Venezia, Teatro La Fenice: “Norma”

Teatro La Fenice, Stagione 2015, Lirica e Balletto
“NORMA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Felice Romani, dalla tragedia L’infanticide di Alexandre Soumet
Musica di Vincenzo Bellini
Oroveso, capo dei druidi DMITRY BELOSELSKIY
Norma, druidessa, sua figlia CARMELA REMIGIO
Pollione, proconsole romano nelle Gallie GREGORY KUNDE
Adalgisa, druidessa VERONICA SIMEONI
Flavio, romano amico di Pollione EMANUELE GIANNINO
Clotilde, ancella di Norma ANNA BORDIGNON
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Gaetano d’Espinosa
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia, scene e costumi Kara Walker
Regista collaboratrice Ann-Christin Rommen
Light designer Vilmo Furian
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 27 maggio 2015         

Prosegue la collaborazione tra la Biennale Arte di Venezia e il Teatro La Fenice, iniziata nel 2013 con Madama Butterfly, per la quale scene e costumi furono realizzati dall’artista giapponese Mariko Mori, mentre la regia era del direttore artistico della Biennale Teatro Alex Rigola. L’iniziativa è volta a riaffermare l’attualità della grande stagione operistica italiana attingendo a nuovi e diversi linguaggi relativi alle più aggiornate espressioni artistiche contemporanee. Per questo nuovo allestimento di Norma regia, scene e costumi sono stati affidati all’artista afroamericana Kara Walker (per la prima volta alle prese con una messinscena lirica), che da sempre dedica la sua attività, nell’ambito della scultura e della pittura, alla denuncia di ogni forma di violenza o di pregiudizio a sfondo razziale o sessuale: le sue silhouette di carta o di metallo, i dipinti e gli acquerelli sono concepiti per rievocare la dolorosa storia degli schiavi africani nell’America razzista come anche per farci riflettere, più in generale, sull’attualità, nella quale non mancano certo soprusi e discriminazioni verso i più deboli, dagli immigrati alle donne.   Così l’artista americana – scelta dal Teatro La Fenice proprio in forza dell’alterità della sua concezione estetica rispetto a quella che tradizionalmente impronta il nostro teatro musicale –, ha spostato il contesto temporale, in cui tradizionalmente si svolgono le vicende del capolavoro belliniano, dalla metà del primo secolo a. C. all’Ottocento e trasferito la scena dalle Gallie ad un luogo immaginario dell’Africa, lungo il fiume Ogooué, popolato da una forte comunità devota alla religione della natura, capeggiata da Oroveso, e da sua figlia Norma, la potente sacerdotessa di Irminsul, mentre il personaggio di Pollione veste i panni di un esploratore al soldo di una potenza coloniale ed è liberamente modellato sulla figura dell’italiano Pietro Savorgnan di Brazzà, il quale, grazie al suo irresistibile fascino fisico e all’uso di metodi non violenti poté consegnare alla Francia il territorio che si affaccia sulla sponda occidentale del fiume Congo. Dunque una Norma africana, che si svolge nell’età del colonialismo con tutto ciò che ne consegue a livello visivo e drammatico.
La concezione della Walker può anche essere condivisibile a livello teorico: trarre nuova linfa, nuovi significati, nuove ambientazioni sceniche da uno dei capisaldi del teatro musicale – patrimonio del mondo intero, in cui il canto raggiunge il vertice della bellezza, della purezza, dell’equilibrio – non può che essere salutato con favore, trattandosi di un’opera appunto universale, ricca come tutti i capolavori di potenzialità da esplicitare, al di là della lettura “vulgata”. Tuttavia la realizzazione concreta di questo progetto non ci ha convinto del tutto. Suggestivi i riferimenti all’Africa: le maschere, le armi, la grande maschera adagiata al centro del palco; di sobria eleganza i collage di carta bianchi e neri, cifra stilistica dell’artista, proiettati sullo sfondo, come altre immagini, a cura dello Studio GR di Venezia; bello l’impatto visivo generale, dato, in certe scene, dal contrasto tra il bianco e nero dominante e il rosso. Tuttavia, a ben guardare, i lunghi costumi rossi, scollati come muliebri prendisole, indossati dai guerrieri con tanto di lancia, francamente rasentavano il ridicolo. Poco credibili anche gli abiti bianchi non proprio aggraziati delle druidesse al pari di quello in pelle di coccodrillo, che portava Norma. Ma soprattutto lo spettacolo ha sofferto per un’eccessiva staticità imposta ai personaggi: ne ha risentito in particolare Pollione, che appariva sovente piuttosto impacciato e poco espressivo dal punto di vista gestuale nella sua orpellosa divisa da esploratore.
Di tutt’altro temperamento la direzione e concertazione di Gaetano d’Espinosa, coadiuvato da un cast di prim’ordine e da un orchestra e un coro veramente ineccepibili. Il maestro palermitano ha staccato in generale dei tempi piuttosto spediti, ma nel contempo ha saputo sottolineare, seppur talora con eccessiva sobrietà, le sfumature di questa partitura, pensata da Bellini per valorizzare appieno il canto, ma certamente pregevole anche nell’orchestrazione a dispetto di un’ingiustificato pregiudizio riguardo al compositore catanese, di cui troppo spesso si esaltano le doti di grande melodista, mentre lo si ritiene troppo essenziale nel trattamento dell’orchestra. D’Espinosa ha saputo dare unità a questo sublime melodramma, in ossequio alla volontà dell’autore stesso, che intese creare un’opera in cui i singoli pezzi potessero essere percepiti come fusi tra loro, costituendo delle unità narrative molto più ampie rispetto alla divisione in parecchi numeri presente nella partitura Ricordi. Questo si è avvertito soprattutto nel Finale ultimo, concepito dal compositore come un continuum, dove il gesto del direttore ha guidato con sicurezza e sensibilità i cantanti e l’orchestra, distillando, come altrove in questa esecuzione, un suono di cristallina purezza, nonché dando il giusto risalto alle voci.
Convincente il personaggio di Norma offerto da Carmela Remigio, che cerca un’emissione leggera per mettere in risalto il tono lirico, senza mai lasciarsi andare a certe inflessioni eccessivamente passionali che si colgono in altre interpreti. Il soprano ha esibito in generale un sicuro controllo della voce e trovato il giusto accento: soavemente lirico in “Casta diva”, agile e attento alle sfumature nella successiva cabaletta, intimamente drammatico nelle scene d’insieme e, in particolare, nel Finale dell’opera, dove si intreccia a toni patetici. Entusiasmante la prestazione di Gregory Kunde, rivelatosi ancora una volta in piena forma, che ha sfoggiato una voce smagliante nel timbro, sicura negli acuti, omogenea nei vari registri fin da “Meco all’altar di Venere” e alla successiva cabaletta, eseguite entrambe variando sobriamente il Da Capo, per poi mettersi in luce in vari altri momenti dell’opera. Di grande sensibilità l’Adalgisa di Veronica Simeoni, che, analogamente alla Remigio, punta su un’interpretazione misurata, in cui il dramma del suo amore impossibile non assuma mai accenti esteriori e si sveli, come dev’essere, con il giusto virginale ritegno. Questo anche grazie alla ricerca di un’emissione mai troppo caricata, come si è colto pienamente nei recitativi accompagnati, cifra distintiva, peraltro, dell’arte belliniana, e nei duetti rispettivamente con Pollione e Norma. Di solenne bellezza la voce del basso Dmitry Beloselskiy, timbrata ed omogenea, che ci ha regalato un Oroveso quasi ieratico. Dolcemente partecipe la Clotilde di Anna Bordignon, di sicura professionalità Emanuele Giannino nel ruolo di Flavio. Clamoroso successo per tutti.