Teatro dell’Opera di Firenze – Stagione d’Opera e Balletto 2014/2015
“MESSA DA REQUIEM PER SOLI, CORO E ORCHESTRA”
Musica di Giuseppe Verdi
Soprano Carmela Remigio
Mezzosoprano Veronica Simeoni
Tenore Francesco Meli
Basso Riccardo Zanellato
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Daniele Gatti
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Firenze, 8 febbraio 2015
Poco più di un anno fa, l’Italia ed il mondo sono rimasti privi di un gigante della musica, uno dei veri protagonisti della musica dal dopoguerra ad oggi, Claudio Abbado. La città di Firenze ha voluto ricordarlo con l’esecuzione di un capolavoro della musica sacra che Abbado stesso ha intensamente amato e diretto frequentemente nel corso della sua carriera, la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, affidata a Daniele Gatti, che di Abbado è stato allievo prima, amico e rispettato collega in seguito. Gatti è innegabilmente uno di quei direttori dalla personalità tanto forte e anticonvenzionale da polarizzare le opinioni di pubblico e critica, praticamente sin dal debutto poco più che ventenne. La Messa da Requiem abbonda di opportunità di forte impatto, che Gatti, in un terreno a lui favorevole, ha sfruttato senza risparmio. Si avvertiva nella musica una pulsazione incalzante e constante; gli strumenti erano nitidamente separati, ed ogni sezione dell’orchestra ha portato il proprio contributo alla narrazione drammatica, con gli ottoni in forma particolarmente splendida. In generale la lettura di Gatti pare aver sottolineato la fragilità e vulnerabilità del corpo e dell’anima umani al momento del trapasso. L’odore sulfureo della punizione del fuoco eterno era quasi palpabile, ma non prevaleva sulla paura viscerale strettamente unita a un’umanissima empatia.
L’incipit, udibilissimo nonostante il pieno rispetto dei segni di espressione scrupolosamente indicati dal compositore (coro sottovoce, violini e violoncelli con sordino), pareva nato dal niente, dal vuoto cosmico, come se le masse corali ed orchestrali si facessero avanti trepidanti da lontano; se il “Te decet hymnus” era desolatamente funereo, i climax del seguente “Kyrie” erano sempre raffinatamente controllati. Il “Dies iræ”, con i suoi cinque colpi delle percussioni a sorreggere una linea corale convulsa, risuonava fiero e implacabile per tempo e temperamento. È stata una sequenza magnifica, ed un approccio sviluppato nel resto dell’esecuzione. L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino si è dimostrata imponente e reattiva, in completa armonia con la visione che Gatti ha del capolavoro verdiano, passando da un assorto romanticismo a una furia terrificante in un batter d’occhio. In particolare gli ottoni, che erano inciampati in piccoli incidenti di percorso alcune sere prima nei Puritani, qui hanno mostrato un’autorità dirompente. Gli archi erano sempre controllatissimi, con una spettacolare omogeneità di insieme nei momenti più vulnerabili della partitura. Il Coro si è distinto, come sempre del resto, per una musicalità impeccabile e una compattezza fisica di emissione straordinaria, nonché per la chiarissima dizione ricca di potenti occlusive e fiere fricative.
I solisti, con un’eclatante eccezione, hanno offerto prestazioni dignitose mantenendosi su un un discreto livello generale, senza infamia e senza lode. È sempre doveroso e corretto non applicare il medesimo metro di giudizio quando si recensiscono artisti che sostituiscono colleghi in extremis salvando lo spettacolo, e nel caso di Carmela Remigio si può parlare letteralmente di sostituzione all’ultimo minuto, considerando che il suo nome è comparso nella locandina del sito del teatro al posto della prevista e indisposta Fiorenza Cedolins pochissime ore prima dell’inizio dell’esecuzione. Glisseremo quindi su occasionali slittamenti di intonazione, e sottolineeremo l’eterea, suggestiva qualità dei piani e pianissimi acuti di cui questa partitura abbonda. Rimane comunque il fatto che la voce della Remigio è troppo leggera per fronteggiare e penetrare le ondate sonore di coro e orchestra e che quindi solo in parte poteva assolvere al ruolo guida assegnato al soprano. Il timbro grigiastro e un poco arido non la rendeva neanche ideale per trasmettere l’acuità drammatica di pagine come il “Libera me”, anche se l’ultimissima frase, con tutti quei do gravi liberi emessi sul velluto finissimo dei sussurri corali e orchestrali, comunicava un’appropriatissima rassegnata disperazione. Ammirevole è stata la compostezza quasi ieratica dimostrata in circostanze tanto difficili dal soprano, che fra l’altro è stata l’unica a non tenere lo sguardo fisso sul direttore. Veronica Simeoni sta da qualche tempo sempre più avventurandosi in un territorio da mezzosoprano drammatico anche se il timbro, piacevole ma molto chiaro, sconsiglierebbe questa virata di repertorio. Sapiente fraseggiatrice, ha costantemente ricercato i giusti accenti e colori, ma non sempre è riuscita a tradurre in fatti le lodevoli intenzioni. Alla fine dei conti è uscita onorevolmente dalla difficile prova, ma personalmente preferisco un mezzosoprano che quando canta del libro secondo il quale noi tutti saremo giudicati mi faccia sussultare e tremare al solo sentire il veleno nella voce. Francesco Meli ha dimostrato ancora una volta di essere uno dei tenori tecnicamente più competenti nel panorama attuale con un’esecuzione di alto livello che presta il fianco a ben pochi attacchi. La voce è compatta, ben immascherata e di conseguenza ricca di armonici; il canto sul fiato gli permette di sfoggiare bei pianissimi anche in alto e fiati ragguardevolmente lunghi: di grande suggestione nella sua fermezza era l’incipit dell’”Hostias”. Gli acuti, anche un “semplice” si bemolle, tradiscono ancora il suo passato alquanto recente di tenore leggero; benché squillanti risultano sono significativamente più chiari e meno corposi rispetto al resto della voce. Molto apprezzabile anche l’interpretazione accorata ma sempre misurata e composta, senza traccia di quel piagnucolio con cui molti illustri tenori hanno intriso e intridono soprattutto l’”Ingemisco”. Riccardo Zanellato ha confermato le impressioni suscitate sia nel Nabucco della scorsa stagione che nei Puritani di qualche giorno fa: la voce è piacevole e ben emessa, ma non molto voluminosa e soprattutto carente della cavata necessaria a un basso che si dedichi al repertorio verdiano. Nel “Confutatis, maledictis” è stato costretto al gioco della fune con il tempo garibalidino del direttore. Il teatro era affollatissimo, anzi esaurito; se non possiamo concludere dicendo che ha accolto l’esecuzione con enorme entusiasmo è solo perché prima dell’inizio del concerto era stato invitato ad alzarsi ed a uscire in sommesso, rispettoso silenzio.