Madrid, Auditorio Nacional de Música, Fundación Scherzo – XX Ciclo de Grandes Intérpretes
Pianoforte Grigori Sokolov
Johann Sebastian Bach: Partita n. 1 in Si bemolle maggiore BWV 825
Ludwig van Beethoven: Sonata per pianoforte n. 7 in re maggiore, op. 10 n. 3
Franz Schubert: Sonata per pianoforte in la minore, D 784; Sei Momenti musicali, D 780
Madrid, 9 marzo 2015
Entra quasi con timidezza, raggiunge velocemente il pianoforte; un piccolo inchino alla platea, uno al pubblico stipato nel coro, poi si siede e attacca subito. Bach, Beethoven, Schubert. Il programma è importante per più motivi: non soltanto una linea di sviluppo storico-musicale in generale, ma soprattutto una trasformazione nella concezione dell’opera per tastiera. Nella riduzione antologica imposta dalle consuetudini concertistiche, quello che Grigori Sokolov propone all’Auditorio Nacional de Música di Madrid per la XX stagione dei Grandes Intérpretes della Fundación Scherzo è la sintesi di tale trasformazione, e al tempo stesso l’espressione di una poetica personale che, forse, oggi non ha confronto per profondità interpretativa, ascetico approccio, tecnica impeccabile.
Con uno straordinario equilibrio delle due mani, il cui ruolo si segue tuttavia sempre distintamente, inizia il Praeludium della partita bachiana: sobria e netta la sonorità della destra, moderatamente squillante la sinistra; e le due fuse insieme in un indicibile esito di leggerezza, che è cifra e segreto del pianismo di Sokolov. Anche i passaggi più virtuosistici (come arpeggi e trilli dell’Allemande) obbediscono alla regola stilistica della leggerezza, fino a quando non se ne impone una più importante: quella della scansione del tempo musicale, soggetto a una sospensione in cui il pianista plasma i suoni uno per uno, costruendo ondulazioni dolcissime e increspature più volitive.
Il pubblico pare appena rendersi conto della meraviglia sonora cui assiste, tanto è soggiogato dalla personalità modesta e insieme superba di Sokolov. Il quale, senza indugiare, attacca il Presto della sonata di Beethoven come se stesse ancora suonando Bach, con la medesima leggerezza, striata però di inquietudini e tremiti nuovi. Con lo sviluppo le frasi acquistano volume e spessore, e il passaggio ai tempi centrali (Largo e mesto – Minuetto: Allegro) si dipana come un percorso esistenziale che recupera il passato, lo scompone, lo scandisce in momenti unici: quel che accade nel finale Largo e Mesto ripete quanto già verificatosi in Bach, in ossequio a una coerenza di ricerca che investe ogni brano. Finalmente giungono anche vigore e festosa popolarità, ancorché attraversati da pensoso imbarazzo e da timidezza scontrosa; si percepisce come le emozioni ricercate dal pianista condensino esperienze di vita, senza ridursi mai all’esigenza banale di raccontare una storia, di narrare una vicenda. Al termine della pagina beethoveniana il pubblico è già surriscaldato, e rende omaggio sentito all’artista.
La seconda parte del programma è interamente schubertiana; ma il Beethoven da poco concluso non è trascorso invano: l’Allegro giusto della Sonata in la minore si apre in tutta naturalezza proprio con inquietudini beethoveniane, che gradatamente virano nelle eleganze del periodare schubertiano. Le delicatezze melodiche si ripetono in forma sempre diversa, ora più languida ora più affilata, a determinare in una chiave personalissima quella celebre “divina lunghezza” di cui Schumann parlava per riferirsi alle sonate dell’amico. Ma non sembra affatto lunga, questa sonata; anzi, corre via come un unico brano, che nella visione di Sokolov alterna sempre sofferta contemplazione e gioiosa discorsività (tensione che anticipa la complessità di Bruckner). Gli ascoltatori sono ora entusiasti, la loro partecipazione emozionale si sta liberando tutta verso il pianista, che senza uscire neppure una volta inizia i Momenti musicali.
L’esecuzione è semplicemente magistrale: sembra un compendio di bravure diverse, e soprattutto sembra di ascoltare per la prima volta – per comprenderla bene – la serie dei Momenti. A partire dal senso della parola, perché il pianista non aspira a rappresentare fasi o periodi dell’esistenza, bensì circostanze mentali, come i ricordi, appunto singole e determinate occasioni: l’ampiezza di fraseggio del n. 1 (Moderato), le sfumature e i chiaroscuri del n. 2 (Andantino) e del n. 6 (Allegretto), gli arpeggi sotterranei e nascosti del n. 3 (Allegro moderato, la celebre piccola marcia) oppure più coraggiosi nel n. 5 (Allegro vivace), gli accenti del n. 4 (Moderato); tutto conferisce alla scrittura musicale una vita sua propria, che è come quella degli esseri viventi, perché le frasi respirano grazie a Sokolov, ossia si animano di quel regolare sussulto che è carattere primo di ogni essere vivente. E questa, oltre alla leggerezza, è un’altra ragione che rende unica e straordinaria l’arte del pianista russo. Il pubblico coglie tutto, e si abbandona a un entusiasmo inarrestabile: al rientro del solista esplode un boato di grida e di acclamazioni, che Sokolov accoglie senza alcun compiacimento. Egli non si ferma mai: i due piccoli inchini, e poi via, di filato, come per sottrarsi a tanto frastuono. Ma interiormente è commosso e grato; lo si può intuire dalla generosità con cui repentinamente si siede e attacca un bis, il primo di una inaspettata e vertiginosa sequenza. Si susseguono gemme chopinniane, una dopo l’altra, talmente belle da stordire il pubblico dell’Auditorio.
Una seconda, una terza, una quarta, una quinta, si perde il conto … Da più di mezzora, ormai, il programma ufficiale è terminato, ma gli ascoltatori continuano ad applaudire e a festeggiare Sokolov; ed egli, senza mutare atteggiamento, si risiede e suona, ancora, con la stessa intensità ma senza gli effetti spettacolari tipici dei “fuori programma”; suona Chopin con un equilibrio e una forza che non hanno nulla di sentimentale; poi un corale bachiano insieme severo e consolante. Accade qualcosa di straordinario, perché il concerto si moltiplica, produce da sé una terza parte non prevista, e tanto più entusiasmante, deflagra in leggenda ancor prima di terminare (come il famoso recital di Salisburgo del 2008, divenuto poi doppio album di Deutsche Grammophon). Risulta perfino inutile tentare di incasellare brani e scelte interpretative, quando si è coinvolti in un tale vortice di gioia collettiva, quando a imporsi è la pura e vitale bellezza della musica.