Cremona, Teatro Ponchielli, La Danza 2015
Balletto Civile
“IN-ERME”
Ideazione Michela Lucenti, Maurizio Camilli, Alessandro Berti
Regia e coreografia Michela Lucenti
Drammaturgia Alessandro Berti
Creato ed interpretato da Alessandro Berti, Maurizio Camilli, Ambra Chiarello, Francesco Gabrielli, Sara Ippolito, Maurizio Lucenti, Michela Lucenti, Alessandro Pallecchi, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra, Giulia Spattini, Isacco Venturini e con Tommaso Vaja
Musiche originali eseguite dal vivo Julia Kent
Coro Cantori da Verméi
Drammaturgia del suono Tiziano Scali
Costumi Chiara Defant, Marzia Paparini
Luci Stefano Mazzanti
Cremona, 14 febbraio 2015
Aristotele diceva che “la cultura è un ornamento nella buona sorte, un rifugio nell’avversa” e credo invece abbiamo sempre saputo che non c’è soluzione di continuità, ché il fare cultura è un modo per ragionare sulla vita, ridendo di essa, ovvero celebrando quelli che sono i suoi rituali più macabri.
È un afflato, un’ispirazione che è retaggio di chi ha un forte senso artistico come Balletto Civile, di chi alla cultura dà un senso civico, volutamente etico; di chi, col teatro-danza, sa usare un sistema coreutico per comunicare pensieri ed emozioni. In-erme ha la stessa valenza di un manifesto di denuncia, una Guernica: un racconto sulle atrocità della guerra, che lascia attoniti e impotenti. La famosa tela di Picasso viene tra l’altro richiamata in due precisi momenti di questo atto unico: all’inizio, nelle posture dei corpi morti affioranti da sotto il sipario-tela bianco e alla fine, per la luce che piove drammatica da un lampadario oscillante che illumina l’agitarsi scomposto di figure urlanti, che girano e ruotano vestendo cappotti lunghi fino quasi a terra, dei mantelli, con la coda, verdi militare.
Come specificato nel libretto di sala, il prefisso In del titolo allude al racconto Incessante, Inalterabile, Inenarrabile di tutte le guerre, di fronte alle quali rimaniamo Inetti e Inutili, ovvero Inermi, come chi è paralizzato dall’orrore. In vero, In-erme intende reincarnare le assurdità della I guerra mondiale e lo fa usando un codice di comunicazione in grado di essere insieme riflessione e condivisione di esperienze. Michela Lucenti, Maurizio Camilli e Alessandro Berti hanno uno spiccato senso scenico, veri esteti della rappresentazione, qui guarnita di un appropriato corredo sonoro: musicale e vocale. A un coro, infatti, i Cantori da Verméi, in formazione ridotta da 9 a 5, è dato il compito di evocare quei ricordi di esperienze da noi spettatori mai direttamente vissute; di storie imparate a scuola. Al coro alpino, dallo stile polivocale arcaico-liturgico, con voci urlate a squarciagola, senza base musicale, è assegnato il compito parabatico, un azzeccato espediente che da solo sa tradursi in momenti di vera eco emozionale.
Dopo il “Miserere mei, deus”, come monito, il sipario apre su una scena spoglia in cui prendono vita varie storie e tra queste spiccano per bellezza coreografica due duetti: quello tra la sposa e il soldato e quello tra l’israeliano e il palestinese (o presunti tali); danze ricche d’intesa nei movimenti e disposte al centro del palco, mentre attorno si muovono e passano altri personaggi, che saranno poi a loro volta protagonisti. In scena suona dal vivo una violoncellista (la canadese Julia Kent), la cui posizione è contrapposta a una figura, al lato opposto del palco: una sorta di demiurgo, che la coda dell’occhio vede muoversi come fa un direttore d’orchestra quando dirige, come fa un burattinaio quando muove le sue marionette. C’è poi una voce fuori campo che proclama discorsi e fa domande retoriche: “Chi racconterà questo orrore”; “Cosa devo fare per insegnarti a dire no” e “Noi passeremo per la porta stretta” che sono, quest’ultime, parole evangeliche rivolte a Gesù da chi gli chiede quanti saranno gli eletti, quelli che avranno salva la propria anima: i redenti dai peccati.
Molto bella la coreografia di gruppo, una danza macabra che unisce vittime e carnefici, che inizia mesta e finisce solenne sulle note di un “Over the rainbow” che allevia la tensione, che infonde speranza per tempi migliori. Ma ritorna il sipario-sudario (retroilluminato), una sindone che mostra le impronte delle mani dei danzatori, come lapide alla memoria dei caduti. L’atto di questa macabra vaudeville è unico ma la scena viene chiusa più volte dal sipario dove l’occhio di bue isola scenette di contrappunto, che fanno da opposto scenico, a quelle invece corali sullo sfondo, di quinta.
E siamo alla parata finale: una trovata scenica d’effetto che lascia disarmati (Inermi, senz’armi). Tutti sul palco, messi come nella disposizione de “Il quarto stato”, con davanti tre figure a petto nudo: un anziano, un giovane e un bambino (le età dell’uomo), perché in guerra non v’è risparmio di generazione. Tutti cantano “Sono un povero disertore, valicai le mie montagne…”. A sipario chiuso si ricompongono in cerchio i cinque cantori che allungano l’eco dei ricordi con “Eravamo in ventinove solo in séte siamo tornà e li altri ventidue soto i colpi sono restà”, e stavolta sembra che il pubblico voglia partecipare, assecondando il ritornello. In-erme ha inaugurato la Rassegna “La Danza 2015” del Teatro Ponchielli. Foto Stefano Vaja