Modena, Teatro Comunale: “Les contes d’Hoffmann”

Modena, Teatro Comunale “Luciano Pavarotti”, Stagione d’opera 2014/2015
LES CONTES D’HOFFMANN
Opéra-fantastique in cinque atti, libretto di Jules Barbier e Michel Carré
Musica di Jacques Offenbach
Edizione critica di Michael Kaye e Jean-Christophe Keck, Ed. Schott
Hoffmann GIORGIO BERRUGI
Lindorf / Coppélius / Docteur Miracle / Dapertutto
SIMONE ALBERGHINI
Olympia
ELISA CENNI
Antonia / Giulietta / Stella
MARIA KATZARAVA
La Muse / Nicklausse
VIOLETTE POLCHI
Hermann / Peter Schlémil
JOSEF SKARKA
Nathanaël / Cochenille
ORESTE COSIMO
La Voix de la Tombe
ALINE MARTIN
Maître Luther / Crespel
OLIVIER DEJAN
Wolfram
ANDREA BIANCHI
Wilhelm
ALESSIO VERNA
Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna
Direttore Christopher Franklin
Maestro del Coro Corrado Casati
Regia Nicola Berloffa
Scene Fabio Cherstich
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Luca Antolini
Coproduzione Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, in collaborazione con Opéra de Toulon e Nancy Opéra Passion.
Modena, 23 gennaio 2015

Alzi la mano chi sa ricostruire con infallibile sicurezza genesi e versioni de “Les contes d’Hoffmann”. La morte prematura del compositore durante le prove, l’incendio dell’Opéra-Comique e la conseguente perdita di molte pagine manoscritte del compositore, il ritrovamento molto tardivo (a fine del Novecento) del libretto originale depositato alla censura e di alcuni brandelli di partitura di mano dell’autore. E in mezzo revisori, impresari, musicologi, ognuno pronto a mettere mano più o meno disinvolta alla musica di Offenbach. Tutto questo rende ogni nuova messinscena dei “Contes” un’impresa insidiosa: non esiste scelta esecutiva che non porti dietro di sé un qualche difetto o scopra il fianco a qualche rimprovero.
L’allestimento di Modena si serve dell’edizione critica di Michale Kaye e Jean-Christophe Keck, indubbiamente la più aggiornata ed esaustiva nel raccogliere le varie tessere del puzzle hoffmanniano. Questo permette al pubblico italiano di sentire per la prima volta alcuni brani che la vecchissima e consolidata edizione Choudens (tuttora eseguita: basti ricordare le recentissime rappresentazioni a Pavia e Novara, già recensite da GBOpera) non comprendeva: è il caso delle arie “L’amour lui dit: la belle” e “Vois sous l’archet frémissant” nonché della splendida Apothéose finale (qui tagliuzzata). Chi dei “Contes” è appassionato già conosce questi pezzi grazie a dischi e video, ma sentirli cantati in teatro è tutt’altra storia. Lascia però perplessi il trattamento dell’atto di Giulietta, amputato di molta musica di Offenbach a favore di brani noti sì (ma davvero imprescindibili per il pubblico attuale?) eppure chiaramente apocrifi, come l’aria di Dapertutto “Scintille, diamant” e il Settimino, concertato di grande impatto ma che rallenta inesorabilmente l’azione. Manca poi l’allettante finale d’atto così come emerge dai più recenti ritrovamenti musicologici, stando al quale Hoffmann uccide il nano Pitichinaccio, vero amante di Giulietta. Altro dato che può sembrare secondario, ma che secondario non è: si decide qui di eseguire i recitativi musicati perlopiù da Ernest Guiraud e mai i dialoghi in prosa previsti dal primo libretto. Si dà in questo modo all’opera il taglio di grande opera romantica: scelta legittima, purché non vada a scapito del sapore operettistico, leggero, più frivolo che pure (è innegabile) fa parte del DNA dell’opera.
Come invece succede fra i leggii dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna (non sempre in forma: passi che l’opera è lunga e faticosa, ma emergono troppe magagne, soprattutto fra i legni) diretta da Christopher Franklin. Giovane ma di solido mestiere operistico, cerca sonorità piene che spesso trova e rende giustizia ai momenti in cui la scrittura orchestrale si fa più fitta (vedi il pur discutibile Settimino di cui già si è parlato), senza sopraffare i cantanti. Soffrono invece di una certa pesantezza (ogni tanto sono pure mutilati) i couplets e le chansons di cui l’opera è costellata. E non sempre convince il feeling con il Coro del Teatro Municipale di Piacenza, ora troppo esile, ora poco agile, non sempre capace di grande tenuta d’insieme e di reagire a certi stacchi brillanti richiesti dal direttore.
Aria simile circola anche sul palcoscenico. Il regista Nicola Berloffa cala l’opera fra le mura di un grande salotto Biedermeier, tratteggiato in maniera visivamente appagante dallo scenografo Fabio Cherstich e dalle luci fin troppo ricercate di Luca Antolini. Sulla destra un camino da cui sbucano alcuni personaggi, sul fondo un sipario: un interno borghese che occhieggia a certi teatrini da film di Méliès, calzante per il cupo atto di Antonia (saranno foglie del tiglio tanto caro ai romantici quelle che scendono sulla fanciulla morente?), opprimente nell’atto di Venezia, dove si evoca una decadentissima sala d’attesa di bordello, illuminata da qualche sigaretta e da una grande sfera stroboscopica che scende a sorpresa. Un’atmosfera che evoca il romanticismo degli originali racconti di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann e sembra guardare oltre, a Ibsen e a Thomas Mann. Nessuna traccia di charme francese, i momenti comici appaiono pesantucci, i cantanti sono sovente lasciati a loro stessi nel gestire la scena e se la cavano (come troppo spesso accade) ognuno come può e come vuole. Per cui assistiamo alla prestazione di un Giorgio Berrugi in ottima forma, Hoffmann di timbro raccolto e gradevole, capace di restituire con fraseggio morbido le parti cantabili del suo ruolo e di salire all’acuto con bella omogeneità di registri. Peccato che al suo fianco per tutta l’opera ci sia Violette Polchi, di pronuncia molto più approssimativa e timbro povero, senza risonanze gravi, inerte nei panni di Nicklausse e della Musa, personaggio che qui purtroppo perde qualsiasi aura fascinosa. Simone Alberghini riconferma invece emissione e legato sicuri, tecnica infallibile (la puntatura all’acuto alla fine della già discussa “Scintille, diamant” è risolta con inaudita facilità), elegante nella voce e sulla scena in tutti e quattro i ruoli demoniaci di Lindorf, Coppélius, Miracle e Dapertutto. Due invece le cantanti che si spartiscono i quattro ruoli femminili: se la bambola Olympia è affidata a Elisa Cenni, che rende piena giustizia all’impervia coloratura della sua celeberrima aria, alla sola Maria Katzarava spettano i personaggi di Antonia, Giulietta e Stella. Vocalmente generosa, sfoggia un registro acuto sempre brillante, sicurissimo e pieno. Scenicamente più convincente come Antonia, regala una Giulietta a suo agio in tutta la tessitura. Di alto livello i comprimari capitanati dal tenore Florian Cafiero, nel quadruplice ruolo di Andrès, Spalanzani, Frantz, Pitichinaccio: personaggi grotteschi, resi con timbro sempre bellissimo e buona dizione, padroneggiati in acuto, tratteggiati senza espedienti da farsa. Impeccabile anche l’altro tenore, Oreste Cosimo, nei ruoli di Nathanaël e del servo Cochenille (in abiti di vecchia istitutrice, chissà perché). Il baritono Olivier Dejan sfoggia invece una bella linea di canto nel ruolo non piccolo di Crespel (fondamentale il suo apporto nel terzetto del terzo atto) ed è un valido Maître Luther. Buoni Josef Skarka (Hermann e Schlémil, che purtroppo qui ha ben poco da cantare) e Aline Martin nei tenebrosi panni dell’apparizione della madre di Antonia. Piacevolissimi Andrea Bianchi e Alessio Verna, scelti fra i coristi per interpretare i due studenti Wolfram e Wilhelm. Successo pieno per un’opera che pur nella sua forma sfuggente, composita, ogni volta diversa, continua ad affascinare il pubblico italiano. Foto Luigi Boschi