George Frideric Handel: “Mi palpita il cor”, HWV 132a, per soprano, oboe e basso continuo; “Pensieri notturni di Filli” (Nel dolce dell’oblio), HWV 134, per soprano, flauto e basso continuo. Alessandro Scarlatti: “Filli tu sai s’io t’amo”, per soprano, flauti e basso continuo. George Frideric Handel: Sonata per oboe solo, HWV 357, per oboe e basso continuo. Alessandro Scarlatti: Bella s’io t’amo, per soprano, flauto e continuo. Francesco Mancini: Sonata No. 1 per flauto e continuo. Antonio Lotti: Ti sento, O Dio bendato, per soprano, oboe e continuo. Concentus VII, Emily Atkinson (soprano), Louise Strickland (flauto), Belinda Paul (oboe e flauto), Amélie Addison (violoncello), Martin Knizia (clavicordo).Registrazione, St John’s Church, Loughton, Essex, 26-29 agosto 2013. 1 CD Resonus, London 2015.
Almeno sin dalla prima metà dell’Ottocento divenne di moda disprezzare con snobismo le pastorelle e i pastori d’Arcadia, screditarne la “rimeria”, sottolineare la monotona inverosimiglianza delle situazioni e, tutto sommato, l’inutilità di quel fenomeno artistico. La tendenza semplificatrice perdura tuttora, e anche per colpa dello stesso melodramma (che alla matrice arcadica deve invece più di un motivo della sua internazionale fortuna): basti pensare alla ridicolizzazione cui “il Settecento” è sottoposto in opere come Andrea Chénier (e in parte anche in Adriana Lecouvreur e Manon Lescaut). Scegliere il titolo Et in Arcadia ego per rivalutare in sede musicale la cantata italiana di ambientazione agreste, racchiusa nell’ambito cronologico dei primi anni del XVIII secolo (Filli tu sai ch’io t’amo di Scarlatti è datata 1701; Händel è a Roma nel 1706 e ancora l’anno successivo), è però una scelta solo in parte condivisibile: se soddisfa la metafora di una comunità musicale appagata dalla condivisione di stilemi e di ambientazioni artistiche, oltre che di un gusto poetico perfettamente individuabile, fa un piccolo torto al coté pittorico da cui il motto in effetti deriva. Ed è un poco riprovevole che le note di Belinda Paul e Louise Strickland a corredo del disco – note improntate a storico-filologica precisione sulla nascita dell’Accademia d’Arcadia e sulla provenienza dei documenti musicali – nulla dicano sul titolo scelto. L’eccezionale quadro di Guercino, Et in Arcadia ego, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, fu realizzato tra 1618 e 1622 circa, ossia quasi quarant’anni prima che nascesse quel sodalizio di letterati e artisti attorno alla regina Cristina di Svezia (nel 1656), che si sarebbe ufficializzato quale omaggio postumo alla sovrana nella Pontifica Accademia degli Arcadi (fondata nel 1690). Per di più, il motto inciso sulla rozza ara guerciniana è certamente connesso a una situazione di morte, a un epigramma funebre, non già di idilliaca condivisione e di ameno restauro del “buon gusto poetico” dopo le bizzarrie del Barocco, come conferma la ripresa di Nicolas Poussin, Les bergers d’Arcadie, di circa vent’anni successiva e oggi al Louvre; anche in questo secondo quadro i pastori sono impegnati a decifrare un’enigmatica iscrizione. Dopo il celebre studio di Erwin Panofsky su Poussin e le ricerche di Francesco Della Corte non si dovrebbe ignorare che probabilmente, grazie all’intreccio di dati provenienti da Svetonio e da Ausonio, l’iscrizione sia riferibile alla tomba di Terenzio, morto appunto in Arcadia mentre le sue commedie erano ovunque felicemente rappresentate: <proferunt in scaenam meae fabulae> et in Arcadia ego <iaceo> (Della Corte in «Maia», XVI, 1964, pp. 350-353).
Emily Atkinson è protagonista vocale dell’incisione discografica, in quanto a lei sono affidate due cantate di Händel, due di Scarlatti e una di Lotti. Il soprano americano (ma dal curriculum soprattutto londinese) costituisce un modello tipico di cantante barocco di scuola inglese: la linea vocale è omogenea e corretta, e insiste sulla fermezza dei singoli suoni; ma gli armonici sono pochi, ma non c’è vibrazione alcuna (sostituita, anzi, dalla tendenza alla fissità del suono tenuto), ma latitano i colori, ma – da ultimo – la pronuncia e il fraseggio della poesia italiana sono inesistenti. Se si leggono i testi – opportunamente raccolti nel libretto che accompagna il disco – ci si accorge subito della loro umiltà stilistica e della ricorrenza di motivi identici; però variano in modo interessante i metri (il settenario che domina nei recitativi si alterna all’ottonario nelle arie), nonché le situazioni affettive rappresentate ed evocate; è poesia appena antecedente ai primi melodrammi metastasiani, redatta per servire un’occasione musicale di immediata esecuzione, come quella della cantata da camera. Ma alla varietà di affetti e di languori dei testi non corrisponde affatto un’adeguata interpretazione vocale: Händel, Scarlatti, Lotti, sono eseguiti dal soprano tutti allo stesso modo.
Stupenda invece è la sonata per oboe di Händel, in cui Belinda Paul (la stessa curatrice delle note nel booklet) diffonde tutti quei colori e quelle sfumature timbriche che mancano nella voce della Atkinson; e così l’effetto del contributo händeliano della silloge si salva grazie allo strumento a fiato e al basso continuo del Concentus VII, assai più che grazie al canto. Il disco è quindi un prodotto dei nostri tempi, elegante, alquanto pretenzioso, tecnicamente inappuntabile, però debole in alcuni aspetti, sia nelle ragioni didascaliche sia nelle esigenze espressive. Della complessità storica del fenomeno arcadico, radicato nel dramma pastorale di fine Cinquecento, e dunque niente affatto originario del Settecento, emerge ben poco; del virtuosismo vocale della cantata da camera romana, ancora meno (per non dire nulla). Evidentemente importava di più riesumare un titolo intrigante (perché misterioso, frammentario, incomprensibile), che non cessa di affascinare gli artisti, come denota l’alquanto stucchevole ultima (?) riscrittura pittorica: Et in Arcadia ego di Martha Mayer Erlebacher (opera del 1993, alla Seraphin Gallery di Philadelphia).