Teatro Coccia – Stagione Lirica 2014-15
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri di Giuseppe Adami e Renato Simoni dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi.
Musica di Giacomo Puccini
La principessa Turandot MARIA BILLERI
Il principe ignoto (Calaf) WALTER FRACCARO
Liù FRANCESCA SASSU
Timur ELIA TODISCO
L’imperatore Altoum NICOLA PISANIELLO
Ping BRUNO PRATICÒ
Pang SAVERIO PUGLIESE
Pong MATTEO FALCIER
Un mandarino DANIELE CUSARI
Il principe di Persia VLADIMIR REUTOV
Prima ancella LAURA POLLICE
Seconda ancella MARIA GRAZIA NOBILI
Orchestra Filarmonica Pucciniana e oro San Gregorio Magno
Direttore Matteo Beltrami
Regia Mercedes Martini
Scene e luci Angelo Linzalata
Costumi Elena Bianchini
Maestro del coro Mauro Rolfi
Nuovo allestimento Teatro Coccia di Novara
Novara, 8 febbraio 2015
Non poca attesa circondava questa nuova produzione di “Turandot”, ultimo spettacolo della breve stagione lirica novarese, per l’annunciata presenza di un cantante discusso come Yusif Eyvazov e, soprattutto, per quella di Daniela Dessì nei panni della principessa di gelo. Una serie di sfortunate coincidenze – da ultimo l’indisposizione della Dessì a pochi giorni dalla prima – ha privato lo spettacolo degli elementi sulla carta di maggior attrattiva e ha visto subentrare nei ruoli protagonisti Maria Billeri e Walter Fraccaro. Per la Billeri si è trattato di un appuntamento ritardato con il pubblico novarese dopo la rinuncia per motivi di salute alla “Norma” dello scorso anno. Già affrontata a teatro, la parte della gelida principessa trova nella cantante pisana un materiale vocale decisamente interessante; quella della Billeri è infatti voce di non comune solidità e robustezza, specie nel registro medio, ma anche gli acuti sono presi con forza e posseggono un notevole squillo, fatto salvo qualche sentore di sforzo nei momenti in cui è richiesta una salita repentina e violenta, come in alcuni punti degli indovinelli, mentre quando questi sono preparati e accompagnati hanno una pienezza e una rotondità degne di nota. Le si potrebbe rimproverare il taglio interpretativo dato al ruolo – pur con le componenti che possono derivare dalla regia (ma soprattutto dalla mancanza di prove) – che proponeva una Turandot o un po’ troppo enfatica o rigida ( in particolare nel duetto del finale, complice anche un Fraccaro non molto partecipe) e un fraseggio non particolarmente curato. Sono dettagli, perchè la cantante ha comunque offerto una prova più che apprezzabile che non sarebbe sfigurata in teatri più prestigiosi con un contesto lavorativo più compiuto. Walter Fraccaro è un veterano del ruolo di Calaf. Il tenore rappresenta una garanzia in fatto di tenuta vocale ed è innegabile che la parte sia posseduta pienamente sul piano vocale. Il timbro non è forse di particolare fascino e la voce, pur essendo di buona ampiezza, manca un po’ di proiezione, specie nel registro medio, con il risultato che tende ad essere coperta nei pezzi d’assieme – vero che la direzione al riguardo non ha mostrato particolare sensibilità – mentre il registro acuto mostra una maggior brillantezza. Sul piano attoriale, Fraccaro non si mostra particolarmente espressivo. In ogni caso, il cantante sa arrivare direttamente al pubblico, come attesta il deciso successo ottenuto con il sigillo del “Nessun dorma” bissato. Particolarmente degna di nota la Liù di Francesca Sassu. La giovane cantante sarda non solo canta con notevole proprietà, sfruttando un timbro personale e molto caratterizzato e disponendo di acuti decisamente interessanti per proiezione e luminosità, ma emerge soprattutto nella caratterizzazione del personaggio. Una Liù profondamente umana, capace di momenti di grande dolcezza – l’ultima carezza rivolta a Calaf prima di pugnalarsi – ma anche dotata di una forte personalità che la rende battagliera perfino dei confronti di Turandot – e certe occhiate di sfida durante gli indovinelli coglievano pienamente nel segno al riguardo – il tutto unito ad un fraseggio vario, mobile e vitale e, se il temperamento della Sassu è forse più drammatico che lirico, essa riesce a dare di Liù una propria, convincente versione. Anonimo il Timur di Elia Todisco che si limita a portare a fondo la parte senza particolare smalto, ma con discreta professionalità, anche se la voce tendeva a risultare fibrosa salendo in acuto. Fra le numerose parti di fianco delude – e dispiace particolarmente – il veterano Bruno Praticò come Ping ormai vocalmente al limite delle proprie possibilità. Al suo fianco buona, invece, la prova dei due tenori: il Pang di Saverio Pugliese e il Pong di Matteo Falcier – forse un po’ nasale nel timbro. Teatralmente parlando, il gioco fra la figura rotonda e paciosa di Pang e quella allampanata e segaligna dei due compagni funzionava molto bene. Nicola Pisanello (Altoum) ha il merito di evitare di rendere l’età del personaggio invecchiando artificiosamente la voce, ma cantandolo invece con i buoni mezzi di cui è in possesso, con risultato più che apprezzabile; sano e robusto il mandarino di Daniele Cusari. Completavano il cast Vladimir Reutov (Il principe di Persia) e le ancelle di Laura Pollice e Maria Grazia Nobili. La parte orchestrale si affidava ad una compagine esperta in questo repertorio come l’Orchestra Filarmonica Pucciniana, guidata da Matteo Beltrami, reduce dalle recenti recite fiorentine de “I puritani”. Pur senza particolari lampi – né questo era il contesto adatto a visioni più originali e personali – il direttore punta a una lettura sostanzialmente tradizionale e di solido mestiere, pur con qualche intemperanza sonora, con il risultato che, in un teatro piccolo e di ottima acustica come il Coccia, il volume suonava tendenzialmente eccessivo e soverchiante il palcoscenico, fenomeno accentuato dalla necessità di disporre alcuni strumenti nei palchi, viste le ridotte dimensioni della buca orchestrale. Il Coro San Gregorio Magno, che in altre occasione si era decisamente ben comportato, è apparso qui maggiormente in difficoltà nell’impegnativa scrittura pucciniana – e con la necessità spesso di forzare per superare il volume orchestrale. Più omogeneo il settore femminile, mentre già nel primo atto quello maschile mancava di forza (“Ungi, arrota!” ): sensazione ancor più evidente nel finale dell’opera che è parso abbastanza sotto tono. La parte visiva è stata affidata per la regia a Mercedes Martini, coadiuvata per le scene da Angelo Linzalata (responsabile anche delle luci) e per i costumi da Elena Bianchini. Certe dichiarazioni della vigilia su “Turandot principessa dei poveri” potevano suscitare qualche perplessità, facendo ipotizzare forzature in chiave di denuncia sociale per le quali “Turandot” non appare certo il contesto ideale. In realtà, i timori sono stati rapidamente fugati all’apertura del sipario: se si è rinunciato allo sfarzo principesco, si è però mantenuta l’ambientazione esotica e la povertà dei mezzi espressivi contribuiva a creare un’atmosfera arcaica di un mondo contadino e profondo, forse ai confini estremi del celeste impero. Tanto le stilizzatissime scenografie – fondali vuoti articolati da drappi con iscrizioni, riquadri astratti ricordanti decorazioni a china, scarni elementi d’arredo – tanto i costumi con il loro richiamo ad una realtà minuta e quotidiana ricordavano certe forme di arte popolare orientale, forse più giapponese che cinese, come gli albi xilografici diffusi fin dalla fine del XVIII secolo. Un minimalismo usato con intelligenza ed efficacia (i telai delle donne, il grande drappo matrimoniale rosso che Turandot strappa freneticamente), mentre nei costumi si apprezzano le scelte cromatiche con il mondo cinese lunare e notturno (bianco per Turandot e Altoum, su varianti di grigio e blu per il popolo), contrapposto ai gialli, agli arancioni, ai rossi dei nomadi: colori che ricordano il sole cocente e le sabbie dei deserti dell’Asia centrale. Nella regia l’elemento dominante è dato dall’insistenza sul tema del lavoro – con qualche caduta nello stereotipo dello stakanovismo cinese – che in alcuni momenti trovava una sua efficacia: le donne che tessono l’abito nuziale mentre gli uomini arrotano le armi del supplizio, proiezione visiva di quella dicotomia fra le nozze e le esequie. La recitazione alternava soluzioni interessanti a qualche leggerezza. Certe idee avrebbero potuto essere sfruttare meglio, come quando Liù copre amorevolmente con il mantello una figura rannicchiata a terra, che però non risulta essere né Calaf, né Timur, ma un semplice figurante che subito dopo si allontana, togliendo poesia ad un’idea in sé molto bella, o la morte di Liù con la giovane schiava che cade fra le braccia della principessa in una sorta di estremo passaggio di consegne, in cui si sarebbe sentito il bisogno di un maggior coraggio, mostrando il sangue della giovane sull’immacolato abito della principessa, quasi in una violenza emotiva e psicologica che spezza definitivamente la gelida castità di Turandot. Altre idee risultavano un po’ troppo ingenue, come la figurante che, appena Ping ricorda il suo “laghetto blu”, gli reca una canna da pesca. Sala gremita in ogni ordine di posti e convinto successo per tutti gli interpreti. Foto Mario Mainino / Mario Finotti.