Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2014-2015
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in due parti e tre atti su libretto di Salvatore Cammarano, dal romanzo “The bride of Lammermoor” di Sir Walter Scott.
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton GABRIELE VIVIANI
Miss Lucia DIANA DAMRAU
Sir Edgardo di Ravenswood VITTORIO GRIGOLO
Lord Arturo Bucklaw JUAN JOSÈ DE LEÒN
Raimondo Bidebent ALEXANDER TSYMBALYUK
Alisa CHIARA ISOTTON
Normanno EDOARDO MILLETTI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Mary Zimmerman
Scene Daniel Ostling
Costumi Mara Blumenfeld
Luci T.J. Gerckens
Coreografie Daniel Pelzig
Produzione MET Metropolitan Opera, New York
Progetto EXPO
Milano, 31 maggio 2015
La grandiosa produzione del Met, con scene firmate da Daniel Ostling, approda eccezionalmente per il secondo anno consecutivo al teatro del Piermarini. Fin dal principio, col preludio strumentale dall’andamento agogico lento e dall’orchestrazione plumbea, lo spettatore si trova a confronto con l’atmosfera romantica di uno dei più celebri melodrammi del repertorio operistico italiano, agevolato da scene e costumi all’insegna della tradizione. Senza dubbio un’emozionante fuga nelle atmosfere intimiste della Scozia a contrasto con la sfida alla modernità di Expo. Il sipario si apre infatti su un incisivo scorcio in esterno, pavimentato da impervie rocce riflettenti i riflessi lunari su cui cresce qualche filo d’erba, costituenti una sorta di lieve colle delimitante l’azione del primo atto, mentre lo sfondo richiama una foresta immersa in un cielo acceso, grazie alla ragionata e rilevante creazione degli effetti luminescenti di T.J. Gerckens, ora di grigio, ora di cobalto, ora di sfumature ocra ed amaranto, allo scopo di evidenziare mistero, apparizioni notturne, passioni d’amore. Pareti oscure dividono spesso la scena, quasi a celare parte dell’azione implicita: accade nell’introduzione, come a nascondere l’identità dell’amante di Lucia e nel duetto tra Edgardo ed Enrico del terzo atto in cui, oltre a sottrarre idealmente alla vista del tenore i festeggiamenti nuziali di Lucia ed Arturo, funge come pretesto per creare la cupa stanza all’interno della torre di Wolfcrag, uno dei pochissimi dettagli del libretto non riprodotti. L’attrattiva di un allestimento che, se osservato un passo più indietro rispetto al catalizzante effetto globale, compone esterni ed interni con una ragionata scelta di legittimi elementi di base, verte essenzialmente su una riproduzione quasi cinematografica del clima romantico mediante la loro attenta disposizione e cura del dettaglio. Accortezze che, con la coerenza di uno spettacolo “a tutto tondo”, assicurano sempre un’efficace resa dell’ambientazione donizettiana.
L’attenzione scenica per il particolare si accorda inoltre con le scelte di Mara Blumenfeld per quel che concerne i costumi degli interpreti, sempre impeccabili, adornati da autorevoli ricami, variegati e ben caratterizzanti i ceti dell’alta società, come nelle stanze entro le mura del castello, senza difettare di realismo e fondendosi con le coreografie di Daniel Pelzig. Basti pensare che nelle scene all’aperto si ritrovano bombette, soprabiti pesanti, stivali, sciarponi e perfino ombrelli inumiditi, pennellate precise del rigido clima scozzese. In questo contesto, la regia di Mary Zimmerman pare collocarsi appena un gradino sotto.
L’elemento più innovativo, seppure di non banale giustificazione, consiste nell’aver trasposto la vicenda nel Novecento, rendendo tra l’altro possibile l’inattesa foto ricordo scattata nella scena del matrimonio, ma l’impianto registico riguardante le relazioni tra i personaggi, a parte le forti strattonate tra soprano e baritono od i mancamenti di Lucia nel secondo atto, appare abbastanza debole e ci si può chiedere se la sua riuscita sia prevalentemente dovuta alle rilevanti capacità attoriali degli interpreti principali. Vi sono comunque alcune trovate, almeno a mio avviso, interessanti. In primo luogo, la scelta di portare in scena il diafano fantasma della donna Ravenswood ad inquietare la psiche della protagonista durante la sua prima aria, come manifestazione dei tristi presagi sospettati da Alisa sul destino della ragazza, e la continuità concettuale con cui, nel finale, l’ombra si ripresenta al cospetto di Edgardo nelle sembianze di Lucia, in una sorta di evocazione a più livelli che assorbe i personaggi principali. Significativo, inoltre, come alla fine del secondo atto un velo scenda in funzione di sipario isolando i presenti, che rimangono separati tra questo ed il fondo scena, mentre il soprano volge le spalle al pubblico sfiorando il telo: la scissione tra la sfera sentimentale di Lucia e l’ipocrita incomprensione degli astanti emerge dunque anche visivamente. L’inizio del secondo atto poi, col salone del castello apparentemente impolverato (come la luce fredda sembra suggerire) e la mobilia coperta da teli, dà una prova tangibile della decadenza che colpisce gli Ashton e della “mascherata” che sta alla base del matrimonio di convenienza politica tra Lucia ed Arturo; non a caso, all’avvicinarsi delle nozze, i mobili vengono riportati alla luce senza troppi complimenti, il salone viene artificiosamente preparato a sala di rappresentanza e le vetrate vengono scoperte in modo che la calda luce del sole possa rischiarare l’interno e scoprire i vivaci tocchi delle varietà di piante. Per chiudere il quadro, una scena della pazzia che si prospetta quanto mai spettrale, con quel velo nuziale chiazzato di sangue lasciato inquietantemente volteggiare verso il basso nella sua caduta dall’elevato soppalco scenico, prima di essere di nuovo raccolto da Lucia e muovere verso configurazioni che coadiuvano i convulsi moti dell’animo della giovane.
Il lato musicale si distingue per il buon livello complessivo della prova offerta in un teatro di vedute internazionali. Apprezzata la conduzione di Stefano Ranzani, a capo di una direzione che ragguaglia con lo scorrere degli archi melodici discendenti tra note ribattute e semitoni dolenti quando funge da racconto in “parlante”, dipinge i tratti dei vari personaggi con l’assottigliamento verso scelte musicali tese a trasmettere ingovernabilità di sentimenti, si affida con freschezza ai rulli di gran cassa tra spifferi di flauto e clarinetto o folate di ottavino nell’imperversare ineluttabile degli eventi metereologici. Scaltro nel mutare verso vivaci toni marziali o di gaudio, il maestro non cela l’attenzione verso una certa mestizia di fondo, rivelata dall’enfasi dei ricorrenti accordi di settima diminuita presi vigorosamente in forte, dal ricorso alla frammentazione fraseologica o dall’instaurarsi di un substrato inquieto che si ritrova puntualmente nel contrattempo. Una bacchetta, la sua, che favorisce tempi frizzanti e rapidi, brillanti nell’attacco, con buoni effetti sulle variazioni tensionali degli archi in tremolo nella preparazione del clima d’attesa e mostra estrema sensibilità col palco nel dosaggio dei suoni, propensione che talvolta va a discapito di qualche risultato di maggior trasporto. Il rispetto delle sonorità non impedisce comunque la risoluzione essenziale degli elementi coloristici, seppure manchi talora qualche momento di maggior scavo, ed è del tutto rispettabile la restituzione integrale della partitura, aperta alle singole varianti e precisa nei riferimenti alla musica di scena. Così l’etereo pizzicato dell’arpa conferisce percezione sonora all’attività della mente pensante di Lucia e soprattutto la reintroduzione della glass harmonica, eco sommesso del sinistro gioco di riflessi tra strumento e voce nella pazzia, dà acume alla più straniante deviazione psichica. Dimostrando sintonia con le soluzioni direttoriali, Bruno Casoni si pone alla guida di un organico corale che concretizza un assetto senza slanci ma minuzioso nelle particolarità timbriche e nelle sfumature del colore. Profondi gli affranti accigliamenti che seguono il resoconto di Raimondo sullo stato di Lucia nel terzo atto e particolarmente riuscita la resa degli staccati nel primo coro di uomini o la briosa partecipazione nel coro “D’immenso giubbilo” in cui spicca con vivide puntature acute.
Gabriele Viviani ha il duro compito di essere il primo interprete principale a calcare la scena ma nonostante questo costruisce da subito un solido Enrico, dal registro centrale rotondo ed a fuoco, regolare nel vibrato e di portante vocalità. L’imperturbabilità scenica con cui risolve il personaggio, che non si abbandona a picchi di pura crudezza se non lasciando intendere l’incombere di una sorta di dominio quasi fisico sulla sorella, limita gli spunti dello spartito volti all’insinuarsi di ricadute più pietose, ad esclusione dell’incipit delicato con cui accoglie il soprano al momento del duetto centrale e del sentito tono languente nelle originali variazioni ondeggianti del finale d’aria. Se la dinamica del centro rimane essenzialmente monocorde con una certa asciuttezza nei passi d’agilità, qualche timido abbozzo di crescendo si presenta al momento delle frasi liriche più acute, di buona tenuta ma non senza alcuni rinforzi ed occlusioni in chiusura, mentre solo occasionalmente qualche sopracuto risuona più fibroso, come al termine della cabaletta. Meno roseo, invece, l’estremo inferiore dell’estensione, in cui note gravi limpide ed in linea con la natura timbrica gli costano una netta attenuazione proiettiva. Nonostante l’emergere di un certo intento nel fraseggio, avremmo in definitiva gradito una maggiore attenzione al cromatismo, che in alcuni punti sarebbe stato utile per evidenziare le sottigliezze dell’invettiva psicologica tesa alla persuasione di Lucia o per svelare i gesti di compassione latente verso il soprano.
Indipendentemente da quale delle due sponde dell’Atlantico si trovi, Diana Damrau si conferma sempre una Lucia di alto profilo interpretativo, la cui familiarità con questa produzione non evidenzia solo egregie doti attoriali e profondi studi di limatura vocale, ma una vera e propria coesistenza col ruolo che ha dell’invidiabile, interiorizzata sia nella dicotomia tra le fasi distensive e quelle più tese del bilico mentale, che nella creazione di una personalità anche combattiva, forte della purezza dei suoi sentimenti, prima di cedere alla disillusione. A questo fine, il soprano tedesco può far leva su una voce estremamente duttile, che le consente sempre piena aderenza tra intenzione e carismatica resa esecutiva oltre che su una consolidata attitudine belcantistica, ispirazione di ogni messa di voce. Nessun dubbio sulle sfaccettature di un fraseggio che testimonia un intenso scavo psicologico e vividezza d’accento, su una proiezione limpida ed efficace dal maggior smalto nel registro centro-acuto e davvero di livello è la sensibilità dinamica, sempre funzionale all’espressione, col controllo di piani e pianissimi di elegante finezza o smorzamenti dal mezzo-forte di elevata qualità emissiva, premesse per modulazioni carezzevoli davvero di pregio. Una certa esperienza (insieme all’intesa con Ranzani) le permette di essere distintamente udibile in “Regnava nel silenzio”, mostrando competenza nell’abile tecnica con cui riesce senza discontinuità a conferire maggior profondità alle ricadute gravi, anche se qualche intervento nel secondo atto tradisce la natura moderata del volume, senza impedirle un buon risultato sonoro nel concertato, al ristabilirsi di una tessitura più acuta, o la riuscita trasfigurazione dogliosa dei declamati rivolti al cielo. L’estensione ha un limite superiore piuttosto elevato ma si nota un’occlusione timbrica progressiva nella salita che, se in primis diminuisce la luminosità dell’area acuta e sovracuta, produce in secundis mi bemolli sovracuti ben centrati ma non svettanti. Estrosa nel presagire vocalmente la scena della pazzia con l’inserimento di una sequenza picchettata nella cabaletta della prima parte, sottile segno di un’ipersensibilità interiore quiescente fin dal principio, la grande scena dell’ultimo atto spicca per la gestione della morbida linea di canto del cantabile (affrontato in posizione supina) e le screziate fioriture timbriche emesse singolarmente tra le labbra con cui si approccia alle appoggiature od alle rapide terzine discendenti, esibendo ricchezza di armonici nonostante la propensione a limitarne l’esposizione attraverso suoni tenuti a lungo con impalpabile sospensione. Al confronto con le grandi della parte, sicuramente lecito con un’interprete di questo calibro, si costata nella Damrau una tecnica fina tesa ad impreziosire le indiscusse qualità di una voce che, comunque, permane “umana”, come suggerito da un certo affanno nella respirazione che la obbliga sovente a prendere il respiro limitando le potenzialità di ricami in legato più profondi o dando la percezione (ed alle volte succede) d’incrinare qua e là lo scorrere delle agilità, uscendo appena indenne nella resa dei trilli solo grazie ad un sagace impegno gestionale, entro una linea di canto sfuggente a ghirigori proiettivi di penetrante trasmissione.
L’indole spiccatamente esuberante su cui Vittorio Grigolo intesse il canto delle prime due parti dell’opera rende praticamente indistinguibile il confine tra interprete e personaggio, riducendo il suo Edgardo ad un carattere totalmente impulsivo, impetuoso al di sopra del richiesto, senza preoccuparsi della molteplicità dei contrasti sentimentali di un giovane che deve reggere su di sé soprusi politici, logoranti incomprensioni e ferite d’amore. Va da sé che fino al terzo atto la voce sia fissa in forte, proiettata al di là del limite verso un registro acuto d’effetto e di vigorosa tenuta, anche se alle volte il continuo impeto ne scombina la compattezza nel sostegno o necessita di un certo strascicamento preparatorio alla saldatura dei fiati, elementi che indicano ancora margine nell’emissione. Senza dubbio, l’invettiva che chiude il secondo atto è la sua per temperamento, notevole gestione della respirazione (tenendo conto dell’estenuante esercizio fisico), sicurezza nell’incalzare ritmico e volumetria dei flussi lirici. Fino a quel momento, poco sappiamo di una voce dalla tempra scura, forse giusto non così calda da rendere in automatico i bagliori più romantici della parte, ma sicuramente di predisposizione drammatica e dotata di un registro medio-grave ancora lievemente appannato su cui poter lavorare. Qualche indizio si trova, oltre che nella precisa scansione dei recitativi, nell’angoscia con cui tiene gli staccati del primo atto (“Sulla tomba, che rinserra”) o nel celebre duetto di fine prima parte, in cui però un approccio sempre intrinsecamente concitato impedisce lo schiudersi di legati di finissima fattura. È dunque nel finale che comprendiamo appieno la riconferma di questo interprete nel ruolo per due anni di seguito, quando per il tenore aretino sembra sia arrivato il momento di calarsi nel ruolo, cosa che è in grado di fare perfettamente. Espressivo il “tu delle gioie in seno, io… della morte!”, attaccato in pianissimo con preciso crescendo, e non da meno la prova al momento del commiato estremo, dove la linea di canto s’infrange con leggiadria per fini drammatici senza perdere di eleganza nel controllo, raggiungendo il maggior spessore interpretativo.
Il temperamento e la ponderazione scenica di Alexander Tsymbalyuk danno l’impressione di un personaggio realmente capace di proporre una conciliazione tra le parti, nel costante tentativo di mostrare benevoli riguardi verso la protagonista, che ben si accordano con la sua morbida emissione di centro. Scuro, seppur dal piglio sempre gentile, giunge a note gravi sì indebolite ma in omogeneità col liscio registro di mezzo, mentre si rileva una maggior fumosità d’emissione all’approssimarsi della zona acuta, dove l’impostazione è spesso “indietro” ed il vibrato si fa più stretto. Se scenicamente assolve il ruolo con dignità di fraseggio, non si può negare che, in una parte per basso piuttosto estesa, gli vada a discapito una certa negligenza di colore, forse nell’ottica di non mettere in luce un volume abbastanza moderato, che comunque non gli consente di porsi vocalmente a guida dell’inserto corale precedente l’ultimo ingresso del soprano. Meno influente il contributo di Juan José De Leòn come Arturo. La voce è chiara, di diffusione nettamente udibile e si rintraccerebbe anche una certa diligenza esecutiva; tuttavia, un vibrato indefinitamente serrato, al limite del “frullato”, inficia perentoriamente ogni intervento della scena del contratto, rendendo del tutto spontaneo il rigetto interiore di Lucia. Venendo ai due esponenti dell’Accademia di Perfezionamento per Cantanti Lirici del Teatro alla Scala, se il Normanno di Edoardo Milletti è parso piuttosto pallido (in voce ed in scena) con quel timbro chiaro reso flebile da un vibrato acerbo, Chiara Isotton è stata un’Alisa partecipativa dal registro di petto un po’ scalfito da un’emissione perfettibile, ma globalmente sonoro, che le ha concesso “la” acuti tutto sommato timbrati nel concertato del secondo atto. In un clima quasi prefestivo, grande successo di pubblico per tutti gli interpreti e decretato trionfo di Grigolo e Damrau, a conferma di una produzione e d’interpretazioni di cui si diviene nostalgici già riattraversando il foyer…