Opera di Firenze: “Pelléas et Mélisande”

Opera di Firenze – 78° Maggio Musicale Fiorentino
“PELLÉAS ET MÉLISANDE”
Opera in cinque atti e dodici quadri, libretto di Maurice Maeterlinck, dal dramma omonimo di Maurice Maeterlinck.
Musica di Claude Debussy
Pelléas PAOLO FANALE
Mélisande MONICA BACELLI
Golaud ROBERTO FRONTALI
Arkël ROBERTO SCANDIUZZI
Geneviève SONIA GANASSI
Yniold SILVIA FRIGATO
Le médecin/Le Berger ANDREA MASTRONI
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Daniele Abbado
Scene e luci Giovanni Carluccio
Costumi Francesca Livia Sartori
Firenze, 18 giugno 2015       
Dispiace un po’ vedere la sala del Teatro dell’Opera di Firenze piena solo per tre quarti alla prima di questo Pelléas et Mélisande, titolo conclusivo del 78° Maggio Musicale Fiorentino in corso, vista la qualità della produzione e l’esito complessivo. Certo il Pelléas non è un’opera popolare, un melodramma dalle melodie che si imprimono nella memoria, non è un’opera che consente agli interpreti lo sfogo vocale e al pubblico il piacere fisico dell’ascolto. Debussy in questo unico suo lavoro operistico, andato per la prima volta in scena nel 1902, rigetta programmaticamente proprio la melodia per ritornare a un recitar cantando in cui la linea musicale segue gli accenti della parola, ne asseconda ogni sillaba, per permettere ai personaggi di ‘dire’ con semplicità, senza che il fluire del dramma si interrompa per cristallizzarsi in arie o per dare spazio allo sviluppo sinfonico.
La pièce di Maeterlinck fatta di sospensioni, di stati d’animo accennati, di impressioni liriche più che di azione e di sviluppo teatrale, è perfetta per questa nuova concezione del dramma in musica, tanto che verrà adottata senza alcuna riscrittura, solo con qualche taglio, e resa immortale dalla creazione di Debussy, tramontando invece come opera autonoma. In tutto ciò l’orchestra suggerisce sensazioni, crea atmosfere, prepara il clima delle scene che si susseguono rapide, sottolinea una situazione drammatica o addirittura tace, in speciali momenti in cui la parola deve essere lasciata nuda. Quindi per mettere in scena il Pelléas sono indispensabili, più che ugole d’oro dalla cavata suontuosa e dagli acuti d’acciaio, interpreti sensibili, mobili, espressivi, capaci di un fraseggio articolato e sfumato, di un uso della voce e del corpo che dia rilievo alle piccole sfaccettature e ai sottili suggerimenti di stati d’animo forniti dal testo.
La compagnia, completamente italiana, che ha interpretato questa produzione ha corrisposto in modo complessivamente ottimo alle aspettative. Roberto Scandiuzzi, con lo spessore vocale e la presenza scenica maestosa, ha delineato un vecchio Arkël autorevole, ma ancor più affettuoso e dolente, che accarezza con la voce e con lo sguardo Mélisande, condividendone la rassegnazione. Ottima è stata la prova di Roberto Frontali come Golaud: ha timbro bello e scuro, è capace di sfumature e colori idonei a rendere sia la fierezza, sia la mestizia del suo tormentato personaggio, con emissione felice nel forte come nel pianissimo. Particolarmente commovente è stata la sua invocazione a Mélisande sul letto di morte, sussurrata con una dolcissima mezzavoce. Scenicamente molto bravo, è avvantaggiato dalla maturità idonea al personaggio. Ancor più suggestiva è la figura bella e giovanile di Paolo Fanale, bravissimo nella mimica e nella gestualità nel delineare un amante timido, trepidante e casto, un Pelléas scenicamente notevolissimo. Vocalmente il personaggio è anfibio, scritto in una tessitura da tenore centrale, è spesso affidato anche al baritono ‘chiaro’, tipico della tradizione francese. Fanale non è né l’uno, né l’altro: è un giovane tenore che sta facendo rapidamente strada in un repertorio lirico leggero, tendenzialmente acuto, quindi sulla carta non ha la voce ideale per Pelléas. Infatti il suo registro medio-grave, nel quale si risolve la quasi totalità del ruolo, non è corposo, ma il cantante intelligentemente ha evitato di ingrossarlo o spingerlo, riuscendo quasi sempre a supplire con una buona proiezione al limitato volume e a cantare con morbidezza ed espressività. Forse meno risolto è risultato il personaggio di Mélisande, la cui complessità è stata resa con una recitazione talvolta carica, con momenti di frivolezza, se non di euforia, che potrebbero alludere ad uno stato di instabilità psicologica, ma rimangono a sé, come estranei alla natura sostanzialmente trasognata e remissiva della giovane sposa. Anche la voce di questa Mélisande, nel solido timbro mezzosopranile di Monica Bacelli, non manca di dolcezza, ma suggerisce carnalità più che trasparenze evanescenti.  Ottimi Sonia Ganassi come Geneviève, Silvia Frigato, voce e fisicità perfette per un Yniold appena adolescente, e Andrea Mastroni nei due ruoli del medico e del pastore. La storia di Pelléas et Mélisande, come una fiaba, non ha un’ambientazione precisata nel tempo e nello spazio, ha luogo in un’epoca remota, in un castello sede di un regno immaginario, in prossimità del mare e della foresta.
La spettacolo pensato da Daniele Abbado, con le scene di Giovanni Carluccio, non ha niente di descrittivo, non tenta nemmeno di evocare i luoghi in cui l’azione si svolge, ma solo di offrire all’immaginazione delle atmosfere. La scenografia non è accattivante, anzi, è piuttosto brutale: l’elemento di base è un’ellisse, un grande occhio vuoto, dalle pareti grigiastre e scabre come cemento, entro cui i personaggi agiscono e che all’occorrenza si apre nei segmenti che lo compongono; in alcune scene è raddoppiato su due piani e l’azione si svolge all’interno. La pendenza, che rende l’equilibrio instabile, è sfruttata per sottolineare il disagio e l’angoscia materializzate dal rischio di scivolare, come nella scena in cui Golaud costringe il figlio a spiare gli amanti da una finestrina. Yniold è terrorizzato, non capisce la piccola violenza della quale è vittima e perde l’equilibrio restando precariamentemente aggrappato. Di volta in volta l’impianto scenico, grazie alle luci e ad essenziali oggetti, assume nuovi significati senza che l’elemento costitutivo muti: in una scena lo spigolo dell’ellisse diventa il bordo della fontana dal quale si sporgono Pelléas e Mélisande, in un’altra la profondità dell’occhio racchiude la grotta in cui gli innamorati fingono di ricercare l’anello. Di indimenticabile efficacia è la III scena dell’Atto III in cui l’improvvisa apertura dell’ellisse in tre parti e la comparsa di un sole sfolgorante proiettato sul fondale segnano la risalita alla luce di Golaud e Pelléas. Eleganti ed essenziali sono i costumi senza tempo di Francesca Livia Sartori, un solo colore per ogni personaggio per tutto il corso dell’opera.
Daniele Gatti ha trovato una sintonia magica con l’ottima orchestra del Maggio, il suo gesto è affettuoso, intimo; le sonorità sono lucide, setose, il tessuto sonoro si dipana senza la minima asperità, si gonfia e si acquieta mostrando, come riflessi preziosi, i timbri della celesta, delle campane, dell’arpa. A lui e a Daniele Abbado spettano gli applausi più sonori. Alla fine dello spettacolo la platea non gremita si anima, nella compagnia di canto Roberto Frontali e Paolo Fanale sono i più festeggiati, ma molte grida di ‘bravo’ vengono indirizzate a tutti gli interpreti.