Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2014-2015
“Concerto per Firenze Capitale”
“Lucia di Lammermoor” (Atto III)
Musica di Gaetano Donizetti
Enrico JULIAN KIM
Lucia JESSICA PRATT
Edgardo YIJIE SHI
Raimondo ENRICO GIUSEPPE IORI
Normanno SAVERIO FIORE
“ERNANI” (Atti III e IV )
Musica di Giuseppe Verdi
Don Carlo MASSIMO CAVALLETTI
Elvira VIRGINIA TOLA
Ernani FRANCESCO MELI
Don Ruy Gomez de Silva ENRICO GIUSEPPE IORI
Don Riccardo SAVERIO FIORE
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Giuseppe La Malfa
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Firenze, 3 febbraio 2015
Alle 22.45 del 3 febbraio 1865, il re Vittorio Emanuele si apprestava ad intraprendere il corteo di trasferimento dalla stazione di Santa Maria Novella alla reggia di Palazzo Pitti, tra la costernazione dei piemontesi e gli onori dei fiorentini, cittadini di una Firenze che timidamente s’improvvisava capitale d’Italia. Scriveva Giosuè Carducci: “il trasporto della capitale l’approvo ma non nego che, come fiorentino antico e artista, penso con orrore alla città di Dante e di Giano, di Machiavello, di Michelangelo, e di Ferruccio, cambiata in un’uggiosa capitale di uno stato accentrato!”. Dopo 150 anni sorge dunque spontaneo chiedersi cosa rimanga, alla luce dell’assestamento della capitale nella “caput mundi”, di quegli anni di gloria. Sicuramente una capitale mondiale della cultura dall’elevato spessore artistico, ancora capace, malgrado il clima tempestoso in cui rollano le principali iniziative culturali italiane, di emozionare il suo pubblico con programmazioni musicali d’interesse, come nel caso di questo concerto celebrativo che coglie anche l’occasione per ricordare il pianista Aldo Ciccolini.
Due gli estratti d’opera proposti, entrambi dal melodramma italiano. Si tratta del terzo atto della “Lucia di Lammermoor”, opera di maturità del maestro Gaetano Donizetti, e di un tributo al primo Verdi con le atmosfere della seconda parte di “Ernani”. La serata non stenta dunque ad entrare nel vivo, conducendo all’apice di uno dei drammi più intensi che richiede da subito consapevolezza e fermezza nella direzione. A questo proposito è doveroso iniziare con una nota sulla professionalità dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, autentico golfo mistico dalla forma smagliante che ha impreziosito con la sua brillantezza esecutiva un concerto di buoni contenuti vocali. Alla sua guida, Giuseppe La Malfa si dimostra abile destriero nelle alternanze dell’agogica col suo ampio spettro di soluzioni coloristiche. Spontaneo nell’imprimere tempi vivaci e freschi, nel raggiungere frequenti punte di smaltatura timbrica, nel programmare con ponderazione sia le velature d’introduzione che i sostenuti flussi in “andante” della sezione degli archi in preparazione alle instabilità prodotte dai tremoli dei violini o dagli accordi dissonanti prima del culmine, il direttore non esita a mettere in risalto la competenza dell’organico orchestrale e corale ove lo sparito gli concede maggiore autonomia, senza disperdere le delicatezze cromatiche o prevaricare le linee di canto solistiche. Così, se in fase di stretta od al termine delle sezioni corali approda misuratamente a sonorità coinvolgenti e dinamiche di rilievo, non viene perso alcuno spunto per saggiare le evanescenze della partitura, come ci rivelano gli impalpabili interventi dell’arpa uniti alla leggerezza dei “pizzicati” a suggello del perdono di Carlo (“O sommo Carlo”) o le sfumature dell’alleggerimento orchestrale che portano al congedo nei due finali. Purtoppo, la struttura in forma di concerto lo costringe a far inaspettatamente cominciare il terzo atto di “Lucia di Lammermoor” con la scena terza, passando dalla “pazzia” del soprano, in cui prevedibilmente non troviamo la “glass harmonica” ma l’accompagnamento del flauto, all’aria di Edgardo; tuttavia i riferimenti alla musica di funzione scenica, ora con la campana che suona a morto per Lucia, ora col ben scandito colpo di cannone allusivo all’ascesa di Carlo, sono stati sempre puntuali e pertinenti. Da sottolineare infine come la solennità nei tocchi di corno, oboe e percussioni, fusa ad un carismatico apporto del coro, abbia reso il “Si ridesti il Leon di Castiglia” particolarmente in linea col clima di celebrazione del concerto, facendo emergere una delle tante cifre stilistiche di Verdi che l’audience ha immediatamente riconosciuto con un vivo applauso.
L’armonia col palco si rispecchia senz’altro anche nelle capacità del coro, seguito da Lorenzo Fratini, che mostra profonda affezione a queste due opere oltre che grande esperienza nell’affrontarle, come emerge dal suo variegato ventaglio dinamico, dagli staccati di accorata sospensione o dalle soffuse chiusure di sensibile dizione nel prendere parte al racconto di Raimondo. L’incipit di “Ah quella destra di sangue impura” ricorda curiosamente l’interpretazione del “Va’ pensiero”, con quell’impronta tenue qui destinata ad un crescendo di volume verso picchi di maggior severità, mentre sgargiante è il modo in cui l’insieme riesce a realizzare i toni guizzanti della festa da ballo (“Ernani”, atto quarto) intessuti tra la netta scansione delle parti, all’interno di un’esibizione dedita alla levigazione delle frasi.
La prima voce ad esordire sul palco ha il calco autoritario di Enrico Giuseppe Iori, impegnato come Raimondo e come Don Ruy Gomez de Silva. Il basso presenta un timbro scuro anche se piuttosto fibroso, omogeneo e risonante, che dà luogo a note basse vibranti, ma nessuno dei due personaggi si delinea veramente per via di un approccio di matrice ripetitiva nella strutturazione delle frasi e generico nelle intensità fisse in mezzo-forte, probabilmente dovute ad un’impostazione che vuole essere voluminosa. Nonostante la fortuna di potersi esprimere in un’aria, i lievi stemperamenti verso la mezza voce si riducono infatti ad occasionali spunti in recitativo, come nel buon fraseggio sulle parole “il mio sposo ov’è mi disse”, in opposizione ad un’emissione pericolosamente nasale nell’ascendere alla zona acuta. Invece di tentativi di rinforzo per un maggior coinvolgimento emotivo, che lo portano in almeno un’occasione ad inflessioni davvero poco controllate, avremmo preferito un maggior scavo psicologico del personaggio mediante modulazioni più approfondite, la cui assenza ha portato nella prima parte ad un’aria lontana dal senso di estraniazione delle strategie musicali di Donizetti, in attesa di un decollo destinato a non arrivare, e nella seconda al non risalto dei richiami perentori di Silva riguardo al giuramento. Interpretazione da fuoriclasse quella di Jessica Pratt in questa pagina estrema del repertorio melodrammatico. Perlacea fin dalle frasi centrali d’inizio, il soprano esordisce instaurando una sottile contrapposizione stilistica. Nell’ottica di raggiungere il giusto spessore di una mente in bilico, infatti, assistiamo al dispiegarsi in piano di suoni mantenuti a lungo attraverso un pieno controllo emissivo che, proprio in virtù della loro tenuta, risultano sospesi nel ricordare Edgardo, dunque eterei nella scansione degli intonatissimi passaggi semitonali che sfiorano altezze significative per subito ricadere con sicurezza in questa magistrale resa del senso di straniamento mentale, mentre fioriture vocali in crescendo, di alta definizione e sorprendente fluidità, simulano i più oscuri gorghi psichici. Lodevole poi come la Pratt entri gradualmente nel corpo centrale dell’aria, soffusamente abbozzato con rinforzo sull’ultima sillaba di “incensi” per riprendere con purezza in piano, quasi stentando ad accorgersi del passaggio musicale dal recitativo al cantabile, bel riflesso vocale dell’incapacità di Lucia di associare correttamente i propri pensieri agli eventi. La linea di canto si fa più distesa, in una parentesi memorabile per l’acutezza nella sensibilità dinamica, la rarissima limpidezza d’emissione e la struggente finezza del legato, davvero ammirevole già nel sublime passaggio “Oh lieto giorno! Alfin son tua” dove l’interprete rivela una respirazione impeccabile, che mai spezza la continuità, nel più elevato controllo della purezza del suono e delle onde trasmissive in piano-pianissimo. La cadenza (sempre quella di Paolantonio) instaura in sala un’atmosfera di attesa. Il pubblico rimane infatti in assoluto silenzio, rapito dall’emozionante rincorsa tra l’accompagnamento e l’ineccepibile proiezione della voce femminile, che si diffonde in modo del tutto naturale, esibendo estrema ricchezza di armonici, nella loro straordinaria proiezione tra staccati e picchettati, innata capacità d’esecuzione di trilli e passi d’agilità, ragguardevole nitidezza nelle appoggiature. Elementi che conducono la Pratt, grazie alla sua caratteristica destrezza nel registro acuto, ad un trionfale mi bemolle sovracuto, trascinando l’entusiasmo dei presenti nelle meritate scrociate di applausi e di “brava!”, riprese instancabilmente anche nel finale. Permanendo “dentro” la pazzia anche nel tempo di mezzo, in cui i raccoglimenti nel velo ed un fraseggio così studiato da essere fatto proprio sono indici di come l’allontanamento dal mondo non sia solo psichico ma anche fisico o, meglio, di come l’uno stia conducendo all’altro, il soprano si avvia con mordente alla cabaletta conclusiva. Anche qui, non vi è puntatura acuta o passo virtuosistico, per quando disorientante od intrecciato, da cui un timbro non solo squillante ma soprattutto di rara lucentezza non esca a testa alta, in una prova attualmente difficile da riprodurre quando il soprano australiano non è presente in locandina. La sezione successiva dell’opera stupisce per la sentita resa musicale ed attoriale del tenore cinese Yijie Shi, le cui scelte tecniche rendono appassionante la difficile aria di Edgardo e gli consentono di rimanere protagonista non solamente per la durata dei momenti solistici ma anche negli intermezzi in recitativo. Con coinvolgente proiezione, riesce a sfruttare al meglio le sue risorse liriche nel seguire il lugubre velo musicale intriso di malinconia verso uno struggente addio alla vita, manifestando accurato studio del fraseggio e nitidezza di dizione. Spicca la cura nella gestione delle intensità per fini drammatici inquadrata in una linea di canto sapientemente dosata con un efficace sostegno dei suoni e messe di voce sempre salde, scolpite dal controllo nella precisione degli stacchi dal fiato. Il tenore cinese non esita a risalire il pentagramma, nell’intiepidimento timbrico della fascia centro-acuta, ed afferra con sicurezza le maggiori altezze della scrittura seppure, avvicinandosi alla conclusione, alcuni intervalli ascendenti risuonino più schiacciati a causa di un’emissione più di testa. Accorto nel risorgere in piano dopo incisivi culmini vocali (avviene ad esempio nel “rispetta almen le ceneri”), rivela duttilità nell’incalzare della respirazione col progressivo addentrarsi nella cabaletta finale concedendo, nella ripresa, una fine attenuazione sulla rottura delle frasi inflitta dalla ferita mortale, di stampo comunque lirico e giusto appena poco sofferente. Di carattere infine, per scurezza emissiva e severità dei toni, i brevi ragguagli dell’Enrico di Julian Kim nei confronti della sorella.
È quindi la volta di “Ernani”, successo internazionale di un giovane Verdi che per una delle prime volte si apprestava ad approfondire con maggiore libertà, dato il più ristretto pubblico del teatro veneziano rispetto a quello delle commissioni milanesi, l’approfondimento dell’influsso drammatico sui conflitti interpersonali, arrivando all’elaborazione coerente del lungo terzetto terminale. Tutt’altro che trascurabili le doti vocali di Massimo Cavalletti, decisamente sulle corde nel rivestire il ruolo di Carlo, denso di un’autorevolezza favorita dal timbro scuro, liscio in basso. Il baritono dispiega una vocalità notevolmente sonora in tutta l’estensione che lo mette piuttosto in evidenza nelle scene d’insieme, soprattutto tenendo conto della posizione insidiosa che l’orchestra assume nelle estrazioni d’opera in forma di concerto. Quel che invece è perfettibile è l’emissione, che si flette di tanto in tanto ad occlusioni meno naturali e rigonfiamenti, col risultato di smussare la nitidezza della proiezione nelle parentesi melodiche o sconfinare in pigli di natura maggiormente arieggiante verso dissolvenze in fase di chiusura. È questo il caso della conclusione dell’aria, dove un ardito smorzamento rischia di finire nel naso. A suo agio con la tessitura, come ci si rende conto dalla regolazione del volume nel cantabile e dall’incisività d’accento, conferma nell’introduzione della cavatina le premesse di un fraseggio ben definito che, nel piano di “scettri”, nel rinforzo oscuro sulla parola “dovizie”, fino alla mesta arcuazione velata del “che siete voi?”, trova il suo momento migliore per poi giungere all’avvio dimesso in mezzo-piano con progressivo crescendo al forte in “Oh, de’ verd’anni miei”, d’effetto per la regolare diffusione del vibrato nelle espansioni liriche del solido registro acuto nonostante la prudenza di abbellimenti a tratti eccessivamente scalfiti. Dinamica che, ancora più sommessa e con una linea di canto ancor più soffice, viene ripresa nel concertato di fine atto.
Il suo rivale, impersonato dall’Ernani di Francesco Meli, può certamente vantare una voce suadente di tenore lirico, con facilità nel raggiungimento del registro acuto e soprattutto grande stabilità in tenute dal vigoroso sostegno. Per di più, i ricorsi alle mezze voci, sia nel sigillo del finale che durante l’ultimo atto quando la scrittura si fa riflessiva o densa di vana illusione, lasciano ben sperare in un’interpretazione di livello, eppure qualcosa gli impedisce d’immergersi completamente nell’essenza romantica del personaggio. Saranno stati i colpi di tosse nascosti durante le pause o forse un’esecuzione sì con variazioni d’intensità ma senza particolari dinamismi su una nota od all’interno delle varie frasi musicali di una stessa struttura, fatto sta che la resa vocale di Meli non scalda il cuore. La sua è una caratterizzazione apparentemente coloristica, tuttavia la continua rincorsa verso gli slanci lirici gli costa meno rilevanza anche nei punti in cui la linea di canto s’intenerisce, per un diminuito controllo nelle legature di passaggio e nelle chiusure dei suoni, offuscando la dizione alla stregua di un fraseggio dalle inflessioni indubbiamente languenti ma complessivamente poco attento al dettaglio e con saltuarie ricadute di gola.
Virginia Tola, soprano protagonista di questa seconda sezione, si districa con impegno nella tessitura altalenante di Elvira, descrivendo un personaggio che, disilluso, suscita apprensione. Il soprano argentino è almeno per estensione in grado di riuscire nella parte, tuttavia evidenzia una certa disomogeneità di registro che perde di liricità negli affondi, mostrando un’area centro-acuta divisa da un’estremità inferiore abbastanza metallica ed una fascia superiore dotata di venature più omogenee, mentre una zona acuta tagliente, soprattutto se presa di forza, emana un percettibile senso d’instabilità, quasi di ritardo, nelle salite. Tecnicamente, oltre a dare l’impressione di dover aumentare il margine nel canto spiegato a piena orchestra, porta a termine con successo un singolare pianissimo ottenuto attraverso una sorta di percussione timbrica in gran sordina (più un “ppp”) e si rivolge con dedizione agli elementi virtuosistici, così come all’assottigliamento del finale, esibendo la maggiore rotondità vocale nell’ “Ah, ma che diss’io?… perdonami…” del terzetto. A chiusura della compagnia di canto, Saverio Fiore (Normanno e Don Riccardo) affianca Carlo con voce stabile e studiata costruzione del discorso, collocando un buon affievolimento teso ad addentrarsi meglio nella mente del sovrano. Non delude infine il pubblico di una Firenze non più capitale, che conclude la serata accogliendo tutti gli interpreti con calore e salutando ancora una volta con affetto l’organico del Maggio Musicale Fiorentino.