Teatro Rossini – 36° Rossini Opera Festival 2015
“L’INGANNO FELICE”
Farsa in un atto di Giuseppe Foppa
Musica di Gioachino Rossini
Isabella MARIANGELA SICILIA
Bertrando VASSILIS KAVAYAS
Ormondo GIULIO MASTROTOTARO
Tarabotto CARLO LEPORE
Batone DAVID LUCIANO
Orchestra sinfonica G. Rossini
Direttore Denis Vlasenko
Regia Graham Vick
Scene e costumi Richard Hudson
Luci Matthew Richardson
Pesaro, 15 agosto 2015
Era il 1980 quando il Rossini Opera Festival iniziava la sua storia gloriosa e in cartellone c’erano La Gazza ladra e L’inganno felice, entrambe presenti nella corrente stagione. A riaprire la locandina di quest’ultimo titolo non sembrano passati trentasei anni, ma sembra proprio di entrare in un’altra epoca, leggendo i nomi di Pietro Bottazzo come Bertrando e addirittura di Sesto Bruscantini come Batone, accanto al Tarabotto di Enzo Dara.
A noi più vicina è l’edizione del 1994, più vicina non solo in senso cronologico, ma strettamente legata a quella che sta andando in questi giorni in scena al Teatro Rossini, perchè utilizzava per la prima volta la regia di Graham Vick e l’allestimento di Richard Hudson che vengono oggi riproposti. Quest’edizione ha girato il mondo ed è diventata negli anni a giusto titolo un classico; la semplicità e bellezza che la caratterizzano non sono invecchiate di un giorno e continuano a destare la stessa ammirazione come a volte accade a certi spettacoli particolamente riusciti. L’Inganno felice è un’opera in un solo atto, solitamente definita come farsa, o forse più propriamente come opera semi-seria; tematicamente si può ricondurre alla ‘pièce à sauvetage’, genere venuto in voga dopo la Rivoluzione francese, basato sul salvataggio, appunto, e riabilitazione di un innocente ingiustamente condannato, che vive rinchiuso o esiliato, lontano dagli affetti che alla fine riconquisterà. Tale è il Fidelio di Beethoven e tale sarà il Sigismondo di Rossini, su libretto che lo stesso Giuseppe Foppa gli appronterà due anni dopo avergli scritto L’inganno.
Dunque abbiamo una duchessa, calunniata da un amante respinto e quindi ripudiata e condannata a morire in mare, che, salvatasi miracolosamente, vive sotto mentite spoglie in un’isoletta di poveri minatori, accolta in casa da Tarabotto; proprio lui, che la ama come una figlia, farà in modo che il duca suo marito ne riconosca l’innocenza e si ricongiunga con lei; trama da opera seria che però si anima di episodi buffi, con al centro i personaggi del goffo Batone e del sornione, astuto Tarabotto. Richard Hudson ricostruisce naturalisticamente il suolo brullo e sassoso dell’isola, perforato dagli ingressi delle miniere, in lontananza si vede il mare solcato sul filo dell’orizzonte da un veliero; il cielo è dipinto con le nuvole trasparenti di un acquerello ottocentesco; l’unico effetto di luce è quello di far trascorrere le ore: dall’alba al tramonto, poi la notte, fino all’alba del giorno successivo. Sulla scena si muovono i minatori con i loro attrezzi, alcuni sono bambini, vestiti di stracci, che ci ricordano i racconti di solfara di Verga e Pirandello. Poi sulla scena irrompono i soldati in divisa di epoca napoleonica, comicamente impettiti, tirano fuori dalle custodie e dagli zaini pali e telone e allestiscono in un baleno la postazione per il loro comandante, compìti e diligenti. È una festa per l’occhio: tutto è elegante e misurato, un’armonia di forme e di colori, cadenzata dalle luci di Matthew Richardson, che non trascura nemmeno di accendere puntini luminosi sul veliero durante la notte. Di grande efficacia è anche l’azione scenica, la recitazione di tutti è sobria e misurata, buffa all’occorrenza, ma senza un eccesso, senza una sbavatura.
Il grande lavoro di Graham Vick, venuto personalmente a riprendere la sua regia, si avverte a cominciare dalla pronuncia: in questo Inganno felice non si perde una parola, il testo è enunciato con una chiarezza che rende del tutto superflui i sopratitoli. Il cast è composto da un veterano, Carlo Lepore, che primeggia offrendo una prova eccellente, e da giovani cantanti, tutti bravi nel delineare i rispettivi personaggi. Isabella è Mariangela Sicilia, che ha una voce di bel timbro caldo, sa esprimere tanto la malinconia quanto l’aspetto forte e volitivo del suo personaggio, grazie ad una dinamica varia e sfumata e alla dizione chiarissima. Molto applaudita è la sua seconda aria. Batone è Davide Luciano, che sa essere tenero e buffo con misura, sfrutta le sue agilità a fini espressivi, con voce omogenea e di timbro piuttosto bello, qualche acuto suona leggermente fibroso, ma è poca cosa. Raccoglie ovazioni e grida di ‘bravo’ al termine della sua aria “Una voce m’ha colpito”.Il giovanissimo tenore Vassilis Kavayas è il Duca Bertrando; ha voce chiara e tenue da tenore lirico-leggero, buon volume al centro, è delicato ed espressivo, sciolto nelle agilità; forse il suo personaggio richiederebbe un’autorevolezza maggiore e un piglio più sicuro. Qualcosa in più ci saremmo aspettati anche dal perfido Ormondo di Giulio Mastrototaro. Carlo Lepore ha interpretato e ‘detto’ la parte di Tarabotto in modo eccezionale; ogni gesto, ogni movimento del corpo, dalle mani alle sopracciglia, è giustamente calibrato e allo stesso tempo spontaneo, scorrevole, da grande cantante-attore. L’Orchestra Rossini, sotto la bacchetta del trentaquattrenne direttore moscovita Denis Vlasenko ha bel suono e dopo un avvio un po’ timido procede bene offrendo ottimo sostegno al canto e all’azione. Al termine ci sono applausi festosi per tutti, con ovazioni, che si trasformano in allegro schiamazzo, per Carlo Lepore. Foto Silvano Bacciardi