Tragédie lyrique in un prologo e tre atti su testo di Victorien Sardou e Pierre-Barthélemy Gheusi. Catherine Hunold (Floria), Julia Gertseva (Livie), Jean Teitgen (Le Récitant, Scaurus), Edgardas Montvidas (Marcomir), Shawn Mathey (Le Veilleur), Philippe Rouillon (Hildibrath), Tigran Guiragosyan (Premier Habitant), Laurent Pouliaude (Second Habitant), Ghezlane Hanzazi (Une Femme). Orchestre Symphonique et Coer Lyrique Saint-Étienne Loire, direttore Laurent Campellone. Registrazione: Opéra Théatre de Saint-Étienne, 14-17 febbraio 2014. T.Time:120′ 2 CD Palazzetto Bru Zane vol. 8.
Il 1869 rappresenta un momento importante per la storia del teatro musicale francese; terminati i restauri, viene infatti riaperto al pubblico il teatro romano di Orange che, costruito in età augusteo-tiberiana, è fra gli edifici destinati agli spettacoli meglio conservati dell’occidente romanizzato. La nascita di un festival musicale nella città provenzale – che dal 1899 prenderà il nome di Chorégie – voleva rappresentare una risposta mediterranea e latina al modello germanico rappresentato da Bayreuth, tematica che diverrà di ancor più stringente attualità dopo la disastrosa guerra del 1870 che vedrà il Secondo Impero francese umiliato nella battaglia di Sedan dalla crescente potenza prussiana in sempre più rapida ascesa.
Proprio nel clima dei mesi successivi a Sedan e sullo slancio del desiderio di rivincita francese dopo l’umiliazione subita nasce il progetto di “Les barbares”, ambiziosa celebrazione della latinità francese affidata a due delle personalità più in vista del tempo, il compositore Camille Saint-Saëns e il drammaturgo Victorien Sardou.
La vicenda ambientata nella stessa Orange al tempo delle scorrerie in Provenza dei Cimbri e dei Teutoni (102 a.C.) è connotata da precise valenze celebrative a costo di forzature storiche pesantissime tali da togliere ogni verosimiglianza alla vicenda. La volontà di far coincidere luogo della vicenda e luogo di rappresentazione comporta un’anticipazione di circa un secolo rispetto all’effettiva affermazione di Orange come città romana – successiva alle deduzioni cesariane e definitivamente compiuta solo con quelle augustee – e porta ad eliminare qualunque spazio all’elemento indigeno al tempo assolutamente predominante. Nel libretto di Sardou non c’è spazio per il mondo gallico e celtico ma tutto si polarizza nella contrapposizione fra l’elemento romano e quello germanico, diventando così proiezione storica della contrapposizione franco-prussiana di quegli anni.
Le ambizioni si trovarono però rapidamente a scontrarsi con la realtà oggettiva del contesto, in quanto Orange rimaneva una città di provincia incapace di accogliere e ospitare la massa di visitatori attirati dagli spettacoli che si trovava quindi costretta a pernottare ad Avignone. Saint-Saëns si trovo quindi costretto ad una drastica riduzione del progetto originario creando un’opera di dimensioni decisamente ridotte per gli standard francesi del tempo ma la cui lunghezza era condizionata dall’orario dell’ultimo treno per Avignone. Necessità quindi di un gran numero di tagli attuati dallo stesso compositore che hanno modificato in modo radicale l’originaria concezione di Sardou e Gheusi. La fortuna non era comunque dalla parte degli autori e il progetto venne accantonato dal programma delle manifestazioni musicali di Orange per poter vedere la luce solo nel 1901 a Parigi – in un clima musicale ormai radicalmente mutato – dove ricevette una spietata stroncatura da parte Debussy.
La recentissima ripresa da parte del Festival di Saint-Étienne, prontamente diffusa in CD dalla Fondazione Palazzetto Bru Zane, permette di farsi un’idea di un’opera che non si può certo definire un capolavoro ma che non manca di interesse soprattutto per il suo carattere sperimentale. Se esiste un aggettivo per definire l’arte di Saint-Saëns, quello è pompier da intendere però senza il disprezzo con cui gli impressionisti caricavano il termine ma con il distacco che il tempo passato ci concede come espressione di una sintesi eclettica di tendenze spesso discordanti – esotismo, storicismo, gusto dell’antico – uniformate nel segno di un altissimo mestiere accademico di volta in volta capace di declinarsi in relazione alle necessità. Qui Saint-Saëns abbandona tanto l’esotismo del “Samson et Dalila” quanto le tentazioni del lirismo intimista più alla moda per recuperare una dimensione più autenticamente classica in sintonia tanto con la vicenda – e lo stesso libretto sembra nutrirsi dalla linfa della tragedie-lyrique – quanto con il luogo di rappresentazione ponendosi quindi sulla scia di Berlioz nel riconoscimento del classico come valore fondante di una certa cultura francese.
La propensione sinfonica di Saint-Saëns qui si fa poi schiacciante: non solo è evidente una concezione in cui l’elemento orchestrale è al centro dell’interesse del compositore ma soprattutto le parti strumentali acquisiscono una centralità insolita per un’opera lirica. Se la presenza di brani sinfonici è un tratto distintivo dell’opera francese, qui fra ballabili e brani orchestrali si raggiunge circa un terzo della durata complessiva; ciò aggrava ulteriormente quella scarsa coerenza drammatica che già il libretto presenta – specie dopo i tagli apportati per le ricordate questioni logistiche – e testimonia una concezione più musicale che teatrale informando l’intera composizione. Debolezza drammaturgica – specie nella prima parte dell’opera, il III atto appare meglio costruito al riguardo – che ha sicuramente giocato un ruolo non secondario nella scarsissima fortuna teatrale di questo titolo in quanto la musica – pur in mancanza di melodie immediatamente coinvolgenti – è sicuramente di alto livello specie per quanto riguarda l’orchestra e le parti corali.
La scelta del festival di Saint-Étienne di riprendere l’opera in forma concertante ha quindi giovato potendo concentrare l’attenzione sulla musica lasciando in secondo piano le debolezze teatrali. Merito principale della riuscita dell’operazione va ascritto all’ottima prestazione dei complessi dell’ Orchestre Symphonique et Coer Lyrique Saint-Étienne Loire assolutamente impeccabili in un’opera particolarmente impegnativa per queste componenti. Il coro, inoltre, è riuscito ad evidenziare al meglio le migliori intuizioni melodiche della partitura quali la bella preghiera del I atto e gli interventi in apertura del III. La direzione di Laurent Campellone è attenta e puntuale; in essa si riconoscono una ferma convinzione nei valori di questa musica e la precisa volontà di valorizzarla al meglio riuscendo pienamente nell’intento.
La compagnia di canto nell’insieme appare più che decorosa. Nel ruolo della protagonista, la vestale Floria di cui si innamora il capo germanico Macomir, troviamo il soprano Catherine Hunold, cantante attiva soprattutto in ambito wagneriano e quindi particolarmente adatta ad un tipo di vocalità che si rifà ai ruoli più lirici di quel repertorio. Quella della Hunold è infatti una voce imponente, capace di dominare con sicurezza la massa orchestrale con cui è chiamata a confrontarsi mantenendo però buone doti di squillo e luminosità; sorprende per una cantante madrelingua la scarsa pulizia della dizione e dell’articolazione della frase. Julia Gertseva è probabilmente il nome più noto al pubblico italiano essendo apparsa nelle scorse stagioni con una certa frequenza sui nostri palcoscenici. Rispetto a queste apparizioni la cantante appare migliorata sul piano della correttezza vocale e mostra una chiarezza di articolazione superiore a quella della Hunold. Il maggior problema è da riscontrare nella scarsa differenziazione dei timbri vocali; composta per Meyrianne Héglon, noto contralto belga, la parte di Livie richiederebbe, infatti, una voce scura e corposa nettamente distinta da quella di Floria mentre la Gertseva è quasi sopranile come timbro riducendo di molto l’effetto previsto.
Originariamente pensata per una voce squisitamente lirica come quella di Albert Vaguet, la parte di Marcomir è qui affidata al lettone Edgardas Montvidas, tenore lirico pieno dal bel timbro squillante e luminoso nonostante la presenza di qualche suono un po’ ingolato – tendenza peraltro non insolita in cantanti di area balto-slava – con l’aggiunta di un certo eroismo che, anche se non previsto in origine, ben si addice al personaggio. Jean Teitgen è uno Scaurus di forte personalità e riesce a rendere pienamente la retorica classicista del recitante del prologo con i suoi richiami alla tradizione del recitativo accompagnato di marca ancora gluckiana. Ottime le parti di fianco.