Opera seria, K87/74a in tre atti su libretto di Vittorio Amedeo Cigna-Santi dalla tragedia di Jean Racine. Barry Banks (Mitridate, re di Ponto), Miah Persson (Aspasia), Sophie Bevan (Sifare), Lawrence Zazzo (Farnace), Klara Ek (Ismene), Robert Murray (Marzio), Anna Devin (Arbate). The Orchestra of Classical Opera, Ian Page (direttore). Registrazione: Saint Jude on the Hill, London, UK, dal 12 al 26 luglio, 2013. 4 CD, Signum Records SIGDC400
Mitridate, re di Ponto fu scritto dal quattordicenne Mozart su commissione del Teatro Ducale, all’epoca il teatro più prestigioso di Milano, fino a che non fu distrutto da un incendio nel 1776 e sostituito dal Teatro alla Scala. Si trattava del suo primo vero incontro professionale con una compagnia di canto ricca di grandi nomi, che non avrebbero mai rinunciato al diritto di pretendere modifiche, alterazioni e trasposizioni. Il protagonista, il celebre tenore siciliano Guglielmo d’Ettore, si rivelò il più esigente e intrattabile, una vera “sediziosa voce”, se è vero che , come sembra traspirare dall’epistolario mozartiano, tentò persino di sollecitare i colleghi a rivoltarsi contro il compositore. La verità è che essendo stato alcuni anni prima il creatore del ruolo omonimo della versione Mitridate scritta da Quirino Gasparini, era molto affezionato a quest’opera con cui aveva riscosso grandi successi e che che riteneva superiore a quella che il maestrino salisburghese gli stava cucendo addosso. Bisogna riconoscere che il capriccioso divo non aveva tutti i torti; spero di non esser tacciato di lesa maestà affermando che almeno in due casi la musica di Gasparini, al tempo compositore di chiara fama al culmine dei propri mezzi, non sfigura certo di fronte a quella scritta da un Mozart alle primissime armi. Anzi, in un paio di casi le è indubbiamente superiore. Il confronto è reso possibile dalla scelta del direttore di questa nuova incisione, Ian Page di portare per la prima volta all’attenzione del pubblico le prime versioni di arie che durante le prove Mozart modificò talora radicalmente, spesso ma non solo a causa di pressioni dei cantanti. La cavata del protagonista “Se di lauri il crine adorno”, di cui Mozart scrisse cinque versioni, acquista nella stesura finale (quella cui D’Ettore dette finalmente l’imprimatur e che è fortemente modellata sull’aria di Gasparini) quell’incedere maestoso, quel galante canto di sbalzo, quella solennità che presenta immediatamente la statura regale del personaggio; “Vado incontro al fato estremo”, fino a non molto tempo fa ritenuta composta di Mozart, si è invece rivelata esser completamente opera di Gasparini: la versione mozartiana scartata da D’Ettore e presentata in questa registrazione, assai meno vigorosa e incisiva, impallidisce al confronto. Fra le due versioni che Mozart scrisse della prima aria di Aspasia, “Al destin che la minaccia”, è senz’altro da preferire, seguendo l’esempio della creatrice del ruolo Antonia Bernasconi, la seconda, ben più virtuosistica e abbellita dall’accompagnamento di due trombe, cosa resa possibile dalla trasposizione in do maggiore.
La proposta di tutte queste interessantissime versioni alternative non è affatto l’unico merito di questa incisione pubblicata da Signum Records: ad elevarla ben oltre lo stato di mero esercizio filologico contribuisce la direzione a dir poco stupefacente di Ian Page, il quale, a capo dell’orchestra da lui fondata, The Orchestra of Classical Opera, offre una lettura minuziosamente articolata corroborata da un senso ritmico sicurissimo e carico di vitalità. Alla notevole varietà di colori contribuisce il basso continuo eseguito dal violoncellista Andrew Skidmore, la contrabbassista Cecelia Bruggemeyer e dal clavicembalista Steven Devine, abilissimi ad adattare il loro fraseggio e la gestione delle cadenze nei recitativi secchi per sostenere i cantanti senza perder di vista l’importanza del basso continuo nello sviluppo drammatico dell’opera. Accordata ad un La = 430 Hz, la Classical Opera riesce ad evitare gli stridori che spesso si danno per scontati quando si ha a che fare con un’orchestra di strumenti originali. In questa esecuzione gli occasionali suoni bruschi e aspri sono intenzionalmente prodotti ove richiesti dalla situazione drammatica. A quattordici anni Mozart, forte delle lezioni paterne e degli studi delle composizioni di Mysliveček, era già in grado di creare orchestrazioni fantasiose ed innovative e in Mitridate esibisce un grado di sofisticazione inferiore soltanto ai pochi giganti dell’epoca. Il personaggio di Mitridate è un parente neanche tanto alla lontana di Idomeneo, e Aspasia è una sorella meticolosamente ornamentata di Donna Anna e Fiordiligi. Quel che differenzia Ian Page e la sua orchestra dai molti ensemble specializzati nelle stesso repertorio è il loro affrontare Mitridate non come se fosse un tardo Händel o un primo Beethoven, e men che mai come un canovaccio utile solo a ricercarvi il germe del genio; il loro scopo è quello di porre quest’opera in un appropriato contesto stilistico ed eseguirla con un’intensità tale da metterne in rilievo l’indubbia teatralità. Se la direzione pone questa incisione al vertice della discografia tutto sommato abbastanza nutrita di quest’opera, non altrettanto può dirsi della compagnia di canto, che deve confrontarsi con alcuni dei più grandi belcantisti della storia recente. Il cast infatti, con una singola eccezione, si mantiene su un livello più che decoroso, ma raramente si spinge oltre a una compìta diligenza. Censurabile è senza dubbio il Marzio di Robert Murray, tenore dal timbro tutto sommato non spiacevole ma dalle agilità aspirate e abborracciate. Anna Devin è un soprano dal buon controllo tecnico ma il timbro troppo chiaro e la dizione poco incisiva non la rendono ideale per il ruolo dello scaltro governatore di Ninfea, Arbate. Se quest’ultimo, insieme a quello di Farnace e Sifare, è un ruolo composto per un castrato, Ismene è al contrario nelle intenzioni di Mozart una “seconda donna”, e la qualità della musica a lei assegnata riflette tale distinzione. Nel primo atto Klara Ek intona “In faccia all’oggetto” con voce rotonda e ben calibrata, mentre nel terzo atto “Tu sai per chi m’accese”, la migliore delle sue arie, si contraddistingue soprattuto per la vitalità con cui affronta il recitativo, raffigurando un’Ismene volitiva non disposta ad attendere passivamente i colpi della sorte. È diventata tradizione ormai ben assestata quella di affidare il ruolo del “cattivo” Farnace ad un controtenore, in questo caso Lawrence Zazzo, possessore di un timbro caldo nel registro centrale che tende pero ad assottigliarsi in acuto (registro in ogni caso non particolarmente sollecitato da questo ruolo). Più problematico rimane il registro grave, in cui pur non arrivando agli eccessi e agli abusi della voce di petto di alcuni suoi colleghi, indulge un po’ troppo spesso a sonorità baritonali che possono creare un certo sconcerto; il limite più vistoso della vocalità del controtenore americano è in ogni caso una coloratura poco nitida. Se nei primi due atti Farnace non dispone di musica particolarmente ispirata, nel terzo atto Mozart gli affida un’aria di ipnotica bellezza, “Già dagli occhi il velo è tolto” (preceduta da un magnifico affranto recitativo), che Zazzo esegue brillantemente, regalandoci un Farnace al tempo stesso un po’ viscido ma stranamente seducente. Sophie Bevan è un Sifare dal bel timbro morbido e appropriatamente più scuro di quello della sua Aspasia ma ha a propria disposizione una tavolozza di colori piuttosto limitata che non le permette appieno di dar vita ad un personaggio tanto sfaccettato. Spesso quando si tratta cantare con dinamiche superiori ad un mezzoforte non riesce a “girare” completamente gli acuti, che risultano quindi un pochino sfocati e non privi di una certa fissità (ad esempio il do acuto gridacchiato al termine di “Lungi da te mio bene”, problema che al contrario non sussiste quando si tratta di filare i suoni. Le agilità, benché corrette, non possiedono quell’aura di virtuosismo disinibito e sfrenato, quasi sprezzante, con cui dovrebbero esser affrontati questi ruoli. Una simile osservazione può esser mossa anche nei confronti di Miah Persson, la quale, dopo aver impersonato Sifare in un memorabile allestimento saliburghese di alcuni anni fa, è passata al ruolo di Aspasia con risultati tutto sommato convincenti: il timbro è piuttosto bello, morbido, e l’emissione omogenea, almeno fino ai sovracuti dove, come nel caso della collega, il suono spesso si opacizza. Il registro grave, sfruttato a dovere nell’aria più bella a lei riservata, “Pallid’ombre, che scorgete”, è abbastanza corposo e penetrante per un soprano lirico leggero quale è in fin dei conti la Persson. Ma è sul piano espressivo che il soprano svedese gioca le carte migliori, riuscendo ad esprimere una notevole gamma di emozioni, rabbia, tristezza, tenerezza, regalità, il tutto con assoluta chiarezza ed eleganza. Nonostante Mozart si lamentasse che Guglielmo d’Ettore fosse ormai in pieno declino, la musica per lui scritta o riadattata non fa certo pensare ad un cantante incline a compromessi vocali: la tessitura è acutissima (l’aria del terzo atto “Vado incontro al fato estremo” contiene ben sette do acuti in rapida successioni, raggiunti con intervalli di difficile intonazione e concentrati in poco più di tre minuti), l’estensione enorme, e se la coloratura non è intricatissima come quella scritta per i castrati, gli intervalli sono assurdamente ampi, nel vero stile del canto di sbalzo. Una vocalità “monstre” quindi, affidata a un Barry Banks che ha al contrario uno strumento da comune mortale, con molti pregi e non pochi difetti: se da un lato si lascia ammirare per acuti facili e sicuri (ancorché poco spavaldi) e per la capacità di filare i suoni ad ogni altezza, dall’altro il volume modesto, un timbro vagamente infantile e un registro grave inesistente non lo rendono certo ideale ad interpretare un ruolo di monarca autorevolmente magniloquente, e spesso propenso ad esprimere il proprio disappunto in vere e proprie arie di furore. Per concludere, la direzione vivida e fantasiosa di Page, il suono vibrante e cristallino dell’orchestra e le lodevolissime scelte filologiche permettono di chiudere un’occhio sui limiti, talora notevoli ma quasi mai invalidanti della compagnia di canto.