Teatro Carlo Felice – Stagione d’Opera e Balletto 2014/2015
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in due parti di Salvatore Cammarano dal romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott
Musica di Gaetano Donizetti
Miss Lucia NATALIA ROMAN
Sir Edgardo di Ravenswood ENEA SCALA
Lord Enrico Asthon MANSOO KIM
Raimondo Bidebant GIOVANNI BATTISTA PARODI
Lord Arturo Bucklaw ALESSANDRO FANTONI
Alisa MARINA OGII
Normanno ENRICO COSSUTTA
Mimo FABIOLA DI BLASI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice
Direttore Giampaolo Bisanti
Maestro del coro Pablo Assante
Regia Dario Argento
Scene Enrico Musenich
Costumi Gianluca Falaschi
Video design Eugenio Pini
Luci Luciano Novelli
Nuovo allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova
Genova, 22 febbraio 2015
Un’atmosfera di piccolo “evento” aleggiava su questa Lucia, destata soprattutto dalla curiosità di vedere come il celebre regista Dario Argento, da quasi cinquant’anni maestro incontrastato del cinema horror nostrano, avrebbe risolto una vicenda potenzialmente cruenta come quella della povera sposa di Lammermoor: per un dettagliato resoconto della prima e dell’allestimento rimando alla recensione del collega Baracchini. La seconda recita prevedeva il cast alternativo, quasi completamente diverso dalla serata precedente. Il basso Giovanni Battista Parodi (Raimondo), apparso in entrambe le recite poiché nella serata inaugurale ha dovuto sostituire un collega indisposto, ha confermato le perplessità destate in occasione della sua recentissima esibizione nei Puritani a Firenze, in un ruolo, quello di Giorgio, che ha molto in comune con quello del tutore e guida spirituale della protagonista dell’opera donizettiana. La sua voce di basso cantante, benché piacevole, non appare molto ampia, e soprattutto risente di una insufficiente proiezione del suono, che risulta quindi non particolarmente ricco di armonici e stenta a “correre”, per usare un termine gergale. Il baritono coreano Mansoo Kim ha riscattato una certa genericità interpretativa con una prova vocale di tutto riguardo; il timbro è gradevole, sufficientemente scuro senza esser torvo; una corretta emissione e una ragguardevole estensione gli hanno permesso di eseguire tutte le puntature di tradizione senza problemi. Il ruolo di Edgardo, eroe romantico per antonomasia, scritto per uno dei tenori più influenti della storia della vocalità, Gilbert-Louis Duprez, è stato affrontato nel corso dei decenni da cantanti dalla vocalità più disparata che spaziano dal tenore di tipo lirico leggero a quello drammatico; dalla fine dell’Ottocento in poi è spesso caduto nelle mani di Turiddi vaganti nelle grigie brume scozzesi attratti dalla possibilità di lanciare una bella maledizione a tutta gargana magari tenendo all’infinito un acuto non scritto per preparare il quale si sono omesse alcune battute e con esse il soggetto del verbo (“vi disperda!”, ma chi è colui che debba compiere tanto sterminio non ci è dato sapere se, come sempre accade, si tace “ma di Dio la mano irata”). Neanche il nostro Edgardo, Enea Scala, è riuscito a resistere a questa tentazione, ma lo ha fatto con gusto e senso della misura. Il giovane tenore siciliano ha offerto una lezione di stile, dimostrando che è possibile andare in collera senza necessariamente dover sbracare e sberciare. Il volume della sua voce non è affatto ampio, ma per cantare Edgardo non è necessario lanciare in aria tonnellate di suono, ed anzi la maggior parte degli interpreti più importanti di questo ruoli non sono stati tenori contraddistintisi per la potenza vocale. Tradurre in pratica le buone intenzioni è possibile solo se si possiede una solida tecnica vocale, e oggigiorno non è così frequente imbattersi in un tenore con una voce tanto uniforme, omogenea in tutta la sua notevole estensione, uno strumento in cui non si avverta scalino alcuno fra i vari registri, ed è un peccato che non abbia tentato il mi bemolle sovracuto nel duetto del primo atto. Apprezzabile è stata la scelta di cambiare cadenza al termine di “Fra poco a me ricovero”, ed ancor più la facilità e la naturalezza con cui ha sostenuto “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, intonata a fior di labbra con evidente commozione. Natalia Roman è stata tutto sommato una Lucia più che rispettabile: la voce, nonostante non si distingui per purezza timbrica, è decisamente più corposa di quanto non si sia soliti ascoltare in questa parte, in particolare nel registro medio-acuto, e se i re naturali sono emessi con sfrontatezza, già i mi bemolle, quantunque ben riusciti, fanno intuire che al di sopra non deve esservi molto spazio di manovra. L’agilità non è molto nitida e sgranata, e le ha dunque giovato il taglio tradizionale delle battute di fitta coloratura (“l’’inumano tuo rigor”) nel duetto del secondo atto con Enrico. Quel che ha colpito maggiormente è stata l’intensa partecipazione emotiva, la ricerca di colori e accenti e il tentativo di dar vita ad un personaggio compiuto, con un preciso iter psicologico. Nel primo atto ritrae un’eroina più calma e coraggiosa del solito: è solo quando Edgardo annuncia l’imminente partenza che si intravedono i primi segnali di vera agitazione, culminata in una scena della pazzia toccante e coinvolgente. Per concludere, la figura slanciata e aggraziata e il bel volto dagli zigomi alti l’hanno aiutata a rendere più credibili dei costumi e una parrucca decisamente ingombranti. Il pubblico, a dire il vero non numerosissimo, ha accolto con calore tutti gli interpreti, incluso il regista, che al contrario la sera precedente era stato oggetto di alcune contestazioni. Foto Marcello Orselli