Arena di Verona, 93° Opera Festival 2015
“ROMÉO ET JULIETTE”
Tragédie lyrique in cinque atti di Jules Barbier e Michel Carré
Musica di Charles Gounod
Juliette IRINA LUNGU
Stéphano NINO SURGULADZE
Gertrude ALICE MARINI
Roméo GIORGIO BERRUGI
Tybalt LEONARDO CORTELLAZZI
Benvolio FRANCESCO PITTARI
Mercutio MICHAEL BACHTADZE
Pâris NICOLÒ CERIANI
Grégorio MARCELLO ROSIELLO
Capulet ENRICO MARRUCCI
Frère Laurent GIORGIO GIUSEPPINI
Le Duc de Vérone DEYAN VATCHKOV
Orchestra, Coro e Corpo di ballo dell’Arena di Verona
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Salvo Sgrò
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Silvia Aymonino
Lighting designer Paolo Mazzon
Coreografia Nikos Lagousakos
Verona, 8 agosto 2015
Vedi le alucce d’angelo indossate da Giulietta (o meglio, Juliette) e subito pensi a “Romeo + Juliet” di Baz Luhrmann. E non c’è dubbio: la modernissima ma ormai classica versione cinematografica del capolavoro shakespeariano è fra i riferimenti iconografici di questa messa in scena veronese di “Roméo et Juliette” di Gounod. L’allestimento arriva in Arena per il quinto anno di fila. Pare sarà l’ultima, a scorrere l’avant programme del prossimo festival. Quindi per gli habitués areniani non suona certo nuovo. Neppure (spiace dirlo) per chi come il sottoscritto lo vede per la prima volta. Nel pensare la sua regia, Francesco Micheli ha pescato da Baz Luhrmann (anche da “Moulin rouge”); le balconate contrapposte in forma cilindrica pensate da Edoardo Sanchi evocano il londinese Globe Theatre e il futuro punk-apocalittico della saga filmica di “Mad Max”. A queste aggiungiamo una Batmobile fiammeggiante, torri semoventi da cui sbucano Capulet e il Duca (figurazione ben poco ieratica del loro potere), la cella tutta un vetro multicolore di Frère Laurent. Capuleti e Montecchi vanno vestiti a colori gialli e blu, nei costumi non memorabili di Silvia Aymonino. Un quadro visivo un po’ abborracciato, che quasi mai nuoce alla musica (eccezion fatta per qualche cigolio di troppo) ma che nell’esaltare la contrapposizione selvaggia di famiglie e l’amore estremo, giovanilistico dei due protagonisti, guarda più a Shakespeare che alla resa del dramma operata da Gounod, ben più improntata alla mezzatinta. Buona notizia: le voci sono tutte a posto. Corposa, agile al punto giusto, di timbro sempre piacevole la Juliette di Irina Lungu. A fianco a lei, Giorgio Berrugi si riconferma tenore ideale per il repertorio francese. Alla ricerca della buona pronuncia (lodevolissima iniziativa) indulge in qualche enne troppo nasale. Ma il fraseggio è sempre rifinito, gli acuti ben proiettati (peccato solo per qualche oscillazione in “Ah! lève–toi, soleil!”), il suo Roméo convince sempre. Non gli è da meno l’altro tenore del cast: di voce più chiara rispetto al collega, Leonardo Cortellazzi interpreta un Tybalt d’eccezione. Giorgio Giuseppini è un Frère Laurent autorevole, di splendido smalto. Il Mercutio di Michael Bachtadze si distingue per fluidità e correttezza d’accento nella ballata della Regina Mab. Di lusso lo Stéphano di Nino Surguladze (begli acuti nei suoi interventi solistici), mentre di accento convincente, ancorché di timbro non sempre fascinoso, è Enrico Marrucci nel ruolo di Capulet. Corretti la Gertrude di Alice Marini, il Benvolio di Francesco Pittari, il Pâris di Nicolò Ceriani, il Grégorio di Marcello Rosiello e il Duca di Deyan Vatchkov. Sul palco, il Coro dell’Arena canta bene, validamente preparato dal Salvo Sgrò. In buca l’Orchestra sfoggia timbri piacevoli. Daniel Oren la dirige staccando tempi spesso spediti e non concedendo neppure un rubato nel valzer di Juliette. Qualche effetto non manca, ma l’impressione è sempre quella: un gesto eccessivo rispetto alle esigenze della partitura, non sempre efficace, perlopiù coreografico. Fin troppo udibili i suoi mugugni. A fine spettacolo, Roméo et Juliette corrono mano nella mano in mezzo alla platea, morti innamorati e liberi. Mentre sulle gradinate si srotola un cuoricione assai kitsch. Mentre gli accordi finali sono sommersi dagli applausi di un pubblico che per tutto lo spettacolo non si è dimostrato troppo attento alle ragioni della musica. Foto Ennevì per Fondazione Arena