Il “Don Giovanni” al Teatro Comunale di Modena

Teatro Comunale “Luciano Pavarotti”, Stagione d’opera 2014/2015
“DON GIOVANNI”
Dramma giocoso in due atti
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni ALESSANDRO LUONGO
Il Commendatore ANTONIO DI MATTEO
Donna Anna YOLANDA AUYANET
Don Ottavio FRANCESCO MARSIGLIA*
Donna Elvira RAFFAELLA LUPINACCI
Leporello ROBERTO DE CANDIA
Masetto FUMITOSHI MIYAMOTO**
Zerlina AYSE SENER**
Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna
Coro Lirico Amadeus – Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore Aldo Sisillo
Maestro del Coro Stefano Colò
Regia Rosetta Cucchi
Scene Andrea De Micheli
Costumi Claudia Pernigotti
Luci Andrea Ricci
* Interprete perfezionatosi al “CUBEC Accademia di Belcanto di Modena”
** Interpreti selezionati fra gli studenti del “CUBEC Accademia di Belcanto di Modena”
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Teatro del Giglio di Lucca, Ópera Tenerife – Auditorio de Tenerife “Adán Martìn
Modena, 11 febbraio 2015

Basta quel taxi posteggiato in scena ad apertura di sipario e subito allo spettatore italiano torna alla memoria il recente “Don Giovanni” di Graham Vick che in questa stagione ha fatto parlare di sé a Como, Pavia e altrove (anche se a onor del vero, venne prima l’allestimento modenese di cui parliamo, a Tenerife, nel 2014). Sulla scena pensata dal regista inglese c’era un SUV in cui Don Giovanni consumava la sua “sveltina” con Donna Anna. Sul palcoscenico del Comunale di Modena vediamo un giallissimo cab newyorkese, perché nella Grande Mela degli anni Ottanta (Peter Sellars insegna) si svolge la storia del dissoluto punito secondo la regista Rosetta Cucchi. Quindi Don Giovanni è un artista da factory di Andy Warhol, che vive nel suo studio fra graffiti alla Basquiat, distribuisce giubbotti di pelle che portano le sue iniziali a Zerlinette innamorate, si ciba di carne cruda nel suo magro banchetto. La storia fila via liscia e non è poco. Ma fuori tempo massimo risultano molte trovate, tante idee suonano meglio sulla carta che non nella loro realizzazione pratica e c’è qualche controscena di troppo. Di torbido o disturbante non c’è granché, tutto suona pudico e risaputo e di quell’eccesso che caratterizzava l’America reaganiana neanche l’ombra: durante la morigeratissima festa del finale primo, unico tocco di trasgressione a misura della provincia è l’impacciato bacetto di Don Giovanni al muscoloso angelo nero che si dimena in gabbia. Filo rosso di coerenza, una ferita al fianco che il protagonista si porta dietro dall’inizio dell’opera e che mai si rimargina: sarà quella a portarlo alla morte?
Più che la scena, sono le voci a dare corpo ai personaggi. Prima fra tutte quella di Yolanda Auyanet. La sua Donna Anna è tutta risolta nel canto: timbro omogeneo, fraseggio signorile, centri corposi quanto basta, acuti luminosi. E allora passi se sulla scena è fin troppo composta e un filo impacciata nel suo completo verde da Hillary Clinton. Di fianco a lei non sfigura il Don Ottavio di Francesco Marsiglia, voce non grande ma raffinata, a suo perfetto agio nelle ampie frasi delle sue due arie, capace di dipingere il lato nobile del personaggio con mezze voci, smorzature, legato di alta scuola. Se Donna Anna è di apollinea compostezza, di tutt’altra pasta è la Donna Elvira di Raffaela Lupinacci. Registro grave non corposissimo ma pieno, acuti timbrati, controllo di tutta la tessitura. Intimamente tormentata e quindi convincente, la migliore in scena: difficile scordarla mentre canta “Mi tradì quell’alma ingrata”, accasciata al tavolo di un cocktail bar, vera donna sull’orlo di una crisi di nervi. Non si è detto fin qui del protagonista: Alessandro Luongo è baritono di timbro gradevole e squillo pronto, ha riccioli alla Kaufmann che non guastano, sa alleggerire e colorare puntualmente la serenata del secondo atto. Spiace solo che la sua interpretazione sia sempre giocata sulle corde dell’irruento imbronciato, cosa che lo rende assai poco seducente. Di un veterano come Roberto De Candia non si può che dire bene, anzi benissimo: Leporello superbo per articolazione, legato, espressività tanto nei recitativi quanto nell’aria del catalogo, sferzante, scandita in scioltezza. Giovani, colti dal vivaio del CUBEC (l’accademia voluta da Mirella Freni) sono Zerlina e Masetto. La prima è impersonata da Ayse Sener, una contadina mignon in vestiti color Big Babol, di voce educata ma ben poco consistente e con qualche fissità di troppo: può avere senso una Zerlina soubrette, ma dopo qualche battuta perde tristemente d’interesse. Accanto a lei Fumitoshi Miyamoto, che ha tutte le note di Masetto senza avere idea precisa del personaggio. Gran voce, quella del Commendatore di Antonio Di Matteo, ma non certo fine, e purtroppo ritmicamente non sempre sicura. Chi invece sembra più sicura del solito è l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna: la compagine emiliana (eccezion fatta per qualche vistoso scivolone fra i flauti) suona reattiva e compatta, è capace di morbidezze e mezze tinte, si diverte nei passaggi più spediti. Aldo Sisillo stacca tempi inconsueti, non suggerisce appoggiature o variazioni ai cantanti e certo non brilla per originalità, ma imprime discreto ritmo alla narrazione. Anche a scapito di qualche chiaroscuro, che soprattutto nel secondo atto avrebbe giovato. Impacciato in scena, ma in discreta forma vocale il Coro Lirico Amadeus. Sceso il sipario, fischi a non finire per direttore e regista, perché la morale è sempre quella: certo pubblico si sdegna più per la deroga alle sue consuetudini d’ascolto e di visione che per la mancanza di intraprendenza. Quella sembra non interessare a nessuno. Foto Rolando Paolo Guerzoni