Opera di Firenze, Stagione lirica estiva 2015
Concerto in memoria di Mario Del Monaco nel centenario della sua nascita
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Carlo Montanaro
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Tenori Giuseppe Gipali, Dario Di Vietri, Stefano Secco, Walter Fraccaro
Brani da La forza del destino, Otello, Un ballo in maschera, Aida, Ernani (Giuseppe Verdi); Cavalleria rusticana (Pietro Mascagni); Pagliacci (Ruggero Leoncavallo); Tosca, Madama Butterfly, La fanciulla del West, Manon Lescaut, Turandot ( Giacomo Puccini); Carmen (Georges Bizet).
Firenze, 10 settembre 2015
Gli ultimi fuochi di una stagione estiva che ha prodotto due spettacoli di alta qualità (Il barbiere di Siviglia e soprattutto una Madama Butterfly degna di figurare all’interno del Festival del Maggio Musicale vero e proprio) si spengono con un concerto dedicato a Mario Del Monaco nel centenario della sua nascita. Il celeberrimo tenore nacque infatti a Firenze il 27 luglio 1915 da padre napoletano e madre fiorentina di origine siciliane. Gli organizzatori del concerto devono aver pensato che il nome di Del Monaco sia così noto da non aver bisogno di introduzione alcuna, dal momento che – fatto piuttosto inusuale per un concerto commemorativo – nessuno ne ha mai proferito il nome, né vi erano foto o manifesti in palcoscenico e neanche, come spesso accade, arie diffuse attraverso gli altoparlanti. Se non avessi avuto sotto gli occhi il programma di sala, mai avrei immaginato che si trattava in effetti di un concerto in memoriam, il quale prevedeva, oltre alle forze corali ed orchestrali del Maggio, la presenza di sei tenori alle prese con alcune arie tratte da opere che Del Monaco cantò a Firenze. Ben tre defezioni (Stefano La Colla, Roberto Aronica e Carlo Ventre), parzialmente compensate da un’aggiunta dell’ultima ora (Dario Di Vietri) hanno notevolmente ridotto il programma: la conseguenza più notevole è stata la scomparsa delle arie del personaggio più indissolubilmente legato al tenore fiorentino, ovvero il Otello, opera di cui si è eseguito soltanto il coro “Fuoco di gioia”. Il concerto si è aperto con la sinfonia della Forza del destino, diretta da Carlo Montanaro con nitida precisione e vitalità ritmica; il perfetto equilibrio fra l’introspezione e l’esuberanza, fra i momenti tragici e dolenti e quelli più vivaci hanno acceso il desiderio di poter ascoltare questo direttore di considerevole talento alle prese con l’opera completa. L’altra occasione che gli ha consentito di brillare si è presentata nella seconda parte con l’intermezzo dalla Manon Lescaut, brano stupendo che racchiude in pochi minuti l’essenza stessa dell’opera, ossia la tensione fra il tentativo di fuga e il sentirsi intrappolati, resa splendidamente dalla disciplina mostrata da Montanari nel regolare il potere dei sentimenti senza neutralizzarli. Questi due momenti orchestrali e gli interventi del coro (cori da Ernani, Cavalleria rusticana e Turandot) hanno rappresentato il vertice qualitativo del concerto: l’orchestra e il coro del Maggio sono organismi di primissimo ordine, valorizzati da un direttore dalla personalità forte e pronunciata e dal gesto chiaro, ben articolato e assertivo di Carlo Montanaro, un direttore, e qui uso una banale generalizzazione che però rende bene l’idea, parrebbe appartenere più al mondo tedesco che a quello italiano-mediterraneo.
Ed eccoci ai tenori: Giuseppe Gipali ha esordito con “Ma se m’è forza perderti” da Un ballo in maschera, opera da lui spesso frequentata, in cui ha messo in mostra un timbro indubbiamente piacevole, una buona emissione senza forzature, un fraseggio ricco di sfumature, ma anche una certa carenza di squillo che non gli rende facile dominare l’orchestra; l’aria della seconda parte “Addio, fiorito asil” dalla Madama Butterfly, ha confermato queste impressioni. Dario Di Vietri ha intonato Celeste Aida senza il recitativo, cosa alquanto desueta e bizzarra, tanto più che questo giovane tenore emergente è reduce da alcune recite di Aida all’Arena di Verona. Il suo punto forte sono gli acuti, emessi con molta facilità; il registro centrale appare un pochino più debole, senza tutta la vigoria mostrata sopra il pentagramma, ma a suo credito v’è da aggiungere che saggiamente non cade nel tranello di gonfiare le gote e crearsi un volume artificioso. L’aria “La Fleur” dalla Carmen scelta per la seconda parte è indubbiamente più consona alla sua tipologia vocale; è comunque paradossale che abbia scelto due arie entrambe culminanti con un si bemolle acuto da emettere piano, e che non abbia avuto il coraggio di eseguirne neanche uno come scritto, anche perché si aveva la netta sensazione che fosse in grado di farlo. Walter Fraccaro, il tenore dalla voce più voluminosa del gruppo, è apparso in una forma migliore di quella con cui si è presentato, per esempio, l’anno scorso al Festival Pucciniano. Non è un timbro bellissimo, ma è gagliardo e virile, ed è quindi comprensibile il motivo per cui sia molto richiesto per i ruoli più spinti del repertorio italiano; in questa occasione si è anche fatto notare per i fiati molto lunghi, soprattutto in un “Vesti la giubba” staccato peraltro piuttosto lentamente. Oltre a “Ch’ella mi creda”, a lui è toccato l’onore di chiudere il concerto con – l’avrete già immaginato – “Nessun dorma”, in cui un si naturale lunghissimo gli è valso l’entusiasmo del pubblico. Stefano Secco è nella mia opinione uno dei tenori, anzi dei cantanti, più tecnicamente preparati attualmente in circolazione. Il suono totalmente “avanti” immascheratissimo, una tecnica respiratoria da manuale e una fonazione sul fiato senza frizione alcuna di gola gli permettono di emettere suoni omogenei in tutta l’estensione, piuttosto notevole anche nel registro sovracuto, sebbene il repertorio verso cui ormai si è orientato non gli dia l’occasione di sfoggiarla. Questa emissione tutta avanti è il motivo per cui il registro acuto di Secco è ricchissimo di armonici. Nonostante un incidente di percorso (è entrato con una battuta di ritardo), Secco ha offerto una delle migliori “E lucevan le stelle” che io abbia ascoltato negli ultimi anni, grazie a un esperto dosaggio dei fiati, la capacità di smorzare nel passaggio di registro e all’astensione da ogni effettaccio veristico. Dopo l’intervallo ha cantato “Come rugiada al cespite” da Ernani, purtroppo senza cabaletta, e per finire “Donna non vidi mai” dalla Manon Lescaut, opera che forse per il momento sarebbe per lui più prudente lasciare in disparte. Sembrerò ormai un disco incantato se termino l’ennesima recensione da Firenze dicendo che il teatro era semivuoto. Mi duole doverlo sottolineare e spero che la stagione ormai alle porte (si inaugura il 22 settembre con Lucia di Lammermoor), che pare almeno sulla carta molto interessante, attragga molti, ma molti più spettatori.