Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2014-2015
Orchestra e Coro e dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Juraj Valčuha
Violoncello Enrico Dindo
Maestro del Coro Ciro Visco
Bedřich Smetana: Ouverture de “La sposa venduta”
Antonin Dvořák: Concerto in si minore per violoncello e orchestra op. 104
Béla Bartók: “Il mandarino miracoloso”, pantomima in un atto su libretto di Menyhért Lengyel op. 19, SZ 73 per coro e orchestra
Roma, 2 dicembre 2014
Si respira l’aria dell’Europa dell’est all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Un direttore d’orchestra slovacco, Juraj Valčuha, affronta la scrittura di un ungherese, Béla Bartók, assieme a quella di due figli della Boemia: Bedřich Smetana e Antonin Dvořák. Il tutto crea un programma coeso e di certo fascino. Il concerto incomincia sulle note dell’ouverture de La sposa venduta di Smetana, dove Valčuha non dà il meglio di sé: anzi, il concerto, che sarà una sorta di crescendo d’intensità e di emozione, deve ancora prendere l’abbrivio giusto. La sezione iniziale dell’ouverture presenta un crescendo rossiniano basato su figurazioni velocissime degli archi che entrano in fugato, culminando in una gaia esplosione sonora. Di lì viene un’oasi di bucolica freschezza, e il tutto si ripete, conducendo a un rutilante finale. La direzione, tutto sommato, è buona, a tratti graziosa, ma mai autenticamente trascinante: si poteva indubbiamente fare di più.
Il Concerto in si minore op. 104 di Dvořák per violoncello e orchestra è uno dei pezzi migliori del boemo: molto eseguito in sale da concerto, in virtù della sua cornucopia di melodie, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia lo è dal 1922. Come già nel 1999 e nel 2002, a presentarlo è il violoncellista Enrico Dindo, veterano della partitura. Il suo stile dimesso e intenso, che privilegia gli effetti, lirico e melodrammatico, ben si adatta alla natura stilistica della partitura. Inoltre, Dindo e Valčuha hanno una notevole intesa: dunque l’esecuzione è un successo. L’allegro (I movimento), dopo un’ottima direzione dell’ampio preludio, nobile e eroico, con il tema affidato al corno, prevede un’entrata calibrata dello strumento solista, che Dindo esegue attento a un suono pacato, mai strappato, lirico e virile; l’italiano affronta con disinvoltura le più ardite difficoltà (la più singolare delle quali, i trilli acutissimi, conferisce l’impressione di un suono spettralmente acidulo). Nell’allegro ma non troppo (II), Valčuha ben interpreta il pastiche sonoro, vitreo, degli archi pizzicati cullanti i fiati, mentre il violoncello disegna una nenia ostinata, elegiaca; questa atmosfera pacatamente malinconica è appena pervasa di un attimo di energia dall’elaborata cadenza solistica del violoncello, dove Dindo non spinge mai, non forza il suono che è posto pieno, formoso, fino a una conclusione in piano. L’Allegro moderato (III) vede il dialogo del violoncellista con la compagine orchestrale; ai toni accesi si contrappone un momento dal sapore orientaleggiante, una sensuale rêverie. Il tutto è poi miscelato e sviluppato variabilmente. I due solisti riescono a rendere perfettamente questo senso di «Romanticismo borghese», come ben lo ha definito E. Girardi nel programma di sala. Gli applausi sono convinti, tanto che Dindo regala due bis: Il silenzio del bosco, sempre di Dvořák, un brano evocante suoni boschivi, per violoncello e orchestra, e una allemanda di Bach.
Generalmente, ci si auspica di partire dal caos per arrivare all’ordine: ma il direttore slovacco ha deciso di partire dall’ordine e giungere al caos. Giacché il Mandarino miracoloso di Bartók è il caos: non tanto per le dissonanze, quanto per una musica sofferentemente strappata, atta a evocare un determinato e tragico periodo storico. Valčuha appare perfettamente a suo agio con la scrittura percussionista, sfrenata, selvaggia, ferina, finanche satanica, di questo Bartók. «Il Mandarino meraviglioso è appunto questo: la realtà dell’istinto sessuale accettata per quello che è, senza falsi pudori, e collocata al suo posto in quella concezione naturale, venata di brivido demoniaco, che faceva intuire a Bartók la realtà segreta dei fenomeni, l’al di là delle cose, oltre la loro normale apparenza sensibile»: così Massimo Mila descriveva questa scandalosa partitura, che ha resistito alle critiche di tanto moralismo borghese e si è stabilmente imposta (soprattutto la sua Suite) nelle sale da concerto. Valčuha si sfrena in questa partitura a tratti allucinante, nei suoi cambi di ritmo, nelle ripetizioni ostinate di segmenti musicali, solo talvolta venati di un lirismo malinconico (rappresentato da inserti dell’arpa e del clarinetto). Il fascino stravinskiano della partitura è tutto nel ritmo, nel timbro di alcune situazioni che suggeriscono la scabrosa vicenda. Si distinguono in questo marasma anche zone più sensuali, cui subito si legano parti virulente. Autenticamente spettrale il finale, con alcune battute del coro, che rendono ancor più straniante la musica. La direzione è eccellente: per dirigere un brano del genere bisogna essere convinti, partecipi, autenticamente dentro il pezzo: e Valčuha lo è stato, meritandosi gli applausi.