Torino, Auditorium “Giovanni Agnelli”
I Concerti del Lingotto 2014-2015
Gewandhausorchester Leipzig
Direttore Riccardo Chailly
Violino Julian Rachlin
Pëtr Il’ič Čajkovskij : Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 35
Sergej Rachmaninov : Sinfonia n. 2 in mi minore op. 27
Torino, 15 febbraio 2015
Dopo l’Auditorio Nacional de Música di Madrid la Gewandhausorchester Leipzig guidata da Riccardo Chailly torna a frequentare l’Auditorium “Giovanni Agnelli” del Lingotto di Torino; dopo andrà al Teatro alla Scala di Milano, proseguendo la sua fortunata tournée. Al primo programma – molto tedesco, anzi addirittura “germanico” – segue un secondo tutto russo, uguale però nella struttura: concerto solistico per violino e poi sinfonia di grandi proporzioni, sempre dal repertorio di fine Otto- e inizi Novecento. L’orchestra è sfavillante nell’attacco del Concerto per violino di Čajkovskij (e che furia il timpanista! Non pago di essersi scatenato a Madrid nella Sinfonia n. 1 di Mahler, anche ora i suoi rintocchi sono inesorabilmente potenti), ma quando entra in scena il solista, ancora Julian Rachlin, cede subito a quest’ultimo tutto lo spazio. E il violinista arriva rapidamente al tema principale dell’Allegro moderato nel segno della dolcezza, con accorto utilizzo di ritenendo e di stringendo. Se anche lo Stradivari “ex Liebig” del 1704 risuona molto meglio al Lingotto – grazie alla portentosa acustica della sala di Renzo Piano – rispetto a Madrid, il problema resta nella differenziazione delle sonorità, che sono un po’ tutte della stessa grandezza. Certamente Rachlin appare più a suo agio in Čajkovskij di quanto lo fosse in Mendelssohn: sono più abbondanti i colori, sono più personali le pause e il porgere della cadenza (anche se quando, al termine di questa, si inserisce il flauto, gli strumentisti di Lipsia affascinano sempre al pari dei migliori solisti). Non stupisce che Rachlin, più che sull’aspetto drammatico del concerto, si concentri sullo sviluppo virtuosistico della musica; ma per fortuna l’incalzare del direttore lo sprona a un mordente sempre più accentuato nel corso dei tre movimenti. Chailly intende infatti la Canzonetta. Andante e il Finale (Allegro vivacissimo) come una scena di balletto – nelle scelte ritmiche e nell’alternanza di timbri sottolinea la stretta parentela con il I atto del Lago dei cigni -, e quindi anche il violinista si fa più comunicativo, accettando il prezzo di qualche semplificazione nelle agilità; ma fa benissimo così, perché finalmente trasmette un’emozione viva, e non soltanto l’impeccabile esecuzione virtuosistica. Grandissimo il successo dopo la coda, ma a dispetto delle prolungate acclamazioni, il solista non concede alcun brano fuori programma.
Il Rachmaninov sinfonico costituisce senza dubbio una sfida difficile per un direttore d’orchestra: può cedere alla tentazione degli effetti emotivi, tentando di trasformare le sinfonie in concerti privi del pianoforte, oppure deve inventarsi strade alternative, capaci di evitare morbosità e indugi eccessivi. A questo riguardo il I movimento della Sinfonia n. 2, lo smisurato Largo – Allegro moderato, è forse lo scoglio più temibile, perché nella sua ipertrofica struttura l’ascoltatore rischia di smarrirsi (o peggio, di indisporsi). Chailly percorre sia una via “quantitativa” (differenziando il più possibile i volumi delle sonorità) sia una via “strutturale” (esaltando cioè quella sorta di pedale wagneriano che fa da sfondo alla partitura con le voci di tromboni e tuba). Ecco allora il suono degli ottoni farsi sempre più denso, crescere per strati e raggiungere attimi di culminante magniloquenza; ecco poi il colore corrusco della stessa famiglia conferire un’allure tragica alla scrittura. Certo, la godibilità più emozionante dell’esecuzione giunge oltre, con l’attacco dell’Allegro molto: sono efficacissime le impennate della bacchetta direttoriale, capaci di elevare l’orchestra su di un piano aereo, mobilissimo. Chailly infiamma a tal punto la resa ritmica e coloristica del celebre tema del II movimento («che maschera un’allusione al Dies irae medioevale» secondo Giorgio Pestelli) da richiamare subito alla memoria un selvaggio Incantesimo del fuoco. Ancora Wagner, dunque, quale riferimento più opportuno all’interno di un mondo sinfonico cronologicamente contemporaneo a Mahler, eppure lontanissimo da quel modo di concepire l’idea musicale e il suo divenire. Ma le reminiscenze che la lettura di Chailly provoca sono molteplici, non solo wagneriane: a tratti si è di fronte a una fanfara processionale slava, a tratti lo squillo perentorio degli ottoni fa pensare a Bruckner (e dunque alla tradizione sinfonica più connaturata alla storia personale del Gewandhaus). Il Rachmaninov di Chailly conosce insomma lo slancio e la sofferenza, la fierezza e il ghigno così come l’amarezza e la malinconia.
Nell’Adagio lo sforzo interpretativo è ancora più marcato, tutto teso a qualificare la densità del suono, e a evitare i deprecabili effetti “Rac3”, gli inevitabili cliché che il compositore e la tradizione esecutiva si sono attirati nel corso del tempo. Per fortuna con l’orchestra di Lipsia l’ascoltatore è incantato dalla bellezza pastosa del suono complessivo, snodato in accenti, legature e dinamiche sempre anticonvenzionali. Con l’attacco del finale (Allegro vivace) si ripete – forse ancora più spigliato – il miracolo agogico dell’attacco del II movimento; ma ora è più profonda l’impronta della gioia, scandita in termini narrativi chiarissimi. Il direttore fa intendere i due temi come le dimensioni di una storia da raccontare, ed è come se da quanto ascoltiamo con le orecchie si passasse a quello che vediamo svolgersi sotto gli occhi: il motivo iniziale è la lotta gioiosa e sicura dell’uomo, dell’eroe (persino Ein Heldenleben si riaffaccia alle suggestioni toccate dal direttore), l’altro è una cadenzatissima marcia del destino, segno misterioso dell’incombere e del minacciare l’esistenza individuale. Il rutilante finale, in cui l’uomo stravince, sprigiona tutto l’entusiasmo del pubblico torinese di fronte alla pura bellezza musicale dell’epica vicenda.
E poiché il solista è stato anche troppo parco nell’offerta di paginette fuori programma, provvede Chailly a rendere omaggio al pubblico che lo festeggia, ancora con Rachmaninov: Vocalise, composto nel 1915 come ultimo dei quattordici Lieder op. 34, per voce acuta e pianoforte, poi trascritto per orchestra dallo stesso autore, è davvero una ‘paginetta’ sognante e un po’ kitsch, ottima per suggellare una serata con un tema tipicamente russo, ripetuto ostinatamente e rimodulato da armonie ritornanti su se stesse con analoga ossessione. È come un ripasso complessivo dell’orchestrazione rachmaninoviana: se fosse presentata a sé sarebbe invero poca cosa; dopo il gigantismo della Sinfonia n. 2 si manifesta quale innocua reductio ad unum, carezzevole, malinconica, conciliante; talvolta anche la Musica deve essere così.