Dramma per musica in tre atti su libretto di Agostino Piovene e Ippolito Zanelli. Leonardo De Lisi (Bajazet), Filippo Mineccia (Tamerlano), Giuseppina Bridelli (Asteria), Ewa Gubańska (Irene), Antonio Giovannini (Andronico), Benedetta Mazzucato (Clearco), Raffaele Pe (Leone), Giorgia Cinciripi (Zaida). Auser Musici, Carlo Ipata (direttore). Registrazione: Barga, Chiesa del Crocifisso, 29 giugno – luglio 2014, in occasione del 48esimo Festival Opera Barga. 3 CD Glossa (GCD 923504)
L’Opera
“Francesco Gasparini! Chi era costui?” Ai giorni nostri il musicista toscano (Camaiore, 19 marzo1668 – Roma, 22 marzo 1727) viene al massimo ricordato per la sua attività didattica, avendo avuto allievi del rango di Benedetto Marcello, Domenico Scarlatti e Johann Joachim Quantz, oltre a molti altri che che, come lui del resto, adesso appaiono per lo più nelle note a piè di pagina di testi specializzati; molti studenti di teoria musicale si saranno imbattuti nel suo trattato “L’armonico pratico al cimbalo”, una guida sul basso continuo usata come riferimento fino a metà Ottocento. In realtà Gasparini fu autore assai prolifico di ogni genere musicale, cantate, musica sacra (ed è ben noto che J.S. Bach studiò diversi suoi componimenti liturgici), ed infine operista di grande successo. Di lui si conoscono poco più di sessanta titoli teatrali, fra cui quelli di maggior successo furono L’Ambleto (sic), e appunto Il Bajazet. Di quest’ultima stese addirittura tre versioni, non semplici adattamenti come accadeva allorché un’opera viaggiava da una piazza all’altra, ma tre lavori ben distinti con soltanto alcune arie in comune. Della prima versione (Venezia, 1711) e della terza (1723 sempre nella Serenissima) sono pervenute cinque o sei arie; la seconda (Reggio Emilia 1719) è stata preservata nella quasi totale interezza (manca solo la Sinfonia), e per fortuna è quella storicamente più importante, fosse solo per l’enorme influenza che ebbe su Händel e il suo Tamerlano. Il collegamento fra le due opere è chiaro e lineare: il celebre tenore Francesco Borosini, già primo interprete del ruolo di Bajazet a Reggio Emilia, scritturato dalla Royal Academy of Music di Londra per interpretare lo stesso ruolo nel Tamerlano, si portò dietro lo spartito del camaiorese cui il sassone attinse a piene mani. Due esempi per tutti, quelli più eclatanti: entrambe le arie di esordio di Bajazet sono in do maggiore ed mostrano una enfasi risoluta sulla parola iniziale (“forte”), ma soprattutto è la morte del personaggio a sbalordire coloro che già conoscano il Tamerlano, giacché in entrambe le opere è in 12/8, una Siciliana insomma, un suicidio che Händel in origine aveva previsto fuori scena: la commovente morte del personaggio sotto gli occhi di tutti (una rarità in quanto era ritenuto sconveniente e scandaloso, come nella tragedia greca, far morire la gente in scena) permise a Händel di creare il suo ruolo tenorile operistico più bello e riuscito. Il libretto del veneziano Agostino Piovene (riadattato per Händel dal solito Nicola Francesco Haym), originariamente intitolato Il Bajazet ma occasionalmente ribattezzato con il nome dell’antagonista per motivi legati alle convenienze ed inconvenienze teatrali fu uno fra i più “gettonati” del Settecento, ispirando anche una delle opere più importanti di Antonio Vivaldi. Rispetto all’opera händeliana, maggiore è in Gasparini la quantità dei recitativi, poiché dopotutto scriveva per un pubblico italiano, e maggiore è anche il numero dei personaggi, così come diverso è il loro rapporto di forza. In Gasparini è Irene ad avere il numero più alto di arie (sei): in fin dei conti la destinataria era nientemeno che la leggendaria Faustina Bordoni (non ancora Hässe), ma anche il resto della compagnia di canto non scherzava. Oltre a Borosini apparivano nel ruolo di sua figlia Asteria Marianna Benti Bulgarelli, ossia la Romanina, colei che convinse Metastasio ad abbandonare il mestiere di legale e dedicarsi al melodramma, e a cui rimase fedele amica per tutta la vita, e addirittura il celeberrimo Antonio Bernacchi in quello di Tamerlano. In tutto si hanno trentadue arie con daccapo, due brevissimi ariosi e un bellissimo terzetto, forse il momento più intenso di un’opera di particolare bellezza e originalità, della cui riesumazione dobbiamo esser grati a Carlo Ipata e ai suoi Auser Musici, al Festival di Barga, dove è stata rappresentata nel luglio dello scorso anno nel Teatro dei Rinnovati, e alla casa discografica Glossa che l’ha immortalata. I tre CD non sono frutto, come quasi sempre accade, di una scelta del meglio di ciascuna recita; l’incisione è avvenuta all’interno della chiesa del Crocefisso stranamente alcuni giorni prima delle rappresentazioni teatrali. Ipata inizia con una sinfonia presa in prestito dall’Ambleto, esponendo immediatamente quello che sarà il suo approccio generale all’opera: un senso ritmico irresistibile, contagioso direi, ed un’attenzione estrema al colore che i diversi strumenti obbligati conferiscono alla più parte delle arie. I recitativi non sono tirati via, come spesso è il caso con direttori e complessi stranieri, ma vengono sottolineati in tutta la loro drammaticità e aderenza al testo; si cesellano e si mettono in rilievo dettagli armonici del tutto particolari, si muta il peso che assumono le molte cadenze frigie, ed in tal modo si evita il peccato più grave che si possa commettere nel teatro d’opera, la noia. Ipata stacca tempi che variano all’interno delle indicazioni (ovvero, ad esempio, un andante di un’aria sarà leggermente diverso dall’andante di un’altra che esprime sentimenti differenti), con lo stesso scopo di procedere con una narrazione teatralmente efficace e senza cesure; l’unica piccola osservazione che muoverei riguarda una delle arie più belle, “Un’aria placida”, per cui si è forse scelto un tempo troppo languido per quella che è in fondo un’aria di gioia, ma è altamente probabile che altro che non sia che un modo per venire incontro alla solista. Tralasciando piccoli e rari appunti di scarsa importanza, si tratta di una prova superlativa da parte del direttore e dei suoi sedici strumentisti, fra cui è forse doveroso menzionare i due bravissimi esecutori del basso continuo, Giovanni Bellini alla tiorba e Alessandra Artifoni al cembalo, soprattutto se si considera che proprio questa era la “specialità” di Gasparini. La compagnia di canto ha il difficile compito di eseguire musica scritta per autentici mostri sacri, e si disimpegna in modo tutto sommato più che decoroso. Innanzitutto, il loro essere, con un’unica eccezione, tutti di madrelingua italiana ci risparmia le pronunce spesso storpiate o quanto meno mosce e inarticolate che spesso e volentieri affossano i recitativi, e già questo è molto. Se è vero che non siamo in presenza di autentici virtuosi dalla vocalità impeccabile, è altrettanto vero che alcuni offrono prove di alto livello; nessuno, infine, è da censurare in toto, e anche questo non è affatto scontato. Il ruolo di Zaida, la confidente di Asteria, ha solo un’aria (oltre ai recitativi, ovviamente), che Giorgia Cinciripi affronta con timbro dolce ma non ancora del tutto maturo; è un giovane soprano interessante ma per alcuni versi ancora un pochino acerbo, specialmente sul versante coloratura. Raffaele Pe è a mio avviso il migliore dei tre controtenori, e quindi leggermente sprecato nel ruolo secondario di Leone, che fa sembrare molto più importante di quanto non sia: possiede un timbro ricco, morbido e caldo, si trova a proprio agio nel canto disteso grazie a un bel legato (si ascolti l’aria del secondo atto “Rondinella che si vede” con i suoi dolci melismi e quella ancor più bella del terzo atto “Dolce lampo di speme gradita”), e sfoggia un’agilità precisa e accurata, senza aspirazioni, in quella del primo atto “Non cangiasi per poco”. Ottima anche Benedetta Mazzucato (Clearco), mezzosoprano che vanta un’ottima emissione sul fiato, agilità precise e un registro grave ambrato verso cui scende senza artifizio. La Mazzucato si distingue anche per l’interpretazione vocale di un personaggio che sarà minore per numero di arie, ma che si fa interessante nella sua elusività. A lei è riservata quella che a mio giudizio è l’aria più struggente e memorabile dell’opera, “Morte non è agli amanti”. Andronico, ruolo originato da un contralto donna, è qui assegnato a un controtenore, Antonio Giovannini, la cui voce, che non pare possedere particolare distinzione timbrica, suona talora un po’ troppo intubata e non eccelle nel canto fiorito. A suo credito, Giovannini dà il meglio di se come interprete soprattutto nel canto patetico, qualità messa in evidenza nell’aria del secondo atto “Con dolci prieghi e pianti”, in cui fa avvertire la cosiddetta “lacrima nella voce”. Un altro pregio di questa produzione è l’aver trovato falsettisti dal timbro diversissimo fra di loro: quello di Filippo Mineccia ha una qualità leggermente asprigna e non particolarmente ricca di armonici che, unita ad un fraseggio viperino come pochi, si rivela opportuna per una ben riuscita descrizione del lato “cattivo” del tiranno Tamerlano. Ma questo è un personaggio bifronte, bipolare diremmo oggi, che passa dall’ira impaziente alla dolcezza e viceversa in un batter d’occhio, e Mineccia, con il suo timbro non troppo suadente mette in ombra l’aspetto più amabile del tartaro antagonista. Forse in quanto preceduta dalla sua fama quale vincitrice del prestigioso Händel Singing Competition, mi aspettavo molto di più dal mezzosoprano polacco Ewa Gubańska (Irene) che ha certamente evidenziato un bel timbro, soave ed accattivante ed un bel legato, ma anche limiti non indifferenti nel canto fiorito dalla resa troppo alterna: si passa da agilità belle e precise ad altre piuttosto arruffate e talora nell’ambito della stessa aria. Qualcuno poi dovrebbe spiegarle che nella lingua italiana la vocale “e” tonica ha due gradi di apertura, poiché il suo vezzo di emetterle tutte chiuse alla lunga diviene tedioso. Rispettabilissima la prestazione di Giuseppina Bridelli nel ruolo di Asteria, che ha un’emissione molto “in avanti” e quindi un timbro molto chiaro, così chiaro che se non avessi letto in precedenza che si definisce mezzosoprano, avrei pensato di star ascoltando un soprano lirico. Il timbro leggermente angoloso si presta perfettamente ai passi concitati, come la vera e propria aria di furore che conclude il primo atto, in cui la Bridelli rende palpabile l’oscillazione dei sentimenti di Asteria nei confronti di Andronico. Accurate sono le agilità, soprattutto quelle di forza. Il ruolo più difficile è in ogni caso quello del protagonista, semplicemente perché scritto per una tipologia vocale ormai estinta, quella dell’autentico baritenore, che l’opera seria barocca riservava per parti di uomini maturi, padri o antagonisti, e mai per quelle di amoroso. Leonardo De Lisi nel ruolo eponimo ha un timbro da tenore lirico leggero molto gradevole ed un’emissione di buona scuola; fraseggia con eleganza, è commovente nella scena della morte, all’occorrenza sa mostrare gli artigli, come nel bel terzetto, e dimostra una certa facilità nella coloratura, limitatamente però al registro centrale, poiché si trova al contrario in palese disagio, e non certo per colpa sua, nella tessitura abissale di un ruolo che oggi sarebbe più opportuno affidare a baritoni veri e propri. A conti fatti comunque l’unica vera pecca, anzi oscenità di questo cofanetto è l’assenza delle interessantissime (nonché indispensabili, data l’oscurità dell’opera) note introduttive in italiano, tanto più che in questa lingua erano state scritte da Antonella D’Ovidio. Che il CD di un’opera del più tipico barocco italiano, eseguita da un’orchestra, direttore e cantanti (quasi) tutti italiani nell’ambito di un festival italiano non abbia la benché minima attenzione verso il pubblico italiano è semplicemente inescusabile.
L’Opera
“Francesco Gasparini! Chi era costui?” Ai giorni nostri il musicista toscano (Camaiore, 19 marzo1668 – Roma, 22 marzo 1727) viene al massimo ricordato per la sua attività didattica, avendo avuto allievi del rango di Benedetto Marcello, Domenico Scarlatti e Johann Joachim Quantz, oltre a molti altri che che, come lui del resto, adesso appaiono per lo più nelle note a piè di pagina di testi specializzati; molti studenti di teoria musicale si saranno imbattuti nel suo trattato “L’armonico pratico al cimbalo”, una guida sul basso continuo usata come riferimento fino a metà Ottocento. In realtà Gasparini fu autore assai prolifico di ogni genere musicale, cantate, musica sacra (ed è ben noto che J.S. Bach studiò diversi suoi componimenti liturgici), ed infine operista di grande successo. Di lui si conoscono poco più di sessanta titoli teatrali, fra cui quelli di maggior successo furono L’Ambleto (sic), e appunto Il Bajazet. Di quest’ultima stese addirittura tre versioni, non semplici adattamenti come accadeva allorché un’opera viaggiava da una piazza all’altra, ma tre lavori ben distinti con soltanto alcune arie in comune. Della prima versione (Venezia, 1711) e della terza (1723 sempre nella Serenissima) sono pervenute cinque o sei arie; la seconda (Reggio Emilia 1719) è stata preservata nella quasi totale interezza (manca solo la Sinfonia), e per fortuna è quella storicamente più importante, fosse solo per l’enorme influenza che ebbe su Händel e il suo Tamerlano. Il collegamento fra le due opere è chiaro e lineare: il celebre tenore Francesco Borosini, già primo interprete del ruolo di Bajazet a Reggio Emilia, scritturato dalla Royal Academy of Music di Londra per interpretare lo stesso ruolo nel Tamerlano, si portò dietro lo spartito del camaiorese cui il sassone attinse a piene mani. Due esempi per tutti, quelli più eclatanti: entrambe le arie di esordio di Bajazet sono in do maggiore ed mostrano una enfasi risoluta sulla parola iniziale (“forte”), ma soprattutto è la morte del personaggio a sbalordire coloro che già conoscano il Tamerlano, giacché in entrambe le opere è in 12/8, una Siciliana insomma, un suicidio che Händel in origine aveva previsto fuori scena: la commovente morte del personaggio sotto gli occhi di tutti (una rarità in quanto era ritenuto sconveniente e scandaloso, come nella tragedia greca, far morire la gente in scena) permise a Händel di creare il suo ruolo tenorile operistico più bello e riuscito. Il libretto del veneziano Agostino Piovene (riadattato per Händel dal solito Nicola Francesco Haym), originariamente intitolato Il Bajazet ma occasionalmente ribattezzato con il nome dell’antagonista per motivi legati alle convenienze ed inconvenienze teatrali fu uno fra i più “gettonati” del Settecento, ispirando anche una delle opere più importanti di Antonio Vivaldi. Rispetto all’opera händeliana, maggiore è in Gasparini la quantità dei recitativi, poiché dopotutto scriveva per un pubblico italiano, e maggiore è anche il numero dei personaggi, così come diverso è il loro rapporto di forza. In Gasparini è Irene ad avere il numero più alto di arie (sei): in fin dei conti la destinataria era nientemeno che la leggendaria Faustina Bordoni (non ancora Hässe), ma anche il resto della compagnia di canto non scherzava. Oltre a Borosini apparivano nel ruolo di sua figlia Asteria Marianna Benti Bulgarelli, ossia la Romanina, colei che convinse Metastasio ad abbandonare il mestiere di legale e dedicarsi al melodramma, e a cui rimase fedele amica per tutta la vita, e addirittura il celeberrimo Antonio Bernacchi in quello di Tamerlano. In tutto si hanno trentadue arie con daccapo, due brevissimi ariosi e un bellissimo terzetto, forse il momento più intenso di un’opera di particolare bellezza e originalità, della cui riesumazione dobbiamo esser grati a Carlo Ipata e ai suoi Auser Musici, al Festival di Barga, dove è stata rappresentata nel luglio dello scorso anno nel Teatro dei Rinnovati, e alla casa discografica Glossa che l’ha immortalata. I tre CD non sono frutto, come quasi sempre accade, di una scelta del meglio di ciascuna recita; l’incisione è avvenuta all’interno della chiesa del Crocefisso stranamente alcuni giorni prima delle rappresentazioni teatrali. Ipata inizia con una sinfonia presa in prestito dall’Ambleto, esponendo immediatamente quello che sarà il suo approccio generale all’opera: un senso ritmico irresistibile, contagioso direi, ed un’attenzione estrema al colore che i diversi strumenti obbligati conferiscono alla più parte delle arie. I recitativi non sono tirati via, come spesso è il caso con direttori e complessi stranieri, ma vengono sottolineati in tutta la loro drammaticità e aderenza al testo; si cesellano e si mettono in rilievo dettagli armonici del tutto particolari, si muta il peso che assumono le molte cadenze frigie, ed in tal modo si evita il peccato più grave che si possa commettere nel teatro d’opera, la noia. Ipata stacca tempi che variano all’interno delle indicazioni (ovvero, ad esempio, un andante di un’aria sarà leggermente diverso dall’andante di un’altra che esprime sentimenti differenti), con lo stesso scopo di procedere con una narrazione teatralmente efficace e senza cesure; l’unica piccola osservazione che muoverei riguarda una delle arie più belle, “Un’aria placida”, per cui si è forse scelto un tempo troppo languido per quella che è in fondo un’aria di gioia, ma è altamente probabile che altro che non sia che un modo per venire incontro alla solista. Tralasciando piccoli e rari appunti di scarsa importanza, si tratta di una prova superlativa da parte del direttore e dei suoi sedici strumentisti, fra cui è forse doveroso menzionare i due bravissimi esecutori del basso continuo, Giovanni Bellini alla tiorba e Alessandra Artifoni al cembalo, soprattutto se si considera che proprio questa era la “specialità” di Gasparini. La compagnia di canto ha il difficile compito di eseguire musica scritta per autentici mostri sacri, e si disimpegna in modo tutto sommato più che decoroso. Innanzitutto, il loro essere, con un’unica eccezione, tutti di madrelingua italiana ci risparmia le pronunce spesso storpiate o quanto meno mosce e inarticolate che spesso e volentieri affossano i recitativi, e già questo è molto. Se è vero che non siamo in presenza di autentici virtuosi dalla vocalità impeccabile, è altrettanto vero che alcuni offrono prove di alto livello; nessuno, infine, è da censurare in toto, e anche questo non è affatto scontato. Il ruolo di Zaida, la confidente di Asteria, ha solo un’aria (oltre ai recitativi, ovviamente), che Giorgia Cinciripi affronta con timbro dolce ma non ancora del tutto maturo; è un giovane soprano interessante ma per alcuni versi ancora un pochino acerbo, specialmente sul versante coloratura. Raffaele Pe è a mio avviso il migliore dei tre controtenori, e quindi leggermente sprecato nel ruolo secondario di Leone, che fa sembrare molto più importante di quanto non sia: possiede un timbro ricco, morbido e caldo, si trova a proprio agio nel canto disteso grazie a un bel legato (si ascolti l’aria del secondo atto “Rondinella che si vede” con i suoi dolci melismi e quella ancor più bella del terzo atto “Dolce lampo di speme gradita”), e sfoggia un’agilità precisa e accurata, senza aspirazioni, in quella del primo atto “Non cangiasi per poco”. Ottima anche Benedetta Mazzucato (Clearco), mezzosoprano che vanta un’ottima emissione sul fiato, agilità precise e un registro grave ambrato verso cui scende senza artifizio. La Mazzucato si distingue anche per l’interpretazione vocale di un personaggio che sarà minore per numero di arie, ma che si fa interessante nella sua elusività. A lei è riservata quella che a mio giudizio è l’aria più struggente e memorabile dell’opera, “Morte non è agli amanti”. Andronico, ruolo originato da un contralto donna, è qui assegnato a un controtenore, Antonio Giovannini, la cui voce, che non pare possedere particolare distinzione timbrica, suona talora un po’ troppo intubata e non eccelle nel canto fiorito. A suo credito, Giovannini dà il meglio di se come interprete soprattutto nel canto patetico, qualità messa in evidenza nell’aria del secondo atto “Con dolci prieghi e pianti”, in cui fa avvertire la cosiddetta “lacrima nella voce”. Un altro pregio di questa produzione è l’aver trovato falsettisti dal timbro diversissimo fra di loro: quello di Filippo Mineccia ha una qualità leggermente asprigna e non particolarmente ricca di armonici che, unita ad un fraseggio viperino come pochi, si rivela opportuna per una ben riuscita descrizione del lato “cattivo” del tiranno Tamerlano. Ma questo è un personaggio bifronte, bipolare diremmo oggi, che passa dall’ira impaziente alla dolcezza e viceversa in un batter d’occhio, e Mineccia, con il suo timbro non troppo suadente mette in ombra l’aspetto più amabile del tartaro antagonista. Forse in quanto preceduta dalla sua fama quale vincitrice del prestigioso Händel Singing Competition, mi aspettavo molto di più dal mezzosoprano polacco Ewa Gubańska (Irene) che ha certamente evidenziato un bel timbro, soave ed accattivante ed un bel legato, ma anche limiti non indifferenti nel canto fiorito dalla resa troppo alterna: si passa da agilità belle e precise ad altre piuttosto arruffate e talora nell’ambito della stessa aria. Qualcuno poi dovrebbe spiegarle che nella lingua italiana la vocale “e” tonica ha due gradi di apertura, poiché il suo vezzo di emetterle tutte chiuse alla lunga diviene tedioso. Rispettabilissima la prestazione di Giuseppina Bridelli nel ruolo di Asteria, che ha un’emissione molto “in avanti” e quindi un timbro molto chiaro, così chiaro che se non avessi letto in precedenza che si definisce mezzosoprano, avrei pensato di star ascoltando un soprano lirico. Il timbro leggermente angoloso si presta perfettamente ai passi concitati, come la vera e propria aria di furore che conclude il primo atto, in cui la Bridelli rende palpabile l’oscillazione dei sentimenti di Asteria nei confronti di Andronico. Accurate sono le agilità, soprattutto quelle di forza. Il ruolo più difficile è in ogni caso quello del protagonista, semplicemente perché scritto per una tipologia vocale ormai estinta, quella dell’autentico baritenore, che l’opera seria barocca riservava per parti di uomini maturi, padri o antagonisti, e mai per quelle di amoroso. Leonardo De Lisi nel ruolo eponimo ha un timbro da tenore lirico leggero molto gradevole ed un’emissione di buona scuola; fraseggia con eleganza, è commovente nella scena della morte, all’occorrenza sa mostrare gli artigli, come nel bel terzetto, e dimostra una certa facilità nella coloratura, limitatamente però al registro centrale, poiché si trova al contrario in palese disagio, e non certo per colpa sua, nella tessitura abissale di un ruolo che oggi sarebbe più opportuno affidare a baritoni veri e propri. A conti fatti comunque l’unica vera pecca, anzi oscenità di questo cofanetto è l’assenza delle interessantissime (nonché indispensabili, data l’oscurità dell’opera) note introduttive in italiano, tanto più che in questa lingua erano state scritte da Antonella D’Ovidio. Che il CD di un’opera del più tipico barocco italiano, eseguita da un’orchestra, direttore e cantanti (quasi) tutti italiani nell’ambito di un festival italiano non abbia la benché minima attenzione verso il pubblico italiano è semplicemente inescusabile.