Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2014-2015
“I PURITANI”
Melodramma serio in tre parti su libretto di Carlo Pepoli, dal dramma “Têtes rondes et cavaliers” di Jacques-Arsène-François-Polycarpe d’Ancelot e Boniface-Xavier Saintine.
Musica di Vincenzo Bellini
Lord Gualtiero Valton, governatore puritano GIANLUCA MARGHERI
Sir Giorgio Valton, suo fratello GIANLUCA BURATTO
Lord Arturo Talbo ANTONINO SIRAGUSA
Sir Riccardo Forth MASSIMO CAVALLETTI
Lord Sir Bruno Roberton SAVERIO FIORE
Lady Elvira Valton, figlia di Gualtiero JESSICA PRATT
Enrichetta di Francia, regina d’Inghilterra ROSSANA RINALDI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Matteo Beltrami
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Fabio Ceresa
Scene Tiziano Santi
Costumi Giuseppe Palella
Luci Marco Filibeck
Movimenti coreografici Nikos Lagousakos
Nuovo allestimento in coproduzione col Teatro Regio di Torino
Firenze, 28 gennaio 2015
Finalmente, in una fredda sera di fine gennaio, l’innovativo schermo luminoso che schiude il passaggio nella nuova piazza Gui segna la ripresa di un grande titolo di belcanto, come quello dell’ultimo capolavoro belliniano. Il pubblico in sala attende pazientemente l’inizio dello spettacolo, entusiasta di doppiare il vantaggio su un allestimento coprodotto col Teatro Regio di Torino, che arriverà nel capoluogo piemontese solo nella metà di aprile e forse, nel caso dei più appassionati, appena nostalgico delle grandi interpretazioni del passato ma anche fiducioso di vivere in un presente che può riprodurre le emozioni e l’immediato successo suscitato nel 1835 dopo la prima parigina, in un repertorio spesso evitato proprio a causa della difficoltà di reperire interpreti in grado di sostenerlo o, peggio, azzardato tra omissioni e stemperature argutamente nascoste sotto apparenti motivazioni filologiche.
Ciò che coglie l’audience di sorpresa, è il misterioso viaggio atemporale verso i moti più reconditi del subconscio umano a cui sta per prendere parte, all’interno di una produzione che deve il suo fascino alla riscoperta dell’interpretazione.
La chiave della principale idea registica di Fabio Ceresa dovrà infatti attendere fino alla mesta considerazione di Elvira del terzo atto per essere svelata con certezza: “Ah no… tre secoli…”. Un’esclamazione seguita da tre parole, mai tanto originalmente portate sul palcoscenico e nella delicata rete delle interazioni caratteriali. Gli indizi di questo risiedevano fin dal primo atto in quel basamento corroso di pietra meteoritica dai riflessi argentei che si allarga sul fondo della scena a creare un bacino luminoso curvo, rimandando metafisicamente alla topologia dello spazio-tempo nella subitanea distruzione del tempo esterno, che sembra avvenire in concomitanza con le movenze frazionate dei guerrieri curate da Nikos Lagousakos, a favore di un tempo interno modulato sulle increspature interiori dei singoli personaggi. Ce ne rendiamo conto da un Riccardo che affronta la cavatina iniziale sostenendosi alla tomba della giovane, come se la perdita sentimentale si trasfigurasse nell’annientamento vitale, ma soprattutto da un Arturo che nel finale sembra di ritorno da un viaggio nello spazio in cui il tempo in orbita, scorso solamente di tre mesi, causa un definitivo scollamento con la realtà che, con i suoi tre secoli passati, lo immerge in un mondo a lui estraneo, in cui quasi non vi sono più le condizioni per un amore di tanto tempo prima, come suggerito da una regia che qui evita qualunque tipo di contatto tra tenore e soprano, inducendoli a cantare il celebre duetto schiena contro schiena.
La dilatazione temporale trova comunque il suo centro di convergenza in ciò che accade nella mente di Elvira. A questo scopo, il castello viene chiuso in una bolla metatemporale di sospensione, riflesso delle fluttuazioni della ragione della protagonista, in cui gli anni passano permettendo allo stesso tempo ai personaggi di sussistere: l’esercito (coro) si fa scheletrico, scavato negli occhi, i volti impallidiscono e simultaneamente si assiste alla deflagrazione scenica verso un territorio lunare in piena sintonia con la caducità dei dettagli ornamentali degli abiti di Elvira, mentre le luci di Marco Filibeck insistono sull’oscurità di un universo senza sole, oltre che rispecchiare l’offuscamento dell’intelletto. Del resto, un tale progetto concettuale non sarebbe stato possibile senza poter contare su una fusione “a tutto tondo” con scene, costumi e luci. Proprio all’apparato scenico di Tiziano Santi è inoltre affidato il compito d’introdurre il secondo filone registico, non così efficace quanto il primo e, sicuramente, meno legittimato dal libretto. Lo sfondo della vertiginosa cattedrale gotica in vista prospettica absidale destinata a collassare su se stessa, immagine di un matrimonio che non sembra aver luogo, conduce infatti ad una dimensione più spirituale dell’opera, coadiuvata da un’illuminazione che, nonostante la generale stabilità se non nei vaghi riflessi di luce ramata sulle venature della volta e nella luminescenza dello sfondo astratto del terzo atto, si apre momentaneamente a raggiera mettendo in risalto la preghiera del mattino. Rispetto a quel fuoco di vendetta evocato dalle fiamme di luce che emergono durante il preludio dalle lapidi grafitiche e ripreso al momento della cattura di Arturo, dunque, sembra attecchire un fine più alto, basato su una salvezza dell’anima che può essere possibile solo attraverso il perdono. Un po’ come se il varco angolare a senso acuto, difeso a sinistra dall’immagine della morte, potesse essere superato nel giorno del giudizio solo dopo aver percorso quel cammino di perdono che l’icona del vescovo sulla destra suggerisce. Sorge quindi spontaneo l’accostamento di Elvira e Riccardo, esplicito nell’aria del soprano, che a più riprese li vede misurarsi col perdonare Arturo, ponendoli spesso vicini sul palco in quanto legati dalla sofferenza per una differente perdita della persona amata, eppure così lontani nei sentimenti verso il tenore. Sottile la trovata registica con cui, negli istanti che precedono il calo del sipario del primo atto, Riccardo guarda l’amata cercare Arturo con espressione di contrattazione, come a volersi spacciare per il promesso sposo, mentre la ragazza rafforza la stretta al cuore del velo, appigliandosi all’unico ricordo rimastole, con espressione timorosa ma di chi non intende cedere a compromessi d’amore. Appare invece eccessiva la scena finale che vede Riccardo armato di spada sul giovane cavaliere tra la prostrazione della massa corale, dal momento che il perdono viene suscitato nel baritono in seguito al duetto con Giorgio di un atto prima. Incantevoli i costumi di Giuseppe Palella, eco tradizionale della serata nonostante la postposizione di circa due secoli che comunque non pecca di coerenza entro un allestimento che proietta lo stato interiore dei caratteri sull’ambiente in autentica atmosfera romantica. Al di là delle precise rifiniture, del cangiantismo cromatico, degli autorevoli ricami e dell’arguto sfoltimento delle parrucche, il piano del costumista s’inserisce nell’impianto registico principalmente attuando un interessante processo di deterioramento sull’abito di Elvira, d’intensa ripercussione concettuale. Già nel secondo atto i petali bianchi dell’abito nuziale si stracciano, mentre il vestito rosa del duetto con lo zio, così puro come i propositi di una giovane che felice si appresta all’altare, sfiorisce nell’ultimo atto, sfumando di scuro e perdendo petali come una rosa che appassisce sprofondando nella sfumatura anticata perché rimasta senza linfa vitale. I costumi evolvono poi in direzione più prettamente drammaturgica, preludendo alla tragedia come nella scelta di tingere di nero il velo nuziale, elemento innescante il malinteso che porterà al dramma, che sembra estendersi indefinitamente ammantando di lutto l’intero spazio scenico o nel ricorso ad una sorta di collimazione tra Arturo ed il suo mantello che, ora posto da Elvira su Riccardo nell’illusione di rievocare l’amato prima di portarlo via con sé, ora aggredito dal baritono vedendone la traccia del suo avversario, viene infine ritrovato da Arturo come segno tangibile di un passato ineluttabile. In tale universo inter-cosmico brilla di luminosità timbrica la stella di Jessica Pratt. Di ragguardevole proiezione fin dai malinconici stacchi di voce iniziali, per il soprano australiano i maggiori ostacoli con cui rapportarsi sono da ricercarsi nella tessitura del primo atto, le cui saltuarie declinazioni centro-gravi, sulle quali la natura di una voce naturalmente spostata verso il sovracuto presenta delle più vulnerabili sfumature, le danno sporadicamente filo da torcere, soprattutto nelle inserzioni a piena orchestra, per altro non agevolata in molti punti dalle debordanti spinte dell’organico orchestrale e corale, senza contare le infelici movenze registiche in fondo scena o le ancor peggiori immersioni all’interno del coro. Detto questo, la prova della Pratt, che saggiamente mai cede a forzature innaturali, è libera di librarsi in tutta la sua tecnica virtuosistica tra le colorature della “polacca”, dove lo scolpirsi efficace delle puntature, l’innato squillo, un senso ritmico da vera interprete, uniti ad agilità e trilli di ricchezza timbrica davvero poco comune all’interno delle pregevoli variazioni in ripresa che conducono alla progressiva successione dei picchettati a rimbalzo, compongono una danza pirotecnica egregiamente condotta e concretamente adatta a trasmettere tutta la freschezza emotiva di una giovane sposa. Speranzosa poi disillusa, la sua Elvira non stenta a rinchiudersi in un oscuro sprofondamento della ragione, costituendo l’unica restituzione attorialmente d’interesse dello spettacolo. È comunque nella grande aria centrale che il soprano esibisce tutta la sua indole belcantistica. La limpidezza d’emissione con cui solca in piano l’andamento morbido dei flussi del cantabile mette in luce una resa dinamica impreziosita da una continua evoluzione, alla ricerca della purezza dei suoni, specialmente nelle sottilmente sostenute filature in pianissimo. Raffinate soluzioni cromatiche che si pongono ad identificazione vocale di una “pazzia” giocata su un ricercato gioco di sguardi e di espressioni cangianti che galleggiano su di una ragazza dall’incedere incerto, più che inanimata senza una ragione di vita, sull’onda di una sorta di morte interiore. Del resto, già da prima la cantante aveva mostrato abilità nel modulare la tristezza in pianto tramite un uso più trattenuto del vibrato e, soprattutto, nel trasmettere uno stato d’animo anche solo con un’unica nota, attraverso il difficile controllo di tenuti crescendo con smorzamento e successivo rinforzo. La cura nella continuità della linea di canto, associata ad un coerente spirito interpretativo, le permette inoltre di mantenere elegantemente questa sospensione limbica anche nella cabaletta, senza incorrere nelle insidie di un trascinamento emotivo, confermando virtuosismi da usignolo e scaricando la tensione in una magistrale chiusura in mi bemolle sovracuto, più che emesso diciamo suonato con la proiezione lucente di uno strumento musicale in grado ancora di salire ben oltre. Celestiale nei declamati drammatici dell’ultimo atto, non si può fare a meno di ammirare l’alternarsi tra le sublimi onde proiettive, come quelle della variazione ondeggiante sulla parola “singulto” che quasi riprende lo stile puro dell’“Ah vieni al tempio”, e qualche guizzo di pastosa diffusione, contrasto teso a rispecchiare l’oscillare della lucidità di una Elvira che rimane atterrita al solo parlare di morte e distaccata da un amore stemperato dalla sofferenza e dai secoli, senza dare l’impressione di riprendersi mai veramente. Già dall’interpretazione di Antonino Siragusa (Arturo), statuario nell’azione ad esclusione dei soliti eleganti espedienti nel muovere le braccia, le doti attoriali non sembrano essere il punto di forza della serata. Vocalmente, il timbro è leggero e discretamente emesso, soprattutto da sopra il centro all’acuto, ma contiene dei limiti di penetrazione che lo pongono un po’ sullo sfondo nelle scene d’insieme specialmente quando la scrittura è centrale. Nonostante il dispiegarsi di un’emissione abbastanza nitida, la voce non assume quello squillo e quel calore carezzevole di un tenore romantico. Perdonandogli qualche stacco inopportuno nei fiati, il tenore siciliano elargisce morbide legature ed acuti sicuri, anche se manifesta una certa apprensione nell’approdare al registro acuto, centrando le note alte con una sorta di rimbalzo da sotto che gli permette di ottenere il giusto slancio nella messa a fuoco, tecnica che gli costa un po’ di sgraziatezza nella fretta di concludere i suoni ed al termine delle frasi che provengono dall’alto. Il carattere del suo personaggio è sostanzialmente definito dal buon fraseggio e dalla precisa scansione del testo, mentre la linea presenta delle delicatezze nelle variazioni emissive, come nelle riflessioni del terzo atto, in cui l’assetto strofico gli risulta particolarmente congeniale, o punti di accresciuto ascendente nell’accento, senza però risultare totalmente perentorio od emotivamente troppo coinvolto. I dettagli coloristici di un canto che oscilla dal mezzo-piano al mezzo-forte (mai un piano-pianissimo) e con invarianza di volume una volta sceltane l’impostazione, sarebbero potuti essere molto più profondi in un ruolo del genere, così come l’incisività nello stampo lirico, soprattutto nel seguire le vicissitudini emozionali dell’ultimo atto in cui la distanza a livello interpretativo col soprano al momento del duetto si fa marcata.
Imperioso il debutto di Massimo Cavalletti come di Riccardo. Il baritono può certamente fare affidamento su un buon mezzo vocale e messe di frase dal piglio deciso, che sicuramente lo potranno rendere influente nel ruolo, tuttavia un’emissione gonfia, al limite degli sconfinamenti nasali e non scevra da variazioni nell’apertura dei suoni in fase di passaggio, ne sfavorisce al momento l’effetto sul fiato e la caratterizzazione generale. Mostra incertezza ed eccessiva cautela nelle agilità dell’aria, nei centri affrontate con proiezione instabilmente ondulatoria per mutare verso punte di asciuttezza in basso, dimostrando per lo più padronanza del registro acuto. Peccato però per il sovracuto a chiusura del “Suoni la tromba”, sostenuto con evidente fissità. Quel che comunque predomina nella sua interpretazione è una continua piattezza di volume ed il mancato utilizzo di un ampio spettro timbrico a cui un fraseggio, che potrebbe essere ancora più approfondito, non sopperisce. Elementi che contribuiscono ad originare un personaggio monocorde, indipendentemente dal comportamento e dall’evoluzione dei sentimenti della parte, che lo coglie poco indipendente nell’azione se non al momento della sorpresa in risposta al bacio di Elvira.
Sicuramente una metamorfosi attoriale quella che colpisce il Sir Giorgio di Gianluca Buratto nel passaggio dal primo atto agli ultimi due. Se infatti la recitazione inizia generica e stazionaria, il basso si presenta con accorate espressioni di struggimento, contristate movenze e studiata costruzione delle frasi al cospetto del coro prima d’intraprendere il suo racconto in cui la linea di canto viene intenerita in piano sfociando in bei legati e dove il cantante fa uso drammatico di qualche pausa come se l’emozione gli impedisse quasi di proseguire, riuscendo infine ad avere la meglio sul baritono nella tempra del duetto successivo. L’emissione è però costantemente fumosa, offuscando alle volte la regolarità del vibrato, anche se gli consente di raggiungere una proiezione risonante di grande cavata e simile è ciò che accade alle note basse, di natura non propriamente vibrante, poiché raggiunte con smussamenti in piano. Anche nel suo caso, il volume rimane stabile all’interno delle varie parentesi liriche ma si apprezza la resa occasionale dei salti discendenti con maggior intensità sulla nota più alta e conseguente diminuzione su quella più bassa, al fine di fare più presa nei processi d’invettiva psicologica. Nobile, regale nel portamento, severa nel cipiglio e sinceramente preoccupata nell’impronta del vibrato l’Enrichetta di Francia dipinta da Rossana Rinaldi. Non lontana da un timbro sopranile, sfoggia un corposo registro di petto che dona autorevolezza ai versi, sostenuto da un’efficace proiezione dovuta ad una corretta impostazione della voce. Giusto un lieve ovattamento ne stempera la sonorità dal centro al centro-grave, rendendo meno di carattere qualche intervento nella scena con Riccardo, per poi lasciare campo alla nettezza delle note gravi. Gianluca Margheri si rivela un Lord Gualtiero Valton di espressiva presenza scenica, come quando osserva Elvira calarsi nel dolore dopo la partenza di Arturo. Significativa la dicotomia vocale tra un registro grave netto e limpido, adeguato alle severe parole nei confronti della prigioniera e le morbide inflessioni dei centri, che tradiscono spontaneamente un sottile senso di paterna dolcezza verso la figlia. Infine, con voce ferma e senza particolari problemi di diffusione almeno nelle note non troppo basse, Saverio Fiore realizza con asperità i risoluti interventi dell’ufficiale puritano, nel suo cercare di distogliere Riccardo dalle desolate riflessioni d’amore. Discontinua la direzione di Matteo Beltrami a capo dell’orchestra del Maggio. Il maestro approccia l’opera con tempi rapidi che solo occasionalmente diminuiscono nell’incedere, come nei momenti di maggior solennità, senza perdere di vista una conduzione incalzante, ben atta al senso d’apprensione instaurato a più riprese dai tremoli dei violini, che mantiene in piano le volate discendenti degli archi in modo da dare spesso risalto agli interventi di corni e percussioni. Sebbene in più occasioni le accelerazioni ritmiche siano esageratamente marcate, ciò conferisce tendenziale freschezza all’agogica e scorrevolezza all’andamento del dramma, integrando le scene di maggior staticità. Gli si riconosce sicuramente l’impegno di aver assecondato nell’accompagnamento i numerosi momenti solistici, tra l’altro tutti eseguiti integralmente con i doverosi “da capo”, ma dalla direzione di un ruolo come questo ci si aspetterebbe il ricorso ad una più ricercata gamma coloristica ed un maggior impegno verso il recupero autentico della partitura belliniana, non esente dagli usuali tre tagli di tradizione (terzetto atto primo, parte del duetto Elvira-Arturo dell’atto terzo e la “cabaletta a due” conclusiva), tralasciando qualche altra limatura di entità minore. Se l’equilibrio si riassesta negli ultimi due atti, difetta in particolare la prima parte dell’opera, in cui dalla buca le sonorità si fanno a tratti dirompenti, al di fuori delle dinamiche del belcanto. Passi questo nelle scene di soli coro ed orchestra, mentre piuttosto eclatante è il modo in cui viene inficiato il risultato complessivo di alcune parti con i cantanti principali, soprattutto in fase di duetto e nelle transizioni tra numeri. Distante dall’essere narratore della vicenda, il coro del Maggio Musicale Fiorentino segue la preparazione del maestro Lorenzo Fratini prendendo parte emotivamente agli eventi, pronto ad esultare a festa, ad attenuare i suoni a cui susseguono balzi emotivi in rinforzo nel partecipare al dolente racconto di Giorgio sulla salute di Elvira od ad infondere speranza nella protagonista cingendola in abbracci figurativi, dopo i languenti staccati di un dolore che lo vede più volte accasciarsi al suolo. La caratteristica principale è però quella di una prova decisamente al di sopra dei ranghi che, oltre a diminuirne la compattezza, lo coglie nell’insieme “tirato” a livelli iperbolici contribuendo, in concomitanza con i picchi orchestrali, a spiacevoli coperture. A chiusura di sipario, un pubblico particolarmente di fretta (probabilmente a causa del ritardo nell’inizio dell’opera dovuto allo sciopero indetto) non sembra aver tempo per applaudire degnamente gli interpreti ma solo per abbozzare segni di controversi dissensi verso il direttore e l’allestimento, dimostrandosi non all’altezza di questa prima fiorentina.