Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2014-2015
“I PURITANI”
Melodramma serio in tre parti su libretto di Carlo Pepoli
Musica di Vincenzo Bellini
Lord Gualtiero Valton, governatore puritano GIANLUCA MARGHERI
Sir Giorgio Valton, suo fratello RICCARDO ZANELLATO
Lord Arturo Talbo JESÚS LÉON
Sir Riccardo Forth JULIAN KIM
Lord Sir Bruno Roberton SAVERIO FIORE
Lady Elvira Valton, figlia di Gualtiero MARIA ALEIDA
Enrichetta di Francia, regina d’Inghilterra MARTINA BELLI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Matteo Beltrami
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Fabio Ceresa
Scene Tiziano Santi
Costumi Giuseppe Palella
Luci Marco Filibeck
Movimenti coreografici Nikos Lagousakos
Nuovo allestimento in coproduzione col Teatro Regio di Torino
Firenze, 1 febbraio 2015
La terza recita del nuovo allestimento dei Puritani ha offerto una compagnia di canto quasi totalmente diversa rispetto a quella della prima, descritta in dettaglio dal collega Gurioli, e a cui rimando anche per quanto riguarda la direzione d’orchestra e regia.
I Puritani sono essenzialmente un’opera d’insieme, grazie alle precise simmetrie del disegno belliniano e alla sua attenzione verso ogni personaggio. Ciononostante, Elvira, prima inter pares, domina la scena. Anche in questa recita fiorentina l’interesse generale era rivolto principalmente all’interprete di questo ruolo, il soprano cubano Maria Aleida. Preceduta da una fama di soprano “funambolesco”, la Aleida non ha certamente deluso le aspettative di coloro che si aspettavano svolazzi verso tessiture acutissime, ai limiti delle capacità umane. Circolano in rete dei suoi video in cui arriva senza apparente difficoltà fino al la 5; qui si è “limitata” a un fa diesis, dispiegato con nonchalance nelle variazioni un po’ liberty e fuori stile della “Polacca”; ça va sans dire, il finale del primo atto era coronato da un interminabile fa sovracuto. Purtroppo a tale e tanta facilità nella stratosfera non corrisponde un registro centrale altrettanto degno di nota: fino a un la 4 naturale la voce della Aleida è infatti piccola, filiforme e monocroma, e in fin dei conti, spartito alla mano, il ruolo di Elvira è molto più centrale e lirico di quanto la prassi esecutiva ci lasci assumere. In ogni caso, il peccato capitale per un soprano che desideri dedicarsi a questo repertorio è un’agilità imprecisa e approssimativa come quella evidenziata dalla Aleida, che, a parte degli staccati sbalorditivi, non sembrava in grado di sgranare le note: le celebri scale discendenti alla fine della cabaletta del secondo atto risultavano vere e proprie “scivolate”, quasi dei glissati. Nonostante queste pecche non indifferenti, il soprano è riuscita a strappare un caloroso applauso alla fine della sua grande scena grazie a un mi bemolle sovracuto così lungo e sicuro tale da dare l’impressione che se le fosse stato permesso, non avrebbe esitato a concludere sul la bemolle superiore. Scenicamente ha messo in luce un notevole temperamento e coinvolgimento emotivo; il fatto che sia molto piacevole e aggraziata certo non nuoce.
I Puritani sono essenzialmente un’opera d’insieme, grazie alle precise simmetrie del disegno belliniano e alla sua attenzione verso ogni personaggio. Ciononostante, Elvira, prima inter pares, domina la scena. Anche in questa recita fiorentina l’interesse generale era rivolto principalmente all’interprete di questo ruolo, il soprano cubano Maria Aleida. Preceduta da una fama di soprano “funambolesco”, la Aleida non ha certamente deluso le aspettative di coloro che si aspettavano svolazzi verso tessiture acutissime, ai limiti delle capacità umane. Circolano in rete dei suoi video in cui arriva senza apparente difficoltà fino al la 5; qui si è “limitata” a un fa diesis, dispiegato con nonchalance nelle variazioni un po’ liberty e fuori stile della “Polacca”; ça va sans dire, il finale del primo atto era coronato da un interminabile fa sovracuto. Purtroppo a tale e tanta facilità nella stratosfera non corrisponde un registro centrale altrettanto degno di nota: fino a un la 4 naturale la voce della Aleida è infatti piccola, filiforme e monocroma, e in fin dei conti, spartito alla mano, il ruolo di Elvira è molto più centrale e lirico di quanto la prassi esecutiva ci lasci assumere. In ogni caso, il peccato capitale per un soprano che desideri dedicarsi a questo repertorio è un’agilità imprecisa e approssimativa come quella evidenziata dalla Aleida, che, a parte degli staccati sbalorditivi, non sembrava in grado di sgranare le note: le celebri scale discendenti alla fine della cabaletta del secondo atto risultavano vere e proprie “scivolate”, quasi dei glissati. Nonostante queste pecche non indifferenti, il soprano è riuscita a strappare un caloroso applauso alla fine della sua grande scena grazie a un mi bemolle sovracuto così lungo e sicuro tale da dare l’impressione che se le fosse stato permesso, non avrebbe esitato a concludere sul la bemolle superiore. Scenicamente ha messo in luce un notevole temperamento e coinvolgimento emotivo; il fatto che sia molto piacevole e aggraziata certo non nuoce.
Osservazioni molto simili si possono fare anche su Jesús Léon nel ruolo di Arturo. Come la collega, anche il tenore può far affidamento su sovracuti facilissimi: anche se il celeberrimo fa 4 scritto da Bellini in “Credeasi misera” era prudentemente evitato, i vari re naturali (il duetto del terzo atto era eseguito in tono) rappresentavano senz’altro il suo asso nella manica; anche nel suo caso il registro centrale è piuttosto flebile, esangue e biancastro, limite che provocava danni irrimediabili sia nei momenti concitati sia nelle oasi liriche: un brano come la lunga romanza del terzo atto, tutta giocata sul registro medio, può trasformarsi in una litania interminabile se eseguita senza un gioco di chiaroscuri, senza una grande scelta di dinamiche. Un piccolo incidente di percorso, un’entrata mancata nell’arioso del primo atto, il celeberrimo “A te, o cara”, si è verificato probabilmente per un palpabile nervosismo che ha increspato la linea di canto per tutta la durata del brano. Per dovere di cronaca è doveroso ricordare che sia Léon che Antonino Siragusa (l’Arturo del primo cast) sostituivano due colleghi scomparsi dal cartellone poche settimane orsono, e che non è certo impresa semplice trovare un tenore con tutte le carte in regola per affrontare uno dei ruoli più inaccessibili e miticizzati di questa categoria vocale nel repertorio italiano.
Pur non presentando particolari dovizie timbriche, Riccardo Zanellato è sufficientemente morbido e in possesso di una buona tecnica vocale; una scarsa incisività di accento e soprattutto una carenza di immaginazione non gli hanno però permesso di dare il giusto rilievo al personaggio di Sir Giorgio. Come quella di Arturo nel terzo atto, anche la romanza “Cinta di fiori” nel secondo atto può facilmente mutarsi in una soporifera cantilena se non si ha a disposizione un fraseggio fantasioso e un’ampia gamma di sfumature. A spezzare l’uniformità sin qui descritta è fortunatamente intervenuto Julian Kim, baritono coreano dotato di voce sapientemente emessa, morbida, omogenea, dal registro acuto facile e sicuro fino al la bemolle alla chiusa del duetto “dei due bassi”. Qualche segno d’incertezza è apparso invece al lato opposto della gamma, ed il la bemolle grave della frase “per anni e anni” della cavatina è rimasto solo un’intenzione. La nitidezza delle agilità unita ad un’indubbia raffinatezza del fraseggio lo rendono adattissimo al repertorio del “baritono nobile”, categoria purtroppo in via di estinzione. Fra i ruoli secondari spiccava il timbro limpido di Martina Belli (Enrichetta di Francia), e se Gianluca Marghera ha mostrato la dovuta autorevolezza nei panni di Lord Gualtiero Valton, Saverio Fiore (Bruno) ha evidenziato una certa scompostezza nella linea di canto. Il pubblico, accorso numerosissimo, si è dimostrato alquanto tiepido durante la rappresentazione, accogliendo invece con caloroso entusiasmo Maria Aleida e soprattutto Julian Kim al termine dell’opera. English version
Pur non presentando particolari dovizie timbriche, Riccardo Zanellato è sufficientemente morbido e in possesso di una buona tecnica vocale; una scarsa incisività di accento e soprattutto una carenza di immaginazione non gli hanno però permesso di dare il giusto rilievo al personaggio di Sir Giorgio. Come quella di Arturo nel terzo atto, anche la romanza “Cinta di fiori” nel secondo atto può facilmente mutarsi in una soporifera cantilena se non si ha a disposizione un fraseggio fantasioso e un’ampia gamma di sfumature. A spezzare l’uniformità sin qui descritta è fortunatamente intervenuto Julian Kim, baritono coreano dotato di voce sapientemente emessa, morbida, omogenea, dal registro acuto facile e sicuro fino al la bemolle alla chiusa del duetto “dei due bassi”. Qualche segno d’incertezza è apparso invece al lato opposto della gamma, ed il la bemolle grave della frase “per anni e anni” della cavatina è rimasto solo un’intenzione. La nitidezza delle agilità unita ad un’indubbia raffinatezza del fraseggio lo rendono adattissimo al repertorio del “baritono nobile”, categoria purtroppo in via di estinzione. Fra i ruoli secondari spiccava il timbro limpido di Martina Belli (Enrichetta di Francia), e se Gianluca Marghera ha mostrato la dovuta autorevolezza nei panni di Lord Gualtiero Valton, Saverio Fiore (Bruno) ha evidenziato una certa scompostezza nella linea di canto. Il pubblico, accorso numerosissimo, si è dimostrato alquanto tiepido durante la rappresentazione, accogliendo invece con caloroso entusiasmo Maria Aleida e soprattutto Julian Kim al termine dell’opera. English version