Venezia, Teatro La Fenice: “Juditha Triumphans”

Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2014-2015
“JUDITHA TRIUMPHANS” devicta Holofernis barbarie  (1716)
Libretto di Giacomo Cassetti dalla Bibbia, Libro di Giuditta
Musica di Antonio Vivaldi
Juditha MANUELA CUSTER
Abra GIULIA SEMENZATO
Holofernes TERESA IERVOLINO
Vagaus PAOLA GARDINA
Ozias FRANCESCA ASCIOTI
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Alessandro De Marchi
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Elena Barbalich
Scene Massimo Checchetto
Costumi Tommaso Lagattolla
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 30 giugno 2015

Il Teatro La Fenice, nell’’ambito della Stagione lirica 2014-2015, propone in forma scenica l’oratorio Juditha Triumphans di Antonio Vivaldi, che costituisce anche uno degli appuntamenti più attesi della terza edizione del Festival Lo spirito della musica di Venezia. Si tratta di un nuovo allestimento con la regia di Elena Barbalich, le scene di Massimo Checchetto, i costumi di Tommaso Lagattolla e le luci di Fabio Barettin. La Juditha Triumphans è il solo dei quattro oratori sacri vivaldiani attualmente conosciuti, di cui possediamo la partitura, il che rende questo lavoro estremamente prezioso, anche perché la sua riscoperta in tempi moderni – a partire dal 1941, anno in cui fu eseguito in forma scenica nell’ambito delle “Settimane musicali” promosse dall’Accademia Chigiana di Siena – contribuì a svelare al pubblico un aspetto del Prete Rosso ancora pressoché sconosciuto, quello di autore vocale. A questo proposito è opportuno ricordare che, durante la sua vita, Vivaldi – nonostante l’abito talare –  si fece conoscere soprattutto in qualità di spregiudicato impresario teatrale, oltre che di autore – come egli stesso ebbe ad affermare – di novantaquattro opere, di cui ci è giunta solo una cinquantina di titoli, e appena una ventina di partiture. Tra la produzione vocale, quella relativa agli oratori fu, a quanto è dato sapere, occasionale e concentrata nel periodo centrale della sua attività, tra gli anni dieci e l’inizio del decennio successivo. La Juditha Triumphans devicta Holofemis barbarie nacque nel 1716, a celebrare la liberazione di Corfù dall’assedio turco. Nel libretto – scritto in tardo latino dal cavalier Giacomo Cassetti – il sacerdote Ozias, in una sua visione profetica, paragona Betulia liberata a Venezia: “Ita decreto aeterno/Veneti Maris urbem/Inviolatam discerno”. Questo “sacrum militare oratorium” – così definito dallo stesso librettista – fu eseguito, nel novembre dello stesso anno, dalle “figlie di choro” dell’Ospedale della Pietà. Sul piano vocale il lavoro si caratterizza per le tessiture medio-basse (mezzosoprano, contralto), previste da Vivaldi per le cantanti – a parte quella più acuta di Abra –, il che si traduce in un’uniformità espressiva di grande efficacia.
L’oratorio si apre con il possente coro dei soldati dell’esercito assiro di Holofernes, che assedia la città di Betulia, tra squilli di trombe e timpani militari. Il coro femminile nella Juditha, rappresenta di volta in volta i soldati e le vergini, contribuendo a quell’espressività omogenea quanto scevra da ogni istanza realistica, che abbiamo appena evidenziato. L’idea generale che informa lo spettacolo è quella di mantenere una dimensione essenziale, evocativa, in cui il racconto drammaturgico si snodi attraverso le suggestioni date da cambi di luce e variazioni spaziali e coreografiche. La regista ha inteso narrare la vicenda sottolineandone le analogie con la tragedia greca, in cui – come si sa –  il coro ha un ruolo fondamentale. In questo allestimento il coro rappresenta principalmente quello della prima esecuzione assoluta alla Pietà, rendendo possibile, tra l’altro, l’identificazione tra le vergini assediate di Betulia e le musiciste orfanelle costrette ad esibirsi nascoste dietro a delle grate. A rendere evidente il riferimento alla prima assoluta, contribuiscono anche i sobri costumi senza tempo, disegnati da Tommaso Lagattolla: quelli del coro, di Giuditta e di Ozia sono rossi proprio come gli abiti delle “putte” della Pietà. Nello stesso tempo il coro, che compare spesso come massa coreografica e scenografica, sapientemente utilizzata da Massimo Checchetto – ideatore di un impianto scenografico essenziale ed elegante, di cui fa parte la stessa orchestra –, rappresenta anche un alter ego della protagonista, una cassa di risonanza del suo più intimo sentire. Nella seconda parte dell’oratorio le vergini diventano Baccanti, in particolar modo, allorché  intonano “Plena nectare non mero”, un inno dionisiaco all’ebrezza amorosa.  Un altro aspetto della Juditha Triumphans, che la Barbalich ha tenuto in debita considerazione, è quello religioso, più cristiano-cattolico che propriamente giudaico: vi si contrappongono, infatti, la casta devozione verso Dio della protagonista, portatrice di pace, e la pagana carnalità di Holofernes, portatore di guerra. Tale aspetto viene sottolineato attraverso un efficacissimo uso della luce, ad opera di Fabio Barettin: dei fari beam disegnano strutture in forma di grate o creano raggiere di strette lame di luce, rappresentando in modo essenziale l’identificazione tra le vergini di Betulia e le ragazze della Pietà, costrette a condurre la loro esistenza in una stretta clausura. La regista ha opportunamente evitato ogni possibile – e a nostro avviso, fin troppo facile – riferimento alla drammatica attualità delle guerre di religione.
Sul piano dell’interpretazione musicale non si poteva pretendere di meglio. Affascinante e sensuale, ma anche mistica e spirituale, la Juditha di Manuela Custer, la cui impervia tessitura vocale appare evidente fin dalla sua prima aria “Quocum Patriae”, in cui l’espressione “libertatis dulcissima spes”, viene accompagnata da Vivaldi con una scrittura rarefatta dei violini, ad esprimere il nascente anelito patriottico della fanciulla israelita. La Custer ha assecondato mirabilmente le intenzioni del compositore, che affida al ruolo principale il compito di esplorare molteplici potenzialità del canto: dal lirismo più delicato alla drammaticità più intensa, dalla melodia più espressiva al virtuosismo più arduo. Assolutamente convincente anche la sua interpretazione di “Quanto magis generosa”, un’aria di seduzione, accompagnata da uno degli strumenti preferiti dal Prete Rosso, la viola d’amore; come anche quella dell’aria di tempesta “Agitata infido flatu”, sul velocissimo altalenante incalzare degli archi; o della tenera “Veni me sequere fida”, in cui si rivolge alla fida Abra prima della drammatica decisione di uccidere Holofernes, sottolineata dal dolce suono del salmoè o chalumeau, antesignano del moderno clarinetto. Teresa Iervolino, nei panni di Holofernes, fin dalla sua aria d’esordio, “Nil arma, nil bella”, trionfante e pomposa, si è mostrata perfettamente a suo agio nell’affrontare la tessitura grave, affidata al suo ruolo, che Vivaldi ha concepito come quello di un barbaro, incapace di provare nobili sentimenti, semmai accensioni carnali, per intenerirsi forse solo nel momento in cui dichiara apertamente il suo amore a Giuditta (“Nox obscura tenebrosa”), o in  “Noli o cara”,  una languida invocazione con il sottofondo dell’oboe e dell’organo, o, ancora, in “Umbrae carae”, un’aria, in cui il calar della notte viene evocato dall’atmosfera “pastorale” prodotta dal suono di due flauti dritti. Ottimo il Vagaus di  Paola Gardina, segnalatosi soprattutto nel momento in cui, scoperto l’assassinio di Holofernes, si dispera e tuona vendetta contro gli ebrei: si tratta dell’aria “di furia” “Armatae face et anguibus”, resa con intensità straordinaria, sfoggiando un virtuosismo esasperato in quel concitatissimo rincorrersi di voce e ed orchestra. Giulia Semenzato ci ha restituito un’Abra dal caratteri di ingenua fanciulla, nonché di ancella devota e partecipe delle vicende di Juditha, grazie ad una voce agile e leggera, che le ha permesso di destreggiarsi nel registro acuto, in particolare nei passaggi virtuosistici: ad esempio in “Vultus tui vago splendori”. Analogamente pregevole l’interpretazione di Francesca Ascioti, quale Ozias, fattasi apprezzare nell’aria “O Sydera, o stelle”, in cui il sacerdote israelita prega per il successo della missione intrapresa da Juditha, come nel canto di ringraziamento in onore dell’eroina di ritorno in Betulia, cui fa eco il coro delle vergini esultanti che svela ancora una volta il significato allegorico dell’oratorio (“Debellato sic barbaro Trace/Triumphatrix sit Maris Regina/Et placata sic ira divina/Adria vivat, et regnet in pace”). Grandiosa la prova del coro femminile, istruito con la solita scrupolosa precisione da Claudio Marino Moretti.  Nume tutelare della serata è stato ovviamente il maestro Alessandro De Marchi, uno specialista nel campo del teatro musicale barocco e tardo barocco, sorretto da una compagine orchestrale a dir poco ineccepibile, dove spiccavano strumenti ormai rari come le trombe naturali, le tiorbe, il mandolino, il salmoè. Il direttore ha saputo distillare un suono sempre ricco di fascino, ora lussureggiante, ora morbido, leggendo in profondità una partitura di estrema raffinatezza, che prevede frequenti interventi solistici con ruolo concertante rispetto alle voci. L’entusiastico gradimento del pubblico è esploso più volte in scroscianti applausi anche a scena aperta.