Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2014-2015
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Nicola Luisotti
Maestro del Coro Ciro Visco
Soprano Erika Grimaldi
Mezzosoprano Varduhi Abrahamyan
Tenore Antonino Siragusa
Basso Ildebrando D’Arcangelo
Wolfgang Amadeus Mozart: Sinfonia in re maggiore n. 38 “Praga” K. 504
Gioachino Rossini: “Stabat Mater”, per soli, coro e orchestra
Roma, 12 gennaio 2015
Nicola Luisotti è certamente un nome nel panorama musicale internazionale: suo nido è l’Italia, ma sua patria musicale, ora, è l’America. Dirige nei più importanti teatri degli States, ottenendo ottimi risultati. Qui all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia torna con un programma nient’affatto agevole: una delle tarde sinfonie di Mozart, la cosiddetta “Praga”, e lo Stabat di Rossini, una partitura di una difficoltà titanica.
Il primo tempo è interamente dedicato a Mozart. La K. 504, dedicata alla città di Praga (luogo dov’ebbe la sua prima esecuzione), presenta di base la difficoltà di ogni partitura mozartiana: l’estrema facilità della scrittura, che si lascia facilmente maltrattare. A questa tersa, apparentemente facile scrittura, nel caso specifico della “Praga”, si unisce la complessità emotiva, umana dell’ultimo Mozart. Questa complessità Luisotti la sente, ma forse non la sa trasmettere al meglio. La direzione complessiva risulta, dunque, buona ma non eccelsa: qualche problema in taluni attacchi non perfettamente decisi, un lieve impantanamento nelle zone di più dilatato adagio che costellano la partitura, rendono alcuni passaggi piuttosto deboli, per quanto Mozart si lasci dirigere anche da sé. Particolarmente riuscito è l’ultimo movimento, in cui Luisotti riesce a trasmettere un’atmosfera più briosa, dove in precedenza aveva forse deterso troppo il suono, rarefatto l’atmosfera più calda e palpabile.
Lo Stabat Mater di Rossini è una partitura che finalmente, negli ultimi decenni, sta acquisendo la fama e l’attenzione che merita: una curiosa, sincretica mescolanza di serio, aulico, sacro e faceto, umano. La chiave per interpretarlo al meglio è saper dosare adeguatamente tutti questi elementi, non obliando mai che è la sacralità che deve emergere su tutti gli affetti. Dopo la defezione di Maria Agresta, il ruolo del soprano è preso da Erika Grimaldi, nota al pubblico romano per l’interpretazione di Anaide nel Moïse et Pharaon diretto da Muti nel 2010 al Teatro dell’Opera di Roma, dove diede ottima prova di sé. Nel ruolo da soprano dello Stabat, il suo mezzo vocale è purtroppo non adeguatamente potente da permettere l’esplosione di tutto il pathos che Rossini aveva evidentemente riversato in questa scrittura: nell’Inflammatus et accensus tutta l’impalcatura tecnica regge, ma la sua voce quasi non si sente in qualche passaggio. Quasi agli antipodi, l’armena Varduhi Abrahamyan sembra possedere più voci in una; un timbro proteiforme e floridi armonici le rendono facile il compito nei passaggi in cui c’è più bisogno della potenza vocale (e difatti nel duetto Quis est homo, qui non fleret la sua voce tende a coprire quella della Grimaldi); nella cavatina Fac ut portem Christi mortem, però, ci mostra anche qualche gioco di fioretto con qualche filato. Il ruolo del tenore è sorretto da Antonino Siragusa, che con la sua voce granulosa, povera di armonici, non riesce a dare il senso sacro dell’evanescenza: il suo “Cujus animam gementem”, benché intonato, presenta qualche passaggio stentoreo e nel finale si perde in un inelegante mancanza di tatto musicale. Il migliore del quartetto è Ildebrando D’Arcangelo: il suo “Pro peccatis suae gentis” lascia emozionati e la sua voce scura, pastosa, caravaggesca, ammalia e conquista. Risulta solenne nelle prime frasi e onirico nel fraseggio della parte della ripetizione. Non ha caso è il migliore: D’Arcangelo ha, difatti, studiato e eseguito lo Stabat con Antonio Pappano, l’ultimo a aver portato all’Accademia la partitura prima di Luisotti. Il ricordo di quella strabiliante esecuzione lo si può ancora godere nella sua registrazione in CD con interpreti del calibro di Netrebko, DiDonato, Brownlee e, appunto, D’Arcangelo. Forse non era perfettamente in serata, ma Luisotti avrebbe potuto fare veramente di meglio, soprattutto nello Stabat, imponendo ancora tempi troppo dilatati o mancando di evidenziare qualche emozione musicale. Il confronto con la versione di Pappano non può che vedere incoronato quest’ultimo. Una menzione speciale va al sublime coro di cui l’Accademia si fregia, che ha reso indimenticabile, al solito, ogni suo intervento o passaggio, dal finale caratterizzato da una fervida ieraticità, al Quando corpus morietur, cesellato da smorzando favolosi.