Teatro Filarmonico – Stagione d’Opera e Balletto 2014/2015
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in tre atti, Libretto di Salvatore Cammarano
dal romanzo The bride of Lammermoor di Walter Scott
Musica di Gaetano Donizetti
Miss Lucia IRINA LUNGU
Sir Edgardo di Ravenswood PIERO PRETTI
Lord Enrico Ashton MARCO DI FELICE
Raimondo Bidebant INSUNG SIM
Lord Arturo Bucklaw ALESSANDRO SCOTTO DI LUZIO
Alisa ELISA BALBO
Normanno FRANCESCO PITTARI
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Salvo Sgrò
Regia Guglielmo Ferro
Scene Stefano Pace
Costumi Françoise Raybaud
Luci Bruno Ciulli
Video Maker Massimiliano Pace
Allestimento del Teatro Massimo Bellini di Catania
Verona, 13 Dicembre 2014
Morta una Lucia se ne fa un’altra. E così, mentre una Lucia/Mimì rende l’anima a dio nella tana squallida de La Bohème – ultima opera in cartellone della scorsa stagione operistica al Filarmonico – un’altra Lucia è il luminoso esordio della stagione 2014/2015 e proprio il 13 Dicembre! L’ overdose di Lucie, e la scelta intelligente dell’orario tardo-pomeridiano, chiamano un pubblico numeroso ed entusiasta della performance, a giudicare dalla quantità di applausi e ovazioni a scena aperta. Il cast è davvero degno di nota, a partire dalla coppia protagonista: Irina Lungu e Piero Pretti si mostrano a proprio agio nel ruolo, nei momenti a solo più che in quelli d’insieme. Il loro duetto, registicamente freddo, dal punto di vista vocale è reso egregiamente, con la giusta intensità e mettendo in luce le rispettive qualità timbriche.
Irina Lungu è una Lucia vocalmente interessante, sicura in ogni tessitura; l’intonazione non perde un colpo e anche il fraseggio risulta ben curato. La scena della pazzia mantiene le promesse di un eccellente Regnava nel silenzio, e se scenicamente la Lungu si deve un po’ arrangiare, a fronte di una regia pressochè inesistente, la voce è in ottima forma, il suono in maschera, i sovracuti soddisfacenti e intonati. La cantante domina l’orchestra e nella cadenza col flauto (che non ci fa rimpiangere l’utilizzo della costosissima glassarmonica) la sua voce si dispiega con sicurezza. Le colorature sono precisissime e la cadenza è coronata da un Mi bemolle perfetto e rotondo. Bravissimo anche Piero Pretti, un Edgardo caldo nel centro e squillante in acuto. Anche lui deve far da sé per quanto concerne recitazione e gestualità, un peccato perché musicalmente la sua performance è davvero notevole. Ad un fraseggio dolcissimo anche nelle tessiture più proibitive Pretti accosta una pronuncia perfetta e sempre distinguibile, anche nel delicato momento del sestetto Chi mi frena in tal momento, di buon effetto complessivo. Tombe degli avi miei, è un finale sicuro e commovente, nonostante la sostanziale immobilità registica.
Prova complessivamente positiva per l’Enrico di Marco Di Felice, che ha bisogno di un po’ di tempo per riscaldarsi e realizzare una bella performance; Cruda funesta smania è perfettamente nelle sue corde, ma, purtroppo ci tocca osservarlo ancora una volta, scenicamente ancora troppo fermo per risultare coinvolgente. Ma Di Felice è un buon baritono, e, una volta entrato nei panni del crudele fratello di Lucia, è credibile e vocalmente in forma. Il legato è filologico e la voce sicura nel centro e ben piazzata in acuto. Ritmicamente preciso, Di Felice si fa notare per l’ottima dizione e per la cura nei passaggi di registro. Successo personale per il Raimondo di Insung Sim in cui al timbro caldo e corposo si associa una presenza scenica ragguardevole. Il suo “Dalle stanze ove Lucia” è adeguatamente intenso e patetico, ma in tutti i suoi interventi la precisione ritmica e l’ottima pronuncia fanno del basso coreano un interprete eccellente. La tecnica è curata, per quanto Sim Insung ponga molta più attenzione sul fraseggio, che non presenta cedimenti. Alisa è Elisa Balbo, volto noto al Filarmonico; il giovane soprano non perde il vizio del suono ingolato ma resta credibile nel ruolo della damigella di Lucia. Completano adeguatamente il cast Francesco Pittari (Normanno) e Alessandro Scotto di Luzio (Arturo). Fabrizio Maria Carminati è un ottimo padrone di casa, che asseconda le voci senza perdere la propria idea musicale, ben concretizzata da un’orchestra che lo segue senza esitazioni. Le atmosfere celtiche non possono rinunciare al loro strumento principe, così quando si rompe una corda dell’arpa è lo stesso Carminati ad annunciare la breve interruzione che occorrerà per sostituirla e ripetere da capo l’incipit dell’aria di Lucia. Valida la performance del Coro, questa volta preparato egregiamente da Salvo Sgrò. Un peccato che a un team così ben concepito si accosti una regia destinata quanto meno a destare qualche perplessità. Guidati dalla mano fin troppo invisibile di Guglielmo Ferro (ma qualche giustificazione possiamo attribuirla a una presumibile esiguità di prove) i personaggi si aggirano per il palco praticamente senza reciproche interazioni, troppo spesso non è facile figurarsi quale sia l’idea registica dominante e sembra anzi che ogni artista sia lasciato alla propria bravura scenica. La scena, curata da Stefano Pace, è decisamente scarna, gli oggetti sul palco sono rarissimi (un tronco, lanterne, un tavolo, un paio di lapidi) e tutte le atmosfere dell’opera vengono ricreate con l’unico ausilio di retroproiezioni video su due teli, curate da un altro Pace, Massimilano. Da lune a nuvole, fuochi, foreste e cattedrali tutto scorre passivamente sullo sfondo in stile screen-saver. L’espediente è certo da approfondire, ma, spiace rilevarlo, l’effetto rimane piuttosto piatto. Forse una regia meno statica avrebbe potuto illuminare alcuni momenti scenicamente spenti; innegabile in ogni caso l’amaro in bocca per una serata che, con qualche sforzo in più, sarebbe stata un esordio di stagione veramente impressionante, rendendo giustizia all’eccellente cast. L’ambientazione, nonostante le opinabili scelte registiche e sceniche, rimane piuttosto tradizionale, come tradizionali sono i costumi di Françoise Raybaud. Foto Ennevi per Fondazione Arena