Bassano del Grappa, OperaEstate 2015, Bmotion Danza
“ArMare un Uomo”
Ideazione e coreografia Dario Tortorelli
Assistente alla coreografia Cristina Bacilieri Pulga
Performers Eva Boarotto, Anna Maria Scodro, Maria Rosa Martinello, Luciana Pilati, Maria Cristina Battocchio, Ugo Campagnolo, Daniela Scotton, Aurora Morselli, Tranquilla Todesco, Otto Sgarbottolo
Musica David Lynch, Dario Tortorelli
Location Chiesetta dell’Angelo
Prima nazionale
“30 CECIL STREET”
Ideazione e performance Dan Canham
Suono David Maxell
Light design Brian Gorman
Consulenza drammaturgica Peggy Olislaegers
Realizzato con il supporto di National Lottery through Grants for the Arts, Bristol Old Vic Ferment, Battersea Arts Centre, Escalator Performing Arts.
Prima nazionale
“EVERYTHING IS OK”
Di e con Marco D’Agostin
Suono LSKA
Disegno luci Rocco Giansante
Movement coach Marta Ciappina
Consulenza drammaturgica Kristin De Groot
Co-produzione VAN, CSC/Operaestate Festival Veneto, Dansateliers
Con il supporto di INTEATRO, Kilowatt Festival, D.ID Dance Identity, Danzarte
“RITE OF SPRING – EXTENDED”
Coreografia Palle Granhøj
Performer Bill Eldridge, László Fülöp, Áron Darabont, Tomasz Ciesielski, Mikolaj Karczewski, Michal Woznica, Aureliusz Rys
Assistente produzione Mads Møller Andersen
Musica Igor Stravinsky
Produzione Granhøj Dans
Con il sostegno di The Danish Arts Foundation, City of Aarhus
Bassano, 23 agosto 2015
Inizio pomeriggio di una domenica di fine agosto, pioviggina dal cielo grigioazzurro. Della gente attende davanti a una chiesetta sconsacrata il momento di entrare per assistere a un evento che si rivelerà un’esperienza emozionante, da lasciare col fiato sospeso. “ArMare un Uomo” è essenziale, pulito e corale come un saggio di fine laboratorio teatrale che una compagnia di danza ha deciso di condividere con il pubblico. È un eccellente lavoro di “teatro danza terapia” pensato per il benessere delle persone affette dal morbo di Parkinson, che vede impegnati, tra i figuranti non professionisti, i danzatori della Dance for Health Italia. Già il luogo scelto per la performance è speciale: una chiesetta del XVII secolo (ora sede di mostre temporanee), coperta da una cupola ovale impostata su di una trabeazione fregiata di metope includenti delle piccole tele raffiguranti degli angeli. Per terra tanti occhiali scuri da sole risaltano su di un telo bianco lucido che riflette le luci al neon accese sulle pareti curve dell’ellittica dell’edificio. Lo sguardo da qui scorre e si ferma ai piedi dell’altare dove un gruppo di persone che ci danno le spalle stanno strette le une alle altre nell’attesa dell’avvio sonoro-musicale.
Alla regia che sta proprio dietro di loro (forse per questioni di spazio, scelta tuttavia azzeccatissima) c’è Tortorelli, occhiali scuri addosso, come tutti gli altri, che da qui sottolinea i movimenti prima al ralenti, poi veloci e frenetici dei ballerini con una colonna sonora presa da David Lynch. Pensiamo, per esempio, ai suoni e alle musiche rarefatte in “Eraserhead”, a quei fruscii un po’ distorti, invadenti e totalizzanti che stanno “attorno” a brani come quello di “Lady in the radiator”. Ci sono momenti poi che rimandano per analogia addirittura a “Rabbits”, a quella sit-com dark surreale (interamente visibile su youtube), nei momenti in cui con le dita a V di vittoria espresso dai ballerini, in posa da rock-star, si sente un applauso registrato. La più bella di queste pose, che avrebbe potuto tramutare le finte ovazioni in quelle vere e proprie (di stima e incoraggiamento), è ad opera di una ragazza con i più evidenti segni del Parkinson. È lei a rimanere al centro, alla fine, e a farsi totem al quale gli altri riveriscono. È a lei che vengono “donati” quegli occhiali (“allacciati” attorno a braccia e a gambe) che ognuno precedentemente ha raccolto da terra e indossato in testa, paio su paio. Lei è come se fosse un’apparizione, un’entità rivelata; di contro gli occhiali scuri in volto vorrebbero celarne la celebrità, quella notorietà che ognuno di noi può avere quando fa del bene e non se ne dà a vedere.
Poi tutto ritorna da dove era venuto, come a seguire un vortice che tutto richiama a sé (anche sonoro per effetto della musica che si spegne velocemente tornando indietro): ognuno nella posizione di partenza. Proprio questa involuzione lascia lo spettatore attonito, meravigliato, ma che poi si disincanta con un lungo applauso che non finisce più. Dan Canham ci porta dentro ad un mondo scomparso.La sua è una vera e propria invocazione con tanto di nastro sonoro pieno di voci del passato, con corredo di segni sullo stage (del Garage Nardini) a delimitare ambienti esterni e interni di quello che fu il glorioso Theatre Royal al civico 30 di Cecil Street (Limerik, Irlanda). Sembra oltremodo di assistere a quei giochi che da bambini facevamo nel crederci abitanti di case ricche di ambienti, con aperture, scale e nascondigli, ma si era solo dentro la nostra piccola stanzetta.
L’intento ben riuscito, espresso dal bravo coreografo di Bristol, è stato quello di far rivivere lo spirito di un edificio che, ormai chiuso da tanto tempo, è stato un college artistico, un cinema e addirittura un bingo. Ciò che però risulta evidente è il distinguersi di quel posto come di un luogo ricco di ricordi legati alle espressioni artistiche del canto, della recitazione e della danza. Per venticinque minuti Dan danza balzando furtivamente dentro e fuori a quegli ambienti. Nel farlo indossa una giacca segno formale di farsi guida che ci accompagna per il grande teatro, dove sono lasciati sbiadire i manifesti delle rappresentazioni che vi hanno avuto luogo.
C’è un tizio, con indosso pantaloni turchesi e una camicia con stampa d’ambiente esotico con pappagalli, che entra veloce in scena e si ferma immobile. Poi sbotta una raffica di discorsi di ringraziamento misti a filastrocche, annunci e citazioni, che sembra tutto uno scioglilingua rap. Quindi comincia a eseguire una veloce serie di posture che rispecchiano la confusione appena udita. Sembra tutto un nonsense ma “Everything is ok”. Nelle posizioni assunte e subito sciolte e cambiate del ballerino, alla “Strike a pose”, ci si diverte a riconoscere coreografie di Madonna, Byoncé, Nicki Minaj, Shakira, Lady Gaga e addirittura della Parisi, tra step di aerobica e balli visti nelle sigle della TV d’altri tempi.
Così facendo, dopo un andirivieni per tutto il palco, il tizio dalla camicia coi pappagalli cade come corpo morto cade (cit. Dante le cui pene sono richiamate in capo da D’Agostin) e rimane a terra in posizione fetale per un bel po’ (a tirare il fiato) per lasciare il tempo a noi di ripensare al fatto che ciò che ci attira sta nel ciò che si ammira. Alla fine questo giovane uomo ti sta simpatico; qualche sorriso te lo ha strappato senza che te ne sei accorto. Marco D’agostin è un vero talento. Un “one-man-show” in erba al quale gli si augura un proseguo di carriera più che brillante. Infelice serata al Remondini. Purtroppo le belle attese sono state totalmente deluse. “Rite of Spring – Extended” è stato uno spettacolo davvero brutto dopo tante belle e intelligenti performance viste durante la giornata. Da quanto si era letto sul libretto di sala, l’opera dell’osannata Granhøj Dans, sarebbe dovuta essere un’indagine sul tema dell’iniziazione maschile, tuttavia quel che si è visto è stata un’opera “politicamente scorretta”, piena di luoghi comuni, di passi sbagliati, di assenza di sincronia nelle coreografie, di assenza di feeling tra i ballerini (male assortiti), di urla fastidiose, di gesti espliciti reiterati e per questo mal utilizzati, perché potevano benissimo essere suggeriti. Addirittura le nudità mal organizzate nell’impianto narrativo. Uno spettacolo privo di ogni forma di creatività. Qualcuno in sala ha anche abbozzato una risatina ma anch’essa è sembrata fuori luogo, perché di comicità (che per Palle Granhøj doveva esserci) non ce n’era affatto. Un vero peccato.