Felice Romani (Genova, 31 gennaio 1788 – Moneglia, Genova 28 gennaio 1865)
Notizie biografiche
“Il Conte di Cavour, che pur faceva molto conto dell’ingegno di Felice Romani, gli disse un giorno: «Ma Lei è troppo classico, e adesso i lettori vogliono il romanticismo e i romantici».
Al che egli, colla sua solita franchezza, rispose: «Io non sono né classico né romantico; amo il bello e l’ammiro ove c’è. Non son nemico di alcune genere fuorché del cattivo – e lo protesto altamente perché non mi si affibbi la veste di pedante e non mi si attacchi la mitera di retrogrado e di peggio ancora, come è vezzo di certi critici che non disputano ma vilipendono. – Anch’io voglio il progresso, purch’io sappia dove si va e che cosa si va a fare».
Felice Romani cerca il bello, e là ove lo trova, senza pregiudizio di scuola o di nazione, vi applaude”.
In queste parole poste all’inizio della biografia di Emilia Branca, moglie di Romani, è ben sintetizzata la poetica del librettista italiano che al di là della polemica classico-romantica che infuriava nei primi decenni dell’Ottocento cercava nella sua produzione librettistica e poetica in generale sempre il Bello che costituisce il fine ultimo dell’attività artistica a prescindere dalle estetiche e dalle correnti letterarie. Definito in modo esagerato da un suo contemporaneo, Giovanni Ermans in una lettera lui indirizzata il 23 aprile 1846, il Dante dei nostri tempi, Giuseppe Felice Romani nacque, primo di 12 figli di una famiglia benestante, a Genova il 31 gennaio 1788 da Angelo Maria e da Geronima Viacata. Dopo aver seguito gli studi classici nella sua città, si trasferì a Pisa dove frequentò per un certo periodo la facoltà di giurisprudenza, ma il suo forte interesse per la tradizione classica e per la letteratura lo portò ad abbandonare gli studi intrapresi per seguire i corsi della facoltà di Lettere nell’università della sua città dove ebbe come maestri, fra altri prestigiosi nomi, il grecista Giuseppe Solari. Laureatosi in breve tempo, ottenne la nomina di insegnante supplente per quattro classi importanti e in seguito quella di insegnante di Letteratura greca in sostituzione di Solari; egli, però, rifiutò tale nomina non volendo essere complice di recata offesa all’onore di un grand’uomo ed affliggere colui verso il quale nutriva riconoscenza e affetto (E. Branca, Felice Romani ed i più riputati maestri del suo tempo, Loescher, Torino 1882, p. 17). Egli continuò ancora a manifestare la sua riconoscenza e il suo affetto al suo amato maestro, morto nel 1814, dedicandogli 8 sonetti nei quali espresse tutto il suo disgusto per l’ingiustizia e l’invidia di cui Solari era stato oggetto. Lasciata l’università, intraprese un lungo viaggio per l’Europa visitando la Spagna, la Grecia, la Germania dove conobbe Meyerbeer con il quale avrebbe in seguito collaborato per alcune opere teatrali; soggiornò anche a Parigi dove ebbe la fortuna di conoscere personaggi famosi dai quali ricevette onori e attestati di stima, ma conobbe anche letterati e musicisti la cui frequentazione arricchì la sua esperienza che gli sarebbe stata utile per il suo lavoro di librettista.
Egli amava molto la musica e sin da studente aveva scritto testi anonimi per melodrammi; si sentiva, infatti, predisposto per tale lavoro convinto che avrebbe potuto dire qualcosa di nuovo in merito. La sua convinzione nella possibilità di riformare il melodramma era condivisa dai molti amici che frequentò a Milano tra cui Vincenzo Monti, Lamberti, Perticari e Perracchi presso il quale abitò; furono proprio loro ad incitarlo ad intraprendere tale carriera il cui spunto iniziale gli fu fornito dal compositore Sinome Mayr che gli commissionò il libretto La rosa bianca e la rosa rossa, andata in scena a Genova nel 1813. L’opera, che riscosse un discreto successo, sancì l’avvio della brillante carriera di librettista di Felice Romani; la collaborazione con il compositore tedesco, infatti, per altre opere, attirò l’interesse di Rossini, che gli commissionò i libretti per Aureliano in Palmira, Bianca e Faliero e Il turco in Italia. La collaborazione con Rossini gli diede una fama tale da essere ricercato dai maggiori operisti tra cui Donizetti per il quale scrisse i libretti di Anna Bolena, Parisina, Lucrezia Borgia, Elisir d’amor, nei quali si nota, per gli argomenti trattati, un avvicinamento al gusto romantico che il pubblico cominciava a prediligere. Molto importante e prolifico fu per Romani l’incontro con Vincenzo Bellini dalla cui collaborazione nacquero grandi capolavori come Il Pirata, La Straniera, Beatrice di Tenda, I Capuletti e i Montecchi e soprattutto Sonnambula e Norma.
Più eclatante della rinuncia alla nomina di insegnante di Letteratura Greca fu quella alla carica di poeta cesareo che gli fu offerta nel 1816. Romani dimostrò, infatti, un forte sentimento patriottico e un grande coraggio nel rinunciare ad un incarico di grande prestigio e molto favorevole dal punto di vista economico. Caduto il regno d’Italia e istauratasi la dominazione austriaca in Lombardia, la Corte di Vienna, che apprezzava il suo talento, gli aveva offerto quell’incarico di poeta cesareo che era stato ricoperto da Metastasio, ma che egli non esitò a rifiutare perché si sentiva troppo italiano per poter prendere la cittadinanza austriaca com’era previsto dagli obblighi inerenti a tale incarico.
Restò, quindi, a Milano ottemperando agli impegni presi con Francesco Ricci, impresario della Scala, con un contratto che prevedeva la stesura di 6 libretti all’anno il cui genere poteva essere serio, semiserio, buffo secondo le esigenze del teatro. Nello stesso tempo svolse anche un’intensa attività di letterato e di critico scrivendo articoli per «L’ape italiana» e «Vespa», ma la sua opera più importante fu la compilazione, insieme ad Antonio Perracchi, del «Dizionario d’ogni Mitologia e Antichità», pubblicato tra il 1809 e il 1828 in sei volumi a cui si aggiungono due supplementi, il cui scopo è chiaramente espresso nel Proemio:
“Destinata quest’opera ad agevolare l’intelligenza degli scrittori e monumenti antichi, a soccorrere ne’ loro studi i giovani letterati e gli artisti, avrebbe essa servito all’intento se alla nuda mitologia fosse stata ristretta? Non è già delle sole favole che si giovano le muse e le arti; non è della sola religione che si appaga la filosofia. Esse hanno d’uopo di sollevare, per quanto possibile, il denso velo che copre le generazioni trapassate, e d’interrogarle sulle loro gesta, sui loro costumi, sulle loro consuetudini pubbliche e private. Un deserto sarcofago, una statua mutilata, una medaglia irruginita [sic], un sasso, una lapide, una colonna rovesciata, quanto insomma è avanzato alla voracità del tempo ed al ferro de’ barbari, tutto è soggetto delle loro meditazioni, tutto è ammaestramento e diletto per esse. Invano l’umana curiosità penetrando nelle rovine de’ templi e delle reggie, nel silenzio delle tombe, e fra le arene che seppellirono i regni, invano tenterebbe spiegare gli arcani dei secoli, se l’istoria, vincitrice de’ secoli stessi, non ne interpretasse il misterioso linguaggio […]. Dimodoché non si può studiare perfettamente la religione dei popoli senza studiarne la storia, né la storia senza la religione; ed ove ci manchi la loro reciproca luce, l’oblio si asside sulle rovine, son muti i marmi e i metalli, e vano suono è il linguaggio delle muse. Per la quale cosa abbiamo osato di riunire in un sol corpo tutti gli elementi che sono indispensabili allo studio delle antichità, e di chiamare a rassegna tutti i popoli estinti dei quali ci rimane qualche memoria. Né abbiamo dimenticato i viventi massimamente quelli che calati nei deserti o circondati dall’immensità dell’oceano vieppiù risvegliano la nostra curiosità”.
La fama di Romani come uomo colto andava diffondendosi sempre più e non lasciò indifferente nemmeno il re Carlo Alberto che, per realizzare lo scopo di dare un nuovo impulso alle lettere, alle arti e alle scienze, prefissosi sin dagli inizi del suo regno, nel 1834 gli conferì la carica di direttore della «Gazzetta Ufficiale Piemontese», la rivista che, con i suoi articoli, sarebbe diventata un modello di buon gusto e punto di riferimento per i giovani letterati. Romani accettò di buon grado l’incarico così onorifico e si impegnò con entusiasmo in questo nuovo compito non volendo deludere le aspettative non solo del mondo culturale piemontese, ma della stessa corte e del re che lo nominò Cavaliere del Merito Civile di Savoia e ricorse ai suoi pareri sulle opere alle quali doveva premettere la dedica. Nonostante gli apprezzamenti dei letterati, di molti membri della corte e del governo la vita per Romani non fu facile e ben presto si trovò a dover ingaggiare battaglie con lettere e scritti con Brofferio che probabilmente aspirava al suo posto nella Gazzetta. Proliferarono quindi lettere e dibattiti fra i sostenitori di entrambi, accuse e critiche reciproche non solo sulla «Gazzetta», ma anche sul «Messaggiere torinese» e sul «Furetto». Mentre a Torino si facevano più dure le controversie fra i partigiani di Brofferio che si proclamavano liberali e romantici progressisti e quelli di Romani che si vantavano di essere classicisti e più prudenti in politica, a Milano cresceva il rimpianto per la sua assenza e il desiderio di un suo ritorno invocato con lettere tra cui quella di Regli dove si legge:
“Tutta Milano è dolentissima per la tua partenza, e di sì vivo e verace rammarico avrai tu più di una prova. Dovunque si parla di te; ognuno ti desidera qui!”
In occasione di un suo breve ritorno a Milano furono dati in suo onore due sinfonie, un’aria e due cori in uno dei quali scritto da Regli si inneggia a lui con questi versi:
Oh! di Bellini il vate,
Colui che lo ispirò,
Romani, onor d’Ausonia,
Amor fra noi tornò.
Dal 1834 al 1849 la «Gazzetta», grazie all’ingegno e all’operato di Romani, raggiunse un prestigio eccezionale, ma gli eventi politici accelerarono il suo declino già preannunciato dalla bancarotta avvenuta nella prima metà d’aprile del 1848 a causa dell’appropriazione del denaro del giornale ad opera dei fratelli Casimiro e Carlo Favale, cassieri e tipografi della «Gazzetta» che agirono per ordine del ministero da cui dipendevano. Nel 1849 Romani, su richiesta di Pinelli, ministro dell’Interno, si accinse a scrivere un lavoro in occasione della traslazione della salma di Carlo Alberto da Oporto a Torino e progettò una cantica in terza rima divisa in tre canti dal titolo Cielo e terra, un’opera che testimoniò ancora una volta tutta la sua genialità di letterato. Per ultimarla si trasferì a Moneglia, ma, completato il lavoro che avrebbe dovuto essere pubblicato sulla «Gazzetta», incontrò qualche problema perché ottenne il permesso di pubblicarla dal re Vittorio Emanuele a patto che fosse tolta l’espressione vergognoso patto in riferimento all’armistizio di Novara. Nonostante ciò la pubblicazione della cantica, della quale era già uscita una parte, fu sospesa e lo stesso Romani non ebbe più il suo posto nel giornale. Iniziò così per lui un periodo abbastanza triste, costellato da varie battaglie intraprese contro i nuovi governi per mezzo di avvocati; questo riposo obbligato, tuttavia, fece sperare in un suo ritorno all’antico amore, il melodramma, e molte furono le richieste di testi per opere liriche. Egli le rifiutò tutte, limitandosi a scrivere Edita di Lorno per il conte Giulio Litta rappresentata al teatro Carlo Felice di Genova nella primavera del 1853 e Cristina di Svezia per il maestro Thalberg rappresentata nel 1855 nel teatro di corte di Porta Carinzia a Vienna.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita a Moneglia circondato dall’affetto dei suoi famigliari, ma rattristato a causa della tragica morte di una bambina di nome Gina, figlia di una domestica, che viveva presso di lui, e dei tumulti scoppiati a Torino tra il 21 e il 22 settembre 1864 in seguito al trasferimento della capitale a Firenze. Morì a Moneglia per un attacco apoplettico il 28 gennaio 1865, compianto persino dai suoi nemici. Tutti i giornali dedicarono articoli di stima per il suo ingegno tra cui quello scritto da De Agostini sul «Vessillo d’Italia»
“Felice Romani, anima piena di armonie celesti: ricca, come poche altre di grazia e di forza nelle Arti dello stile: inspiratrice di eterne musicali bellezze ai più celebrati compositori dell’età nostra: intelletto possente come Lopez de Vega a concepire e dettare centinaia e centinaia di Drammi e Poemi epici, e Liriche nobilissime e Prose stupende, e Canti di purissima vena: – Felice Romani: il Poeta più popolare dei teatri dei due mondi, quello che diede loro la Norma, la Beatrice, la Sonnambula, l’Anna Bolena, l’Elisir d’amore, e simili altre creazioni che dureranno immortali nei fasti della Melopea italiana”.
Anche Bersezio espresse parole di elogio sulla «Gazzetta»:
“Una dolorosa notizia ci venne a colpire nel pomeriggio di ieri, Felice Romani, il gentile poeta, il critico arguto e cortese, l’elegante e delicato prosatore, cessava di vivere in Moneglia, colpito improvvisamente da un colpo apoplettico. Noi che l’abbiamo conosciuto ed amato, non solo come una gloria di quella italiana letteratura che vede con tanto danno cadere ad una ad una le frondi della sua oggidì purtroppo non ricca corona […]. Chi non ricorda i versi dolcissimi dei suoi Melodrammi? Chi non rammenta le strofe delle sue Canzoni in cui corre il soffio potente dell’ispirazione temperato alla più pura ragione dell’arte? Chi non ha presente tuttavia la lunga carriera dal Romani percorsa nel giornalismo letterario, dove stette difensore instancabile… delle classiche tradizioni contro ogni tentativo innovatore che a lui paresse un piegare alla barbarie?”
Una bella testimonianza di stima è anche la lettera di Giovanni Pacini a Regli:
“Ecco un’altra perdita per l’arte, per l’Italia e per quanti amano «L’uomo d’ingegno e di virtù ripieno». Felice Romani non è più! Egli ci ha preceduti a regioni migliori, ove l’invidia non regna ed ha solo premio il giusto!”.
Come fu onorato in vita da principi, letterati, uomini politici con vari riconoscimenti, così lo fu dopo morto. Le sue spoglie, infatti, furono tumulate nel Panteon di Genova accanto ad altri uomini illustri; in suo onore fu innalzato all’interno del cimitero monumentale di Staglieno e dalla direzione del teatro Paganini fu posto un suo ritratto tra i più grandi compositori italiani