Teatro alla Scala di Milano, 1 marzo 1958
Recentemente ripresa in diversi teatri dal direttore Donato Renzetti e dal basso Ferruccio Furlanetto che ha indossato le vesti del protagonista, Assassinio nella cattedrale è probabilmente l’opera più popolare di Pizzetti nonostante sia stata eseguita piuttosto raramente dopo la morte del compositore. Dopo la prima rappresentazione avvenuta al Teatro alla Scala di Milano il 1 marzo 1958 sotto la direzione di Gianandrea Gavazzeni, con Nicola Rossi-Lemeni (Thomas Becket), Leyla Gencer (1°corifea), l’opera vantò altre ben nove riprese mentre il compositore era ancora in vita, tra le quali spicca certamente quella del Teatro Regio di Parma il 16 gennaio 1968 a un mese esatto dalla sua morte. Anche Von Karajan si interessò all’opera e la incise diverse volte tra il 1960 e il 1964 in una versione tedesca.
Tratta dal dramma di Thomas Stearms Eliot, l’opera di Pizzetti ha come sfondo storico le vicende che interessarono i rapporti spesso conflittuali tra potere religioso e potere politico nell’Inghilterra del XII sec.. Il problema, in quel secolo, era aggravato dal fatto che i due poteri non sempre erano separabili, in quanto accadeva spesso ai grandi feudatari del regno, i cosiddetti baroni, di assumere cariche ecclesiastiche e viceversa, ai prelati , di ottenere facilmente dal re la titolarità dei feudi. Thomas Becket, il protagonista, in gioventù aveva goduto dei favori del re tanto da essere ammesso a partecipare a tutte le feste e a tutti i ricevimenti di corte che gli avevano permesso di condurre una vita dedicata ai piaceri, ai divertimenti senza alcuna preoccupazione per il futuro e, desideroso solo di applicare quotidianamente i principi dell’oraziano carpe diem. Si era dedicato poi alla carriera politica nella quale aveva espresso doti così straordinarie da raggiungere la nomina a cancelliere del regno. Così aveva continuato a godere non soltanto dell’amicizia del re, ma aveva acquisito anche un potere politico enorme di cui si era servito per esercitare le funzioni di governo con mano ferma e inflessibile; infine con le dimissioni da cancelliere, aveva abbandonato la carriera politica e intrapreso quella ecclesiastica fino a ricevere la nomina, per disposizione del pontefice romano, di arcivescovo di Canterbury. Nell’adempimento di tale incarico egli aveva dato prova di straordinaria efficienza associata alla pratica delle virtù cristiane tanto da meritarsi la stima e l’affetto di tutti i fedeli; tuttavia i contrasti con il potere politico si erano resi sempre più gravi tanto da compromettere i rapporti con lo stesso monarca e da costringerlo a prendere la via dell’esilio in terra di Francia. Il suo desiderio di fare ritorno in patria non era venuto mai meno e, non appena i contrasti politico-religiosi si attenuarono, egli si imbarcò per l’Inghilterra dove, accolto dai fedeli con gioia e grandi manifestazioni d’affetto, riprese possesso della sua arcidiocesi, di cui aveva conservato, negli anni, la titolarità. La notizia dell’arrivo dell’arcivescovo si propagò con celerità e nell’arcidiocesi fervevano i preparativi, da parte del clero, per l’accoglienza.
Il sipario del primo atto si apre su un nutrito corteo di donne che si dirige da una strada attigua verso la cattedrale. Le donne, pur amando e stimando il loro arcivescovo, che si preparano ad accogliere con deferente affetto, vorrebbero, preoccupate per la sua incolumità, che egli facesse ritorno in Francia, temendo di essere costrette, in caso contrario, di dover essere testimoni di eventi terribili. Lo stesso arcivescovo sa che i pronostici per l’immediato futuro non sono affatto rosei perché sono molti i rischi che avrebbe dovuto affrontare a causa del numero e dell’irriducibile ostilità dei suoi nemici che, per il momento, sembrano volerlo lasciare in pace, ma che, alla prima occasione, manifesterebbero tutta la loro pericolosità e aggressività. Egli, tuttavia, obbedendo a Dio che lo aveva scelto come pastore dell’arcidiocesi di Canterbury, vede con chiarezza la strada da percorrere e con volontà, resa inflessibile dalla consapevolezza dei suoi doveri di sacerdote, intende seguirla fino in fondo anche a costo della vita. Di ritorno dalla cattedrale, dove aveva benedetto la folla dei fedeli, Thomas Becket, seguito dai sacerdoti, si ritira nel suo studio all’arcivescovado, dove vuole riflettere in tutta tranquillità sui futuri, possibili sviluppi della situazione politico-religiosa. Nella stanza in cui, solo con se stesso, egli si trova immerso nei suoi pensieri, sembrano materializzarsi, come se assumessero la forma di persone in carne e ossa, alcune tra le tentazioni più seducenti, illusorie, ingannevoli, contro cui egli si accinge a lottare strenuamente con la forza d’animo che gli deriva dall’amore verso Dio e verso il suo gregge. Le prime due tentazioni scaturiscono dai ricordi del passato, cioè dei divertimenti giovanili la prima, della brillante carriera politica, la seconda. Il primo tentatore gli ricorda che un tempo, durante la giovinezza, aveva goduto dell’amicizia del re, con cui aveva condiviso i piacevoli e spregiudicati divertimenti frequenti a corte e che comprendevano la conoscenza delle belle dame dell’alta società, nonché la partecipazione a feste e banchetti in cui non mancavano di esibirsi provetti musicisti e danzatori. Thomas Becket non ha difficoltà a respingere questa tentazione scaturita dal ricordo di un passato molto lontano e destinato a non potersi mai più ripetere. Scomparso il primo tentatore se ne presenta, accompagnato da due cavalieri, un secondo che gli ricorda i fatti più recenti della sua carriera politica fino alla nomina a cancelliere. Thomas Becket, come cancelliere, aveva esercitato un potere forse superiore a quello dello stesso re, in quanto, appartenendo alla sua esclusiva competenza tutte le funzioni di governo affidategli, egli era in grado di dimostrare, nella quotidiana prassi della vita politica, la validità del vecchio adagio secondo cui il re regna, ma non governa. Il tentatore aggiunge che sarebbe molto facile, per un uomo con le qualità di Thomas Becket, ottenere di nuovo il titolo di cancelliere, esercitarne le funzioni e, soprattutto, i poteri politici relativi che sono e sarebbero anche per il futuro enormi. Anche le lusinghe e gli inganni, dissimulati ad arte nella tentazione, vengono respinti con forte e serena determinazione e, altresì, con l’immutata coerenza di chi, rifiutandosi di scendere a patti con la propria coscienza, intende mantenersi fedele al principio dello scrupoloso adempimento dei doveri da compiere nella sua posizione di arcivescovo. Thomas Becket fa notare al suo interlocutore come, pur mantenendosi fedele al re, non intende abbassarsi, umiliarsi fino a diventare uno dei tanti servi del monarca, cosa che immancabilmente si verificherebbe se accettasse di essere reintegrato nella carica di cancelliere; ricorda, altresì, che il potere religioso è superiore a quello politico e che la chiesa, attraverso il papa e i vescovi successori degli Apostoli, ha il diritto di giudicare i re sulla base del mandato ricevuto dallo stesso Gesù che aveva dato loro il potere di legare e di sciogliere. Il secondo tentatore e i cavalieri che lo accompagnano si allontanano ed ecco, subito dopo, presentarsi, al cospetto dell’arcivescovo un terzo, latore di una proposta ancora più allettante. Il tentatore propone, infatti, all’arcivescovo di porsi a capo del partito politico che vuole restituire al popolo normanno la sovranità sulla terra d’Inghilterra, garantendo così alla Chiesa, attraverso l’alleanza con la collettività nazionale, una supremazia sul re e sulla sua corte. Becket risponde di non avere alcuna intenzione di tradire il re e di riporre la propria fiducia solo in Dio, per cui anche il terzo tentatore è costretto, sconfitto, ad allontanarsi. Il quarto tentatore, di cui l’arcivescovo osserva la gigantesca ombra sinistra proiettata in fondo sulla parete dello studio, è più lusinghiero, più insidioso, in ultima analisi, più subdolo perché cerca di scardinare le stesse certezze sulle quali l’arcivescovo ha fondato l’esercizio della sua missione sacerdotale. Il tentatore gli fa notare che il desiderio di raggiungere la santità attraverso il martirio è proprio la strada da seguire per un sacerdote che voglia regnare per sempre, dopo morto, addirittura dalla tomba che ne custodirebbe le spoglie mortali. Non è forse vero, infatti, che le tombe dei Santi e dei martiri sono oggetto di venerazione da parte di tutti i fedeli i quali, considerandoli patroni dell’intera comunità, rivolgono loro preghiere per essere assistiti nelle loro vicissitudini quotidiane? Il carattere più subdolo, più pericoloso di questa quarta ultima tentazione dipende dal fatto che non proviene dall’esterno, ma ha la sua scaturigine nell’interiorità più profonda, imperscrutabile e inaccessibile della coscienza dell’arcivescovo che, per agire e soffrire con umiltà, non dovrebbe desiderare né la santità, né il martirio, ma, confidando esclusivamente nella bontà di Dio, sperare di ottenerli solo dalle sue mani come premi per essere stato intransigente e costante nell’adempimento della volontà divina; pertanto, se nel desiderio della santità e del martirio è adombrato un peccato di orgoglio tipico di chi vuole raggiungere gli onori degli altari, all’arcivescovo non rimane altro se non reprimerlo per affidarsi umilmente, totalmente, ma anche serenamente e coraggiosamente alla volontà di Dio che opera sempre per il bene dei suoi figli e sa ricavarlo provvidenzialmente anche dal male. Il desiderio della santità e del martirio è legittimo, ma può diventare peccaminoso per l’orgoglio che è sempre in agguato, per cui l’arcivescovo comprende, con sgomento, che il tentatore, per rendere irresistibile la tentazione, ha fatto leva sul suo orgoglio mai del tutto sopito. Quando Thomas Becket chiede al quarto tentatore il suo nome e soprattutto che cosa vuole in realtà, si sente rispondere che chiede e desidera ciò che egli stesso può dare e desiderare. Anche la quarta tentazione è decisamente respinta non senza che i quattro tentatori, prima di allontanarsi tutti insieme abbiano rimproverato all’arcivescovo la sua ostinazione e cecità spirituale – non ha, infatti, compreso come tutto nella vita è inganno e illusione – e che smarrito nel pensiero stupefacente della propria grandezza, abbia compiuto un itinerario mentale lastricato di inganni, diventando nella sostanza nemico della società e, soprattutto, di se stesso. L’arcivescovo, ormai vittorioso sulle tentazioni ordite dal maligno, prega intensamente ai piedi del Crocifisso e rialzatosi, si dirige verso la cattedrale per adempiere le funzioni religiose rituali nel giorno di Natale dell’anno 1170. Dopo alcuni giorni dalla celebrazione del Natale, trovandosi l’arcivescovo all’interno della Cattedrale, è informato dell’arrivo di quattro cavalieri che chiedevano di parlargli con molta urgenza e in privato. I quattro, alla sua presenza, dicendo di parlare in nome del re, lo accusano di tradimento nei confronti del monarca e di aver cospirato, in esilio, per esasperare i contrasti tra Francia e Inghilterra e tra il Papato e la chiesa inglese; gli ingiungono, quindi, di sottomettersi alla volontà del re o, in caso contrario, di abbandonare l’Inghilterra. L’arcivescovo respinge tutte le accuse e ribadisce la sua ferma intenzione di non abbandonare mai più la sua arcidiocesi. I quattro cavalieri per il momento si allontanano, ma minacciano di ritornare con le armi in pugno facendogli così chiaramente intendere le loro intenzioni omicide. Il clero e i fedeli, rendendosi conto della minaccia di morte nei confronti dell’arcivescovo, nel tentativo di salvarlo, sprangano le porte della cattedrale, ma i quattro cavalieri, con le armi in pugno, riescono ad entrare e, raggiunto l’altare, lo uccidono con inaudita ferocia. L’assassinio è così consumato e il sangue di un nuovo martire si aggiunge a quello versato nella lunga storia del Cristianesimo.
Probabilmente Pizzetti era venuto in contatto con il dramma di Thomas Stearn Eliot già nel 1936, prima leggendolo e soltanto dopo assistendo ad una rappresentazione durante la quale la moglie gli avrebbe fatto notare alcune interessanti caratteristiche. Solo nel 1956 e, quindi, ben vent’anni dopo, il compositore si sentì pronto a farne un dramma musicale. Perché tutto questo tempo? La tesi più plausibile è che lo stile e la drammaturgia di Pizzetti era maturata tanto da far sì che effettivamente Assassinio nella Cattedrale costituisca forse il vertice della sua drammaturgia in quanto assoluta protagonista è la parola che la musica contribuisce ad esaltare in una perfetta sintesi. È ciò che accade, per esempio, nell’introduttiva scena corale, dove la preoccupazione delle donne per la sorte dell’arcivescovo si esprime attraverso una scrittura agitata sia nella parte dell’orchestra che in quella vocale. L’ingresso dell’arcivescovo è marcato da un netto cambio di scrittura che si abbandona ad un lirismo più semplice, mentre più tormentato appare il percorso musicale nella scena dei tentatori conclusa da una frase risoluta Or la strada m’è chiara. Di grande suggestione per la sua forza musicale è, infine, l’Intermezzo.
La presente guida all’ascolto è tratta dal libro di Riccardo Viagrande, Ildebrando Pizzetti. Compositore, poeta e critico, Casa Musicale Eco, Monza, 2013, pp. 95-99. Si ringrazia l’editore per aver concesso la pubblicazione di questo estratto