e il pranzo del sabato a casa sua era un punto fermo della settimana; lei ci faceva trovare sulla tavola i classici lombardi come risotti e spezzatini al sugo con patate. Con lei mio padre parlava in dialetto, quello vero, stretto e difficile da capire; io l’ho assimilato, continuo a parlarlo e a far vivere questa tradizione in una Milano dove fatico a trovare milanesi autentici che lo coltivino come mezzo di espressione.
Molti grandi artisti, come sai, hanno denunciato le lacune di questa città. Claudio Abbado, solo per citarne uno, ha sempre lamentato l’assenza di polmoni verdi. Secondo te, che cosa manca a Milano?
Manca il rispetto per se stessa, niente di diverso da quello che in fondo già denunciava Abbado anni fa. Alla base dell’assenza degli spazi verdi c’è in fin dei conti una città che fatica a rispettare se stessa e i suoi abitanti. Dal rispetto per l’ambiente nasce il rispetto per l’uomo. Mi pare che Milano abbia rinunciato, diventando una grande metropoli internazionale dove tutto corre veloce e accelerato e dove la vita quotidiana è ridotta ad una mega fabbrica di produzione usa e getta. Questo è inevitabilmente la negazione del rispetto, quello invano predicato da Abbado e che infondo traspariva anche dalle sue produzioni: il rispetto per la musica e, soprattutto, il rispetto per l’uomo.
Che cosa ti ha dato Milano?
Milano mi ha dato praticamente tutto: gli studi, la scuola elementare, il liceo e poi qualche anno di università, le persone del quotidiano, i primi rapporti con le note, con la musica, con il pentagramma e in ultimo la mia prima insegnante di canto, Cristina Dominguez; se non fossi stato qui a Milano probabilmente non l’avrei mai incontrata. E poi questa è stata una città amata da Rossini, che scrisse proprio per la Scala la sua prima opera importante, la Pietra del paragone nel 1813, Donizetti e Verdi, che a questa città ha dato tutto, persino la sua stessa vita. Ora, cantare qui alla Scala, in un teatro che è diventato il simbolo di Milano per eccellenza, per me è un sogno meraviglioso, un’occasione che in qualche modo suggella il mio rapporto con questa città.
Che cosa, invece, ti ha dato la musica per sceglierla come parte fondamentale della tua vita?
Tantissimo, anche se fino ai quindici anni non avevo avuto alcun rapporto con lei. Ogni tanto ascoltavo musica sinfonica, l’opera lirica mi faceva drizzare le antenne però, non avendo ricevuto stimoli particolari da parte dei miei genitori, forse anche perché non sono figlio d’arte, non l’avevo mai coltivata. Credo però che a questo punto occorra mettere un po’ d’ordine. Prima della musica è arrivato il teatro, la mia passione viscerale per il teatro e la recitazione. Fin da piccolo mi piaceva stare al centro dell’attenzione, interpretare dei personaggi, spesso e volentieri affini per carattere a quelli che interpreto anche ora: gli antagonisti, personaggi comici, certo, ma infondo di dubbio carattere! Interpretavo tutti indistintamente, maschi, femmine, personaggi dei cartoni animati della Disney, ad unica condizione che fossero antagonisti! L’incontro con la musica è arrivato con l’incontro con mia insegnate di canto. Avevo quindici anni e all’epoca stavo facendo un trasloco con la mia famiglia. Nel riaprire alcuni scatoloni, emersero alcune vecchie musicassette di mio padre. Cominciai a cantarci dietro con una voce da soprano, anche perché a quindici anni non sarebbe potuto essere diversamente, e poi manifestai a mia madre il desiderio di studiare canto. Aprii le pagine gialle, scelsi a caso la scuola di musica privata più vicino a casa e lì conobbi quella che è la mia attuale maestra di canto, che ha fatto nascere la parte musicale e teatrale di Giovanni Romeo.
In sostanza i tuoi primi approcci con la musica lirica coincidono con il periodo della scuola…
Sì, ma pare ci sia stata anche una fase precedente: mio padre, che ha un amore viscerale per Luciano Pavarotti, mi raccontava che quando avevo quattro anni e si andava in giro in macchina, inseriva nell’autoradio le cassette con le romanze più celebri del tenore. Così quando Pavarotti sparava l’acuto del Nessun Dorma io lo facevo con lui; non so che suono emettessi, probabilmente soltanto uno strillo da poppante! Ad ogni modo, subito dopo, finita la prestazione vocale, mi addormentavo.
Riuscivi a condividere con qualcuno la tua passione per l’opera?
Non certo con i miei compagni di scuola. Loro ascoltavano musica commerciale e io ero la pecora nera del gregge bianco, uno controcorrente a cui piaceva sviscerare argomenti che per gli altri erano scomodi. Non mi aiutavano certo le ore di musica, sempre poche e sempre viste come momenti di ricreazione collettiva. Il nostro è il paese della musica e soprattutto dell’opera, che il mondo ci invidia e che noi dimentichiamo! Bruno Praticò, ad esempio, è fermamente convinto che l’opera lirica sia il modo migliore per far conoscere la nostra bellissima lingua al mondo. Ho avuto la fortuna di cantare all’estero, prima ancora che in Italia, le opere per i bambini: la prima esperienza in questo senso è stata a Tenerife con il Don Quichotte di Massenet, dove interpretavo Sancho Panza e ho dovuto imparare i dialoghi in spagnolo; poi La Cenerentola in tedesco a Salisburgo, dove i bambini conoscono davvero l’opera, cosa che qui purtroppo non avviene… e questo mi da’ tanta tristezza! Il nostro paese, che ha creato l’opera, non la insegna e non la trasmette alle nuove generazioni! All’estero, invece, è un patrimonio comune e condiviso.
Quando studi un’opera sei solito affiancare allo studio sullo spartito una fase più prettamente musicologica…
Intendiamoci, lo faccio un po’ da dilettante, poiché non ho avuto l’occasione di approfondire seriamente degli studi musicologici. Ho avuto però la fortuna di incontrare degli ottimi insegnanti, sia al liceo che al conservatorio. Da loro ho capito la necessità di non fermarsi al pentagramma e di andare oltre. Mi piace molto, per esempio, comparare le varie edizioni di uno spartito, ivi comprese ovviamente quelle “critiche” che fanno chiarezza su molti aspetti della prassi esecutiva e mirano a ripristinare il rispetto per le volontà del compositore, evitando quel minestrone generale nel quale per decenni abbiamo fatto l’errore di cadere. L’edizione critica ha poi un’altra grande peculiarità, quella di non farci dimenticare il passato. Nel caso del Barbiere, per esempio, ha ritrovato posto nell’appendice l’aria alternativa di Bartolo Manca un foglio, quella che per circa un secolo ha sostituito A un dottor della mia sorte, all’epoca eclissata in ragione della evidente difficoltà e dell’inadeguatezza dei bassi buffi, parti troppo spesso sottostimate e affidate a cantanti di secondo livello. Trovo anche importante conoscere le fonti letterarie delle opere che interpreto e non interpreto. Questo significa, ad esempio, che non posso studiare la Traviata senza leggere e conoscere prima la Dama delle camelie, o il Barbiere, sia esso di Rossini o Paisiello, senza conoscere Beaumarchais. Un semplice approfondimento dei rapporti fra letteratura e musica dovrebbe essere una prassi diffusa fra i miei colleghi, ma purtroppo devo spesso constatare che non è così. Eppure, in questo mondo ipercaro o, per dirla all’inglese, “expensive” i libri sono fra le poche cose ad avere ancora un prezzo abbordabile.
Giovanni, vorrei dedicare una parte di questa intervista, se sei d’accordo, ad Enzo Dara, con cui tu ti sei perfezionato e a cui devi tanto…
… Certo, è stato lui ad estirpare “il demonio” del basso buffo dal mio corpo! [ride, n.d.r.] Fino ad allora, avevo studiato in tessitura più o meno baritonale, cantando spesso Mozart e più sporadicamente repertorio romantico, Donizetti o i Puritani di Bellini, anche per approfondire il famoso legato di cui tutti parlano. Conobbi Dara nel 2009 in occasione di una masterclass promossa dal conservatorio di Milano: mi ascoltò in Malatesta e in qualche brano mozartiano e mi invitò ad Aulla, dove avrebbe tenuto una nuova masterclass; per quell’occasione mi pregò di iniziare a guardare qualche aria rossiniana. Per me era un repertorio completamente sconosciuto; il primo brano su cui lavorammo fu l’aria di Pacuvio dalla Pietra del paragone, Ombretta sdegnosa del Missipipì. Da quel momento in poi l’ho portata in tutti i concorsi ai quali ho partecipato e che ho vinto e se ora studio all’Accademia di perfezionamento della Scala lo devo ancora a quell’aria. Pereira e Gradsack, il direttore casting della Scala, l’hanno inserita praticamente nei programmi di tutti i concerti che ho fatto. Così è iniziato il mio amore viscerale per Rossini e ho iniziato a studiare prima Germano e Gaudenzio fino ad arrivare poi alle arie e ai ruoli di Taddeo, Don Magnifico e Bartolo.
Che tipo di lavoro facevate con Enzo Dara durante le masterclass?
Il maestro ha un ottimo orecchio ma, soprattutto, ha un enorme rispetto per il lavoro tecnico che era stato fatto dai rispettivi insegnanti di tutti i partecipanti. Ricordo che quando non era convinto di alcuni suoni, magari troppo aperti o chiusi, ci suggeriva sia un modo per risolvere il passaggio ma soprattutto ci raccomandava di parlarne sempre con l’insegnante che aveva costruito la tecnica. Con lui si lavorava molto sull’interpretazione dei personaggi, soprattutto a partire dalla scuola ponnelliana e in forza anche della sua esperienza registica, radicata proprio in questa tradizione tutta fondata e calcolata sulla musica e soprattutto sul rispetto della fisicità dell’interprete.
Ricordi un aneddoto in particolare?
Ritorniamo alla Masterclass di Aulla del 2009. Nell’albergo dove soggiornavamo c’era un gruppo di ragazze, davvero molto carine, che seguiva la moda dell’epoca: portare i laccetti del perizoma fuori dai pantaloni. Io e il maestro ci davamo appuntamento ogni mattina alle 7 per la colazione. Ricordo che una volta sono comparse quelle ragazze e il maestro, attaccato alla bellezza della vita e della donna, guardandole da dietro, illuminato in volto e con un’aria da sornione e un enorme sorriso di felicità esclama: «me’ cojoni!».
Che cosa rappresenta, in sintesi, per te Enzo Dara?
Enzo Dara è un gradissimo punto di riferimento musicale e interpretativo. Avendolo conosciuto direttamente sia come insegnante che come regista, perché il mio debutto è legato ad una sua regia [la Serva Padrona di Paisiello nel 2010, n.d.r.], posso dirti che la sua vera grandezza è la sua umanità. Dara ha annientato il divario che c’era fino a quel momento fra artista ed essere umano, ha insegnato al mondo della lirica che l’artista e l’uomo non sono due entità separate e che la classe di un artista non è tale se non corrisponde nel quotidiano a quella dell’uomo. L’artista esiste perché esiste l’uomo: è questa la grande lezione umana che Enzo Dara ha trasmesso ai suoi colleghi, non ultimo Claudio Abbado, e ha lasciato al mondo della lirica.
Citavi prima il caso della regia approntata da Enzo Dara per la Serva Padrona. Essere cantanti è funzionale alla regia di sé e di altri?
Essere cantanti aiuta, certo, ma infondo è una questione di indole naturale come naturale è l’istinto teatrale; può invece non essere facile trasmettere la teatralità ad altri e in questo aiuta tanto l’aver lavorato nel corso della propria carriera con dei registi che ti hanno lasciato qualcosa. Dara, certo, non è stato il primo dei cantanti ad essersi cimentato nella regia; mi vengono in mente anche i nomi di Bruscantini e Gobbi, ad esempio. Dara non si sente pienamente regista, fa bene regia perché evidentemente ha lavorato con grandi registi, fra i quali Ponnelle e Strehler. La vera fortuna di questo mestiere sta nella possibilità di imparare l’arte da chi l’ha imparata prima di te, un po’ come avveniva nella Commedia dell’Arte dove Arlecchino lasciava ad un suo giovane allievo i segreti dell’interpretazione del personaggio.
Immagini un tuo futuro da regista? Hai già qualche idea in questo senso?
Forse è un po’ presto per pensare a questo tipo di futuro, però non ti nascondo che l’idea mi stuzzica tantissimo. La mia immaginazione corre e alcune idee mi vengono dalle sinfonie delle farse rossiniane, forse perché sono scritte benissimo e alcuni disegni strumentali sembra contengano già alcuni nuclei drammatici che verranno sviluppati nell’opera. Provo a farti capire con un esempio: nei colpi d’arco sulla cassa del violino nella sinfonia del Signor Bruschino, io ci vedo le sculacciate che prende Bruschino figlio per aver combinato marachelle. Su questa cosa, forse stupida, uno che ha un istinto teatrale ci lavora e magari ci sviluppa una regia. Non so dirti se mai lo farò, tutti dicono però che ho un istinto teatrale innato; non avendo mai studiato recitazione a livello professionistico posso assicurarti che è solo un dono di natura! Chissà… forse un domani potrebbe aiutarmi a cimentarmi nella regia.
L’insidia della vocalità del basso buffo, si sa, è il sillabato. Ci dai la tua ricetta per risolverlo felicemente?
La ricetta non è mia, ma di un grandissimo baritono con cui ho avuto l’onore di studiare, Alessandro Corbelli. Lui mi diceva che il miglior modo per studiare un sillabato, sia esso monofonico o melodico, come quello di Bartolo, è il lavoro da principio lento e minuzioso sul legato; solo dopo che questa fase è conclusa è possibile cominciare a velocizzare e comprendere dove posizionare gli accenti. Spesso e volentieri Rossini è talmente bravo che riesce a far coincidere l’accento musicale con l’accento della parola: questo, ad esempio, facilita tanto il sillabato di Bartolo Signorina un’altra volta quando Bartolo andrà fuori che, se non fosse scritto così, sarebbe praticamente impossibile. Cimarosa, al pari di altri autori stilisticamente affini a Rossini, non ha altrettanta minuzia e precisione.
Hai sempre sperato di cantare questo repertorio oppure avresti preferito altri ruoli?
Quando cominciai ad ascoltare le registrazioni dei grandi baritoni, come Piero Capuccilli, ad esempio, o altri che avevano più o meno il suo stesso repertorio, sognavo per me un futuro da baritono verdiano. In cuor mio però le mie attenzioni continuavano ad essere rivolte a Mozart e, in particolare, alla trilogia dapontiana. Rossini è arrivato dopo, ma quando è arrivato mi ha allontanato da Mozart. Nella testa e nell’anima ora naviga un trittico di nomi composto da quei due di cui ti ho detto e Haydn. D’altronde, se non ci fosse stato Haydn non ci sarebbe stato Rossini, considerato che quest’ultimo quando studiava composizione a Bologna lavorava sulle partiture del compositore austriaco.
La tua indole e il tuo carattere ti aiutano nel lavoro interpretativo sui personaggi che studi?
Tantissimo. Nelle relazioni con gli altri amo far divertire e divertirmi, in sostanza fare un po’ il gigione; questa parte del mio carattere molto scherzosa, molto incline alla maschera, ironica e autoironica, mi aiuta tantissimo nel lavoro interpretativo sui ruoli buffi; d’altronde se non ti diverti, se non usi questa verve comica che soltanto Madre Natura ti ha dato, non puoi proporre un ritratto valido di Bartolo o Magnifico. A questa parte del mio carattere ne corrisponde però un’altra che è totalmente opposta, d’altronde tutti i grandi buffi hanno un lato molto drammatico, molto triste. Così nelle quattro mura di casa sono spesso molto serio e controllato, soprattutto con le persone con cui ho più intimità di rapporto. Veniamo ora, brevemente, al tuo Barbiere scaligero. Al cast, formato dai tuoi colleghi dell’Accademia della Scala, si sono aggiunti due “senior” di eccezione percui ti sei ritrovato a cantare al fianco di Leo Nucci e Ruggero Raimondi. Come sono da vicino le loro voci?
Il primo aggettivo che mi è venuto in mente mentre formulavi questa domanda è “enorme”, soprattutto nel caso di Raimondi. Nonostante l’età e sebbene abbia perso la freschezza di un tempo, grazie alla tecnica la voce è sempre enorme e gli acuti sono sicuri. Canta ancora la Calunnia in Re, d’accordo in parte in ragione del suo particolare registro di basso-baritono, ma sentire i suoi fa diesis ancora praticamente intatti, rimbombanti e con la giusta proiezione è fantastico! Questo vuol dire che se si studia bene la tecnica verosimilmente si può arrivare a settant’anni e avere ancora una voce come la sua. Beh, io ci metto la firma! Con lui poi ho anche un rapporto speciale, sia perché Basilio è il factotum di Bartolo, così come Figaro lo è per il Conte, sia perché mi onora della sua amicizia e mai avrei pensato che mi chiedesse di dargli del “tu”. E poi c’è Leo Nucci, una colonna portante, che oltre ad essere un grande cantante e un grande insegnate è Figaro, non “un” Figaro! Basta guardarlo sulla scena per imparare di più in un’ora in palcoscenico con lui che in una vita di lezioni di canto in qualunque conservatorio.
Se dovessi descrivere il tuo Bartolo scaligero…
Spero di aver dato vita ad un personaggio originale senza aver perso di vista la tradizione, anche perché non si può pensare di cimentarsi nello spettacolo di Ponnelle e pensare soltanto ad innovare la codificazione di un ruolo. La ripresa di un allestimento, certo, porta con sé un margine di novità, in ragione della novità degli interpreti e dello spirito con cui affrontano la scena, così profondamente diverso da quello del passato, ma Giovanni Romeo prova a non dimenticare il passato e, soprattutto, a non dimenticare Enzo Dara. È impossibile lavorare sul Barbiere ponnelliano senza prendere spunti dall’immensa arte di Enzo Dara, di quello che giocoforza viene ricordato come il “Signor Bartolo”. Certo, sicuramente ci sono stati tanti altri “Bartoli” italiani, d’altronde i migliori buffi della storia sono sempre stati italiani: ad esempio, Bruno Praticò o Alfonso Antoniozzi, che ha dato una chiave più cinica del personaggio, il ché non mi dispiace. Ma io sono allievo di Enzo Dara e penso di aver infilato in questo Bartolo qualcosa di tutto quello che mi ha insegnato.
E poi ci sono quegli occhiali…
Certo! E poi ci sono gli occhiali! Ecco, una cosa fisica di Dara c’è, i suoi occhiali. Ho avuto questo grande onore, questo immenso regalo: gli occhiali che utilizzò proprio nella regia di Ponnelle qui alla Scala, visto che, come me, non poteva mettere le lenti a contatto ed aveva bisogno degli occhiali. Io mi sono limitato a sostituire le lenti.
Che cosa risponderesti a chi sostiene che la regia di Ponnelle appartiene al passato?
Mi è capitato un episodio del genere anche recentemente: durante un altro Barbiere al quale ho lavorato negli intervalli delle prove di questo scaligero, è stato purtroppo affermato che la regia di Ponnelle fosse “vecchia”; un pensiero che mi ha fatto lacerare dentro. È una questione di punti di vista e, soprattutto, di rispetto, quel rispetto di cui ti ho detto all’inizio della nostra conversazione. Per quanto uno spettacolo come quello di Ponnelle abbia oggettivamente un’età anagrafica, non significa necessariamente che sia un prodotto vecchio; un conto è l’anzianità storica, altro conto è utilizzare l’attributo per definire uno stile e uno spettacolo. La regia di Ponnelle ha un rispetto assoluto per la musica e per il libretto, un rispetto che ha portato lo spettacolo a divenire un omaggio alla genialità rossiniana, che rifulge guizzantissima in ogni scena. Da qui a dire che lo spettacolo di Ponnelle sia da demolire, come si vociferava anche in alcuni ambienti della Scala non molto tempo fa, il passo è molto molto lungo. Davanti a questi capolavori, che dopo mezzo secolo funzionano ancora perfettamente, chiunque dovrebbe solo fare un atto di umiltà e riconoscerne la grandezza. Chapeau quindi ad una regia bella, pulita e coerente, ad uno spettacolo che è stato concepito nel rispetto non solo del compositore ma anche e soprattutto dei cantanti e del pubblico che ha la gioia di assistervi.
Giovanni, siamo arrivati alla fine di questa nostra chiacchierata. Vorrei chiederti ancora un saluto per i lettori di GBopera.it…
Da basso buffo, anzitutto un saluto con un sorriso sincero unito all’augurio di tanta felicità e, soprattutto, di tante tante risate!