Teatro dell’Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2014/2015
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valery EVA MEI
Flora Bervoix ANASTASIA BOLDYREVA
Annina SIMONA DI CAPUA
Alfredo Germont IVAN MAGRÌ
Giorgio Germont PAOLO GAVANELLI
Gastone ENRICO COSSUTTA
Barone Douphol FRANCESCO VERNA
Marchese d’Obigny ITALO PROFERISCE
Dottor Grenvil ALESSANDRO SPINA
Giuseppe DAVIDE CUSUMANO
Un domestico di Flora VITO LUCIANO ROBERTI
Un commissionario NICOLÒ AYROLDI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia e luci Henning Brockhaus
Scene Josef Svoboda
Costumi Giancarlo Colis
Coreografie Valentina Escobar
Allestimento della Fondazione Pergolesi Spontini
Firenze, 8 aprile 2015
In lieve anticipo sul 78° Festival del Maggio Musicale Fiorentino, si ferma a Firenze il celebre allestimento della Fondazione Pergolesi Spontini che, non a torto, sta portando la vicenda verdiana in giro per i principali palcoscenici mondiali. Prova di come sia possibile creare un impianto di forte impatto visivo dando semplicemente i tratti essenziali nella collocazione degli elementi scenici, la resa di Josef Svoboda gioca su una parete di fondo specchiata che si apre a scrigno sul levarsi del preludio, proiettando in verticale il piano orizzontale, come a stampare in diretta ed in modo indelebile la molteplice promiscuità di ciò che accade tra la borghesia parigina, dilatandone l’azione in modo immaginifico. Se il dinamismo degli inserti festivi ispirati al “divertissement” francese riproduce sinuose linee di sfondo animate, garantendo i risultati di maggior magnificenza, un tappeto-sipario posto al di sotto dell’apparato ornamentale incornicia le fasi del dramma. La loro sintesi avviene ora con immagini orgiastiche, ora col dipingersi di una casetta di campagna, ora semplicemente lasciando campo a sfumature oscure, senza dimenticare un piccolo tributo alla Marguerite Gautier di Dumas (da cui trae ispirazione l’opera di Verdi), con quel ripido campo costernato da margherite su cui prende vita il fugace duetto tra soprano e tenore del secondo atto. In un’idea che con la sua pluralità di punti di vista spinge a riflettere spontaneamente sulle sfaccettature dell’ipocrisia latente nella società, lo specchio raggiunge il suo risultato più alto nel terzo atto dove, iniziando a richiudersi, permette alla platea del teatro di specchiarsi proprio sulle note candide del “Se una pudica vergine”: siamo così gli unici testimoni della purezza sentimentale della protagonista e della sua elevazione a vera ed autentica eroina di questo melodramma.
Una volta compresa questa impostazione generale, si riesce anche a spiegare la sostanziale stabilità dell’illuminazione prevista da Henning Brockhaus, che evolve verso maggiori intenti drammatici durante il terzo atto, conferendo significativamente rilievo ai volti dei personaggi. Piuttosto superficiale risulta invece la direzione registica inter-caratteriale, ad esclusione dell’indispensabile cura delle movenze corali, come accade col turbine attoriale d’insieme (“Si ridesta in ciel l’aurora”) che preannuncia il turbamento d’amore di Violetta, regia che verte prevalentemente sul contrasto tra la veste pubblica della protagonista (quadri dispari, in cui indossa la parrucca-maschera di rito) e quella privata (quadri pari, in cui la rimuove liberando se stessa).
Più novecenteschi che ottocenteschi gli eleganti costumi di Giancarlo Colis, a cui spetta il sottile compito di operare in completa simbiosi con la componente scenica, contribuendo a determinare i colori del fondo ed a vivacizzare i bozzetti proiettati grazie all’uso di “strass” ed abiti scintillanti, insieme alle coreografie di danza neo-classica dai rimandi andalusi (Valentina Escobar).
Sul versante musicale, Zubin Mehta dischiude la partitura verso un marcato e costante alleggerimento che saggia l’opera nelle dissolvenze e delicatezze timbriche di base, accentuandone essenzialmente i riflessi più mesti. Tale scelta rischia però di portarlo verso un esito meno portante del solito ed appena uniforme nella proposizione delle soluzioni coloristiche. Si ha motivo di credere che questo tipo di direzione, che indubbiamente agevola le peculiarità solistiche nonostante gli inevitabili contrattempi col palco, sia una scelta deliberata del maestro che, infatti, resiste a stento a mantenere la coerenza della linea al momento degli “ensemble” col coro, in cui sfiora l’eccesso di volume (specialmente in attacco) con tempi aperti a dilatazioni o rallentamenti, tradendo l’usuale slancio di direzione al servizio della completa sintonia con l’apparato corale del Maggio. Dispiace dirlo, ma per una volta sembra quasi azzardata, visto il cast a disposizione, la scelta di non prevedere qualche taglio nelle riprese (per lo meno nel caso di baritono e tenore), che avviene invece nel cantabile della prima aria femminile.
Ascoltando Eva Mei si è portati a chiedersi dove sia finito il carattere di Violetta, l’accento melodrammatico, il fraseggio ambivalente, la lotta d’amore contro l’implicito crimine borghese, la battaglia contro una malattia in agguato fin dal principio, lo “streben” interiore… il suo approccio sobrio, infatti, la coglie di sorpresa all’apice della tubercolosi durante il terzo atto, poiché le ricadute tisiche del primo appaiono più come atti maldestri che come sconvolgimenti fisici. Disincantata ed in balia di un destino che, dipendesse da lei, non può che compiersi, il soprano esibisce un rotondo registro centrale di buon squillo che sale assottigliandosi verso l’area acuta, in cui una voce di natura moderata si affievolisce ulteriormente, per ricadere con toni più duri negli estremi inferiori del pentagramma, dopo il passaggio da qualche inflessione di petto. L’interpretazione, che ha il pregio di eseguire con grande precisione tutti gli abbellimenti della parte sfoggiando agilità fluide che non si perturbano neppure negli staccati finali del “Sempre libera”, soffre in generale per assenza di carisma vocale, essenziale in un ruolo del genere. È così che i ghirigori del duetto con Alfredo del primo atto sono solo abbozzati nel volume e tenuti al minimo dell’indispensabile, la tessitura acuta del primo quadro sempre sfiorata e mai svettante fino ad un mi bemolle sovracuto che mostra ancora ben poco margine nella salita, confinando il canto al mezzo-piano senza trascinamenti particolari, mentre un mezzo vocale che perde spessore in alto la rende poco influente in alcuni tratti delle scene d’insieme, specialmente nelle puntature del brindisi e del concertato di fine atto secondo. Perdonandole l’imperizia tecnica dovuta ad un insufficiente sostegno del suono che la obbliga a riprendere improvvisamente fiato durante un “Amami Alfredo” che già stentava a galleggiare sul golfo mistico, l’ultimo atto è caratterizzato da una crescente attenzione nella dinamica, soprattutto verso il piano, già anticipata nel “Dite alla giovane” (unico punto di vero “pathos”). In generale, però, permane una pesante uniformità interpretativa e vocale con la prima parte dell’opera, in sezioni in cui si sarebbero potute distinguere scelte cromatiche assai più profonde, invece della loro riduzione a diligenti legati e note di chiusura giusto appena smorzate. Un’esecuzione dunque complessivamente corretta, senza ulteriori pretese.
Lasciata la protagonista, il resto del cast volge verso note più dolenti.
Arido nel timbro ed acerbo nella recitazione, Ivan Magrì sembra avvicinarsi ad Alfredo soltanto nei momenti in recitativo, dove emerge l’impegno verso una personalità più dirompente in complementarietà con un maggiore studio del fraseggio e della scansione delle frasi. Grazie al farsi più centrale della scrittura del terzo atto che ne evidenzia, se non proprio eleganza timbrica, per lo meno un maggior controllo emissivo in un personaggio che rimane sullo sfondo per tutta la rappresentazione, riesce tutto sommato a risolvere il duetto finale senza inficiare particolarmente il canto dell’amata, come al momento del “Parigi, o cara”. Gli gioca però a sfavore l’esordio nel brindisi, in cui un vibrato a tratti stretto, frullato, è l’espediente per appianare tutti gli ornamenti virtuosi di transizione, mentre i rimbalzi nell’approdo al registro acuto, spesso ingolato, stemperano l’effetto romantico con acuti che risuonano schiacciati, sgraziatezza nelle legature, forte stabilità di dinamica (mezzo-forte) ed incertezza nel passaggio. Peggiorativa è poi l’apertura del secondo atto in cui, oltre a mostrare difficoltà nella tenuta dei suoni, insensibilità nelle preziose potenzialità coloristiche del cantabile, evidenzia difficoltà nell’incalzare ritmico della cabaletta che viene eseguita senza ridondanza strofica e con risalite di pentagramma aggressive, talvolta dall’intonazione precaria prima dello stabilizzarsi col vibrato, concedendosi l’omissibile “prodezza” del do naturale sovracuto conclusivo.
Scivola ancor più sugli specchi l’interpretazione di Paolo Gavanelli come Giorgio Germont. La tempra del personaggio, fondamentale nel duetto col soprano per segnare il passaggio dalla “peripezia” alla “catastrofe”, viene infatti subissata da un continuo dissestamento emissivo e, più in generale, dalla fissità d’impostazione di una voce all’indietro che sembra trovare un apparente equilibrio solamente nella cauta resa delle inserzioni centrali e nei rallentati ondeggiamenti dei pochi passaggi tecnici recuperati dalla partitura, contribuendo a quel fare dall’aria tronfia con cui il baritono affronta indistintamente tutto il ruolo. Qualche intenzione drammatica ci sarebbe anche ed il volume, almeno in zona non estremale, potrebbe forse essere robusto; tuttavia questo è niente rispetto all’assenza di “canto” del suo Germont, che troppo spesso cede a forzature, sgradevoli aperture ed occlusioni gutturali od indistinti gorgoglii in basso, senza soffermarsi troppo su un’intonazione sporadicamente incerta o su un registro acuto la cui emissione sembra in più occasioni lì lì per interrompersi, mentre addirittura più infelici sono i tentativi di rinforzo nella tenuta, il cui deragliamento timbrico incontrollato desta perplessità sconfortanti.
Dignitoso il panorama dei personaggi secondari capeggiato dalla proiezione nitida e la preparazione nel fraseggio di Simona Di Capua (Annina), passando per Anastasia Boldyreva (Flora di statuaria presenza scenica ma dal timbro ovattato), Enrico Cossutta (Gastone dal mezzo vocale un po’ ingrigito rispetto alla freschezza del ruolo), il dottor Grenvil di Alessandro Spina (basso abbastanza chiaro dalle inflessioni gentili), Francesco Verna ed Italo Proferisce (di emissioni perfettibili) nei ruoli rispettivamente del barone Douphol e del marchese d’Obigny, mentre Davide Cusumano, Vito Luciano Roberti e Nicolò Ayroldi intervengono con convinzione come Giuseppe, domestico di Flora e commissionario.
Alle prese con un “must” del settore, il coro del Maggio Musicale Fiorentino conferma ancora una volta di essere in grado non solamente di prodigarsi con efficacia nella scrittura corale che lo vede protagonista all’inizio del secondo quadro del secondo atto, ma anche di concorrere con vivacità e cognizione di causa alla creazione del substrato di ceti che contorna la vita cortigiana parigina, seguendo il maestro Lorenzo Fratini nelle caleidoscopiche modulazioni della parte ed inserendosi adeguatamente nei concertati d’insieme, coerentemente con l’impronta della direzione d’orchestra.
Dopo la riuscita sfumatura illusoria del finale, una sala gremita, che durante lo svolgimento ha dato prova di conoscere oltre che di amare questo melodramma senza sconfinare in interruzioni superflue, si lascia trasportare in generosi applausi per tutti gli interpreti principali, in realtà forse più diretti a Verdi ed al trionfo di questa sua unica composizione. Foto (C) Simone Donati / TerraProject / Contrasto’