Madrid, Auditorio Nacional de Música – Fundación Ibermúsica – XLV Temporada
London Philharmonic Orchestra
Orfeón Pamplonés
Direttore Vladimir Jurowski
Maestro del Coro Igor Ijurra
Soprano MAIJA KOVALEVSKA
Mezzosoprano ILDIKO KOMLOSI
Tenore DMYTRO POPOV
Basso NIKOLAY DIDENKO
Giuseppe Verdi : Messa da Requiem per soli, coro e orchestra
Madrid, 30 gennaio 2015
Come influisce la globalizzazione artistica sull’interpretazione musicale? Esiste una sorta di modalità “internazionale” per avvicinarsi ai classici, e più in generale per praticare correttamente un repertorio dagli stilemi e dalle prerogative espressive lontani dalla propria formazione culturale e artistica? Quando Verdi diresse per la prima volta la sua Messa da Requiem in memoria di Manzoni (Milano, Chiesa di San Marco, 22 maggio 1874; l’autore dei Promessi Sposi era morto l’anno precedente), i complessi erano quelli della Scala, ma il soprano era Teresa Stolz (boema), il mezzosoprano Maria Waldmann (austriaca), il tenore Giuseppe Capponi (della provincia di Pesaro) e il basso Ormondo Maini (della provincia di Mantova). La precisazione è di poco conto, se si pensa che a concertare fosse il compositore stesso … Ora invece siamo a Madrid, ma spagnolo è soltanto il coro; il direttore d’orchestra, come il basso, è moscovita; l’orchestra è inglese (anzi, di Londra); il soprano è lettone; il mezzosoprano ungherese e il tenore ucraino. Locandina quasi tutta internazionale, dunque, per il concerto inserito nella prestigiosa stagione della Fundación Ibermúsica, che ospita presso l’Auditorio Nacional le più importanti orchestre del mondo, in tournée con i loro direttori titolari. Ogni artista ha il diritto, più che legittimo, di accostarsi a un’opera ed eseguirla con la propria specifica sensibilità; ma non è sempre assicurato che tante specificità diverse possano amalgamarsi in un’esecuzione convincente. In altre parole, se l’internazionalità diventa semplicemente la somma di tutte le (piccole o grandi) nazionalità individuali, allora il risultato è per forza disomogeneo. Ed è questa l’impressione lasciata dal Requiem di Madrid, in cui a mancare era soprattutto la vocalità verdiana dei solisti. Molto meglio quella corale, con Orfeón Pamplonés, che è definito el decano de los coros simfónicos en España e che celebra nel corso della stagione 2014-2015 il centocinquantesimo anniversario dalla fondazione; dal 2005 è diretto da Igor Ijurra, un maestro che dimostra straordinaria capacità di lettura del testo di Verdi. Si può dire che sia proprio il coro il vero, grande protagonista della serata madrilena, ancor più dell’orchestra e del direttore. Sin dall’inizio è molto bello il contrasto tra i primi versetti cantati sottovoce e la ripresa a voce piena, ma Ijurra persegue senza sosta un effetto di leggerezza della voce corale, che raggiunge togliendo incisività agli accenti di alcune parole del testo latino (peraltro pronunciato molto bene).
Il gesto direttoriale di Vladimir Jurowski è misuratissimo: anche nel Dies Irae le sue gambe restano composte, le braccia tutte protese in avanti, imperiose senza dimenarsi; come il suono, del resto, che non raggiunge mai l’eccesso fragoroso. Jurowski tende senza dubbio a essere un direttore analitico: non gli interessa il suono omogeneo e levigato, ma la nervatura affiorante, il disegno peculiare di una famiglia strumentale o, meglio ancora, di un singolo strumento. A questo proposito il flauto è quello su cui la sua analisi si concentra di più, e con risultati molto interessanti. Il gruppo prediletto è comunque quello degli ottoni (dal suono più pastoso che squillante), che emergono quasi sempre rispetto al resto della compagine, e in modalità “wagneriana”, con le corrusche striature dei corni in evidenza. Tale impostazione risulta funzionale nei punti in cui amplifica la polifonia e le complesse strutture interne (come nel Sanctus), ma in altre circostanze non lo è affatto (come nell’Agnus Dei, decisamente affrettato nelle parti a cappella). Neppure le scelte ritmiche di Jurowski sono sempre condivisibili; nel Recordare, Jesu pie, per esempio, accentua troppo i contrasti, con un effetto di stringendo e allargando “a fisarmonica” che proprio non sta bene (troppo rapido, poi, il Lacrimosa dies illa). Anche l’agogica complessiva lascia un po’ a desiderare, perché rispetto al coro – in questo molto abile – la London Philharmonic Orchestra sembra incapace di suonare in pianissimo.
Il vero elemento di delusione, però, è in alcuni dei solisti. La voce sopranile di Maija Kovalevska non ha alcun tratto specifico e tanto meno personale degno di menzione; ha difficoltà nell’intonazione nel corso di tutta la partitura, ma il peggio – ovviamente – giunge in fondo, con il famigerato si bemolle accompagnato dall’indicazione pppp: che il pianissimo non ci sia, non stupisce; il fatto è che manca anche il si bemolle, sostituito da un gridolino di orrore che per un attimo lascia interdetta l’intera sala.
Ildiko Komlosi, che del quartetto vocale è certamente l’elemento più conosciuto (ha cantato alla Scala sin dal 1990, ed è comparsa l’ultima volta nell’Aida diretta da Chailly, nel dicembre 2006) caratterizza i suoi attacchi con colpi di glottide che la fanno sembrare sempre un’Amneris sul piede di guerra; in realtà, come per gli altri tre cantanti, la voce è un po’ leggera per la parte, ed è quindi deve essere spinta con qualche forzatura nell’emissione. Quest’ultima è caratterizzata anche da sottolineature drammatiche (a volte un po’ troppo veriste, come il portamento sul «remanebit» del Dies irae), e allora Amneris si trasforma in un’invasata Ulrica; se non altro, la Komlosi capisce quel che canta, e cerca di esprimerlo adeguatamente. Il suo timbro è inoltre il più bello tra tutte le quattro voci. Il tenore Dmytro Popov è bravo: pur non avendo voce bellissima (con qualche risonanza nasale negli acuti) sa farne buon uso e riesce a essere espressivo, con eleganti movenze da tenore di grazia; anch’egli comprende bene le parole che sta cantando, e lo dimostra. Tutto al contrario il basso Nikolay Didenko, che pur avendo un timbro apprezzabile getta via la voce senza conferire espressività a nulla, pronuncia il latino in modo terribile, e si rivela debolissimo nell’emissione delle note acute.
Nel complesso si può dire che il gruppo dei solisti sia trainato da mezzosoprano e tenore, ma che tutti e quattro non abbiano ancora una voce completamente pronta per affrontare bene il Requiem. Il pubblico madrileno risponde però all’esecuzione in modo entusiastico, con prolungati applausi e con marcati festeggiamenti, soprattutto per il “suo” coro; che in effetti li merita tutti. Foto Auditorio Nacional – Madrid