Verona, Teatro Romano, Estate Teatrale Veronese 2015
“W MOMIX FOREVER (35th anniversary)”
Direttore Artistico Moses Pendleton
Co-direttore Artistico Cynthia Quinn
Artisti Jon Eden, Steven Ezra, Amanda Hulen, Morgan Hulen, Sarah Nachbauer, Rebecca Rasmussen, Brian Simerson, Heather Magee Spilka, Jocelyn Wallace, Jason Williams
Direttori tecnici Gianni Melis, Fabrizio Pezzotti
Direttore di produzione Woody Dick III
General manager Amanda Braverman
Verona, 29 luglio 2015
Per W Momix forever, della durata di due ore (compreso l’intervallo), Moses Pendleton ha rimesso in scena le coreografie più famose dagli spettacoli di maggior successo della sua compagnia di ballo; presi per la maggior parte da Bothanica e da Momix classics, e vi ha aggiunto quattro nuove creazioni: tre nel primo tempo (Daddy long leg, Light reigns e Paper trails) e una nel secondo (Aerea).
La danza d’apertura è affidata a tre ballerine-libellule, che in uno sfondo nero stellato roteano e fanno ventole coi due bastoni flessibili incrociati che portano con loro; bastoni che hanno alle estremità delle sfere che sarebbero le quattro stelle più luminose delle Pleiadi (Pleiades): Alcyone, Merope, Elettra e Maia. E’ un rituale magico che introduce a un universo. Chi assiste allo spettacolo ha già lasciato la propria poltroncina, catapultato in un mondo parallelo, quello dei Momix: una dimensione fantastica popolata di fiori, piante e animali strani (Marigolds). Lo spettatore, in rapimento estatico, è adesso coinvolto per fascinazione da una grande struttura ferrea, che funge da pendolo ipnotico: un tubolare elico-sinusoidale sul quale dondolano i sogni (Dream catcher), una coppia lui-lei in sincrono perfetto. Si avverte come la sensazione di trovarsi tra le pareti buie di un carrozzone di un circo viandante; un luogo senza tempo dalla cui penombra spuntano personaggi stravaganti che fanno venire in mente i disegni di Cuniberti per Stranalandia di Stefano Benni. Ecco tre cowboys (Daddy long leg), con una gamba più lunga dell’altra, una sorta di trampolo sul quale piroettano in ardite coreografie sulla base del tecno-tango firmato Gotan Project. Ecco, ancora, nuove creature suggerite da luci al neon (Light reigns) o formate da mucchi di carta cerata (Paper trails) su cui vengono proiettate parole che sono sussurrate da una voce che trasforma l’appoggio strumentale di fondo in una canzone cantata. Tutto diviene e svanisce in questi scenari da cantastorie. In cielo le nuvole nere si sono dissolte e hanno lasciato apparire una luna piena bianchissima.
Siamo al secondo tempo e lo spettatore, distratto dalla pausa, deve essere ricatturato. Nel buio si muove sinuosamente un corpo che è difficile definirne il sesso; che si risveglia e si muove su di uno specchio inclinato (Frozen awakening). Le sue movenze si rispecchiano a formare una figura intera, sospesa nel vuoto, che ha del fiore e dell’animale. E’ la volta dei bianchi gabbiani, il negativo dei corvi di Van Gogh, che in realtà volano e poi si trasformano grazie alle braccia dei ballerini ricoperte da lunghi guanti bianchi. Siamo nel divertissement, quasi un’aberrazione escheriana. Quindi, dopo il classico Spawning, in cui le danzatrici, sulla Mercy street di Peter Gabriel, giocano appunto con dei grossi palloncini che alla fine lasciano salire al cielo a raggiungere la bianca luna, si può assistere a una doppietta di assoli di magistrale esecuzione. La performance di puro virtuosismo rimane però quella eseguita da Steven Ezra che balla attorno, sotto e sopra a un tavolo antico (Table talk).
E’ il finale. Tutti le danzatrici e i danzatori occupano lo stage e, al di là del concetto che vuole ognuno nella vita bisognoso di un qualcun altro (If you need somebody), sembra impersonino una propria storia: quella dell’attrice e dell’attore che alla fine dello spettacolo si libera della maschera che ha indossato. Infatti, i danzatori portano letteralmente addosso delle marionette (teste rotonde e guance paffute e rosee), che potrebbero essere i loro alter ego. E’ tutto un tragico agitarsi e un comico riconcorresti per emanciparsi dalla propria situazione; e alla fine ognuno è libero e pronto a prendere la mano dell’altro e a inchinarsi al pubblico che con quest’ultima performance si è sciolto in sonore risate.
Bella e gratificante autocelebrazione questa dei Momix: magistralmente sceneggiata e sapientemente diretta. Il loro fondatore, un coreografo americano proveniente da una terra piena di contrasti, il Vermont, punta a stimolare la nostra fantasia perché con essa si deve osservare e scorgere una cosa da un’altra: un fiore da una roccia. Un piacevole brivido d’eccitazione. Assistere a un loro spettacolo è una doppia seducente esperienza: visiva e uditiva. E’ come sbirciare da uno zootropio, un fare un giro nella giostra degli specchi e un meravigliarsi davanti alle fantasmagorie di Georges Méliès. I loro scenari crepuscolari, con le figure sempre lasciate in penombra, coi contorni suggeriti, assomigliano alle pantomime luminose del théâtre optique, quella forma di precinema dell’ultimo quarto del XIX secolo. E’, altresì, un rimanere emotivamente coinvolti dalla loro musica (afro-celtica, etno-lounge e fusion) che non è solo un accompagnamento di fondo, ma ideale commento (pentagramma) sul quale si dispongono i gesti (le note) dei ballerini.
I Momix sono da 35 anni meritatamente festeggiati in tutto il mondo dai loro affezionati fan, quelli che non mancano a un loro spettacolo e che oggi in platea hanno seduti a fianco i propri figli adolescenti. Alla fine, dopo quel loro solito scherzoso saluto, del clown che fuoriesce dallo scrigno, si va via contenti, col sorriso abbozzato per avere scampato il temporale (l’aria afosa diventata finalmente frizzante per effetto di uno scroscio estivo piuttosto intenso avvenuto appena una mezz’ora prima dello spettacolo) e col pensiero in una frase da dire subito a chi si accompagnia all’uscita: “Lo sai che lo rivedrei di nuovo subito”. Foto Brenzoni