Napoli, Teatro San Carlo, Stagione lirica 2014 /2015
“LA CENERENTOLA”
Dramma giocoso in due atti, libretto di Jacopo Ferretti, da Perrault.
Musica di Gioachino Rossini
Don Ramiro MAXIM MIRONOV
Dandini SIMONE ALBERGHINI
Don Magnifico CARLO LEPORE
Clorinda CATERINA DI TONNO
Tisbe CANDIDA GUIDA
Alidoro LUCA TITTOTO
Angelina, detta Cenerentola SERENA MALFI
Orchestra e coro del Teatro di San Carlo
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del coro Marco Faelli
Regia Paul Curran (ripresa da Oscar Cecchi)
Scene Pasquale Grossi
Costumi Zaira de Vincentiis
Allestimento del Teatro di San Carlo
Napoli, 21 Giugno 2015
Perfino i bambini, da appassionati e partecipi lettori e uditori di fiabe, conoscono a menadito gli ingredienti per una Cenerentola esaltante: una scarpetta e un abito magnifico per la protagonista… e il lettore incredulo può verificare da sé su youtube le interviste rilasciate dai giovanissimi spettatori al termine della “Cenerentola per bambini” presentata sul palcoscenico del Teatro alla Scala nel corso di questa stagione. A sconvolgere le poche certezze di generazioni di giovanissimi filologi in erba ci ha pensato Gioachino Rossini, che nel suo adattamento del soggetto della fiaba ha eliminato sia l’elemento autenticamente magico (con Alidoro al posto della prevista fatina) che, appunto, la scarpetta (sostituita da una più appropriata smaniglia). L’intento era quindi quello di far deviare il fantastico verso il realistico, trasformare la protagonista di una fiaba in una ragazza moderna, oppressa e mortificata dalla famiglia (o meglio da brandelli di essa), ma con un carattere forte e determinato (e lo si vede fin dal suo stizzito e impervio «Via, lascaitemi cantar»), in grado di costruire da sé il proprio riscatto sociale e sovvertire il decadente ordine settecentesco.
Ma se il compositore aveva volutamente abbandonato la strada della favola, Paul Curran, nel tracciare le linee guida di questa regia, riproposta nel teatro partenopeo dopo debutto del 2003 e una discreta fortuna europea, ritorna a considerarla fonte primaria. Così, le perplessità che in parte nutrivo all’epoca del debutto della produzione, sono ritornate a far capolino nell’occasione di questa ripresa di Oscar Cecchi. Non sono, specie davanti ad un’opera buffa, contrario al cammino nei sentieri della contaminazione fra elementi o soggetti; il lettore potrà verificarlo da sé nel leggere su questo sito il mio commento ad una Cenerentola ferrarese della passata stagione (allora la regia di Lorenzo Regazzo intrecciava con intelligenza, leggerezza e ironia fiaba e opera, nel rispetto dell’una e dell’altra). La regia di Curran dichiara il medesimo intento fin dall’ouverture (eseguita a sipario aperto), ma con fini tutt’altro che ironici: nel corso del «maestoso» tempo iniziale, fra persistenti movimenti (a ritmo di musica?) dei pannelli, delle quinte, delle colonne e di ogni altro elemento costituisse la scenografia, trovava spazio la macabra pantomima della morte della matrigna per arresto cardiaco, con annesso corteo funebre sullo sfondo; il seguito della sinfonia era invece riservato ai primi battibecchi fra Cenerentola e le sorellastre. Ridotta così la musica ad opaco sfondo di una pantomima evitabile, con tali premesse la ludica leggerezza della partitura rimaneva offuscata come il sole dalle nuvole di un temporale. Al di là della divertente scena di stupore «Sapientissimo Alidoro, questo strepito cos’è?» che precede l’ingresso della protagonista a palazzo (con il maestro che prova invano a leggere il giornale, continuamente distratto dalle domande degli altri personaggi), la regia fatica nel mettere a fuoco il carattere della partitura e creatività e coerenza al servizio della musica. Curran sposta l’ambientazione al 1912 «per meglio sottolineare le differenze di classe», n.d.r.; ma la sola presenza di una macchina d’epoca, delle biciclette per l’ingresso del coro, dell’ascensore nel palazzo del principe e, più in generale, delle eleganti (e stancanti) architetture liberty pensate da Pasquale Grossi (che avrebbero necessitato di un restyling da parte delle maestranze del teatro partenopeo) non sono elementi scenici bastanti per giustificare la scelta della traslazione d’epoca. La regia per di più lascia cadere diverse situazioni musicali e vocali che avrebbero potuto essere massimamente valorizzate, come il duetto dell’incontro fra Ramiro e Cenerentola nel primo atto. Quando di contro le sollecitazioni ritmiche riescono a far presa sulla creatività del regista, si scade in una ingiustificata sommatoria di citazioni: è il caso, ad esempio, del concertato che chiude la cavatina di Dandini, del sestetto «Questo è un nodo avviluppato», dove, oltre a rimpiangere con nostalgia la febbrile concitazione rossiniana, il richiamo al mickeymousing di matrice ponnelliana è sì omaggio gradito ma estraneo ad un disegno registico complessivo. Quanto invece all’abito magnifico per la protagonista (quello del finale I), agognato dai bambini, quello disegnato da Zaira De Vincentiis se si sposava sommariamente bene con la fisicità della Ganassi, mal si adatta a quella di Serena Malfi; una volta esclusi poi quelli per Dandini (una scolastica ma elegante uniforme militare) e le sorellastre, tutti i costumi non brillano né per colori, né per fascino.
Gabriele Ferro, alla guida dell’orchestra San Carlo di Napoli, regala una lettura della partitura per molti versi estremamente raffinata e affine, per concezione, a quella già presentata anni or sono nell’incisione discografica per Fonit Cetra con Lucia Valentini Terrani. Colori preziosi dei clarinetti e corni, intriganti intarsi di archi e legni, piccanti contrappunti che lasciano rifulgere un universo di dettagli orchestrali di una musica perfettamente in grado (come poche) di fare il verso all’azione. Tuttavia questo che rimane il principale pregio del lavoro di Ferro si ritrova ad essere, in una sorta di grottesco contrappasso dantesco, causa prima delle perplessità sulla sua direzione: per ottenere tale straordinaria tavolozza di dettagli, i tempi della partitura vengono spesso dilatati a dismisura, con un conseguente scollamento fra azione drammatica e musicale. Si allenta così quella febbrile tensione che dovrebbe trasparire dalle cadenze delle arie (come in «e la gloria mia sarà» nell’aria di Magnifico); la resa dell’orchestrazione dei cori fatica a librarsi nel guizzo dello staccato sfrontato e adombra la prestazione del coro partenopeo diretto da Marco Faelli; l’ingresso di Ramiro manca di quello slancio che meriterebbe e i pezzi d’insieme risultano ingombranti zavorre dalle quali vorresti presto liberarti (con lo spettro evasivo di uno sbadiglio). In sintesi estrema, alla lettura del Maestro, è mancata una componente essenziale della musica rossiniana: il ritmo, quella dionisiaca e leggera pulsazione intima che coinvolge tutto ed entusiasma tutti.
Non ha sicuramente giovato alla freschezza dei concertati neppure la scelta delle voci per i ruoli maschili di Magnifico, Dandini e Alidoro, singolarmente ottime e adatte, ma nell’insieme timbricamente affini e quindi non sempre utili alla causa della varia tavolozza cromatica appuntata da Rossini in partitura. Carlo Lepore, una delle più affascinanti rivelazioni del belcanto per eleganza sontuosa dello stile, tornitura della frase, presta con versatilità voce a Don Magnifico e si adatta assai bene allo stile del buffo caricato e al sillabato, anche se a mio parere le sue prestazioni in questo repertorio continuano a non raggiungere i vertici di quelle offerte nelle parti di basso nobile. Simone Alberghini offre al suo collaudatissimo Dandini un invidiabile aplomb scenico, voce elegante, in particolar modo nella resa della linea melodica e nelle fioriture centrali, ma in fin dei conti priva il personaggio del necessario squillo sugli estremi acuti. L’Alidoro di Luca Tittoto è per molti aspetti lussuoso: voce scura, di bel corpo e ottima timbratura, ammirabile nel legato, in particolare su quel temibile «Cangiando va» che chiude il cantabile della sua aria. Maxim Morinov, ripresenta il modello del Ramiro contraltino, con voce non particolarmente invasiva, che, sebbene esegua tutte le note scritte in partitura, regala una prestazione complessivamente opaca, specie di ragione di talune velature che sovente si manifestano nella linea di canto. La scrittura fiorita risulta sì eseguita con la correttezza di un bravo scolaro da primo banco ma è avara dei colori dei rinforzi e degli accenti del fuoriclasse.
Serena Malfi ha dalla sua una gran voglia di cantare Rossini (e lo capisci dal piglio con cui la sua vocalità si adatta in genere alle esigenze della parte) e molte delle carte in regola per diventare negli anni una eccellente Cenerentola: anzitutto la «grazia» e l’«incanto» (parafrasando Ramiro) della figura (seppure goffamente a tratti mortificata dai costumi di Zaira de Vincentiis), il timbro caldo e brunito, che si apprezza fin dalla sua Canzone di sortita, le agilità nel registro centrale sicure e scorrevoli, sorrette da una respirazione sempre accurata, l’attenzione al senso della frase musicale (vero marchio di fabbrica dell’Angelina di rango). Ora occorre perfezionare la presenza scenica (anche se seguita da un altro regista saprà di certo valorizzare maggiormente le proprie doti attoriali), il gioco degli accenti (ad esempio in «Ah non reggo alla passione. Che crudel fatalità»), l’eleganza nell’esposizione della frase fiorita (come «Ah ci lascio proprio il core»), il rondò finale dove l’utilizzo sapiente della tecnica nella resa della temibilissima scrittura rossiniana non riesce a celare qualche affanno e qualche nota ancora acerba negli estremi acuti. Candida Guida e Caterina Di Tonno, impegnate ha garantire la tenuta teatrale della produzione con una recitazione di sicura presa ma caricata e sopra le righe, hanno però, forse in ragione di questa necessità, caricato oltremodo il canto con esiti sporadicamente sgraziati (l’una) e manieristici (l’altra). Al termine della recita, successo entusiastico per tutti i protagonisti mentre in me si rafforzava l’idea che un prestigioso teatro meritasse se non un’altra Cenerentola, per o meno una ripresa molto più accurata di questa e soprattutto un’opera sì vicino alla favola ma non con questa confusa, lontano da certa fastidiosa tendenza all’omologazione che confonde ciò che è splendidamente diverso sotto un candido velo di falsa uguaglianza. Foto Luciano Romano